Maddalena (Campo, Calle, Rio Terrà, Fondamenta, Rio, Traghetto della). La chiesa di S. Maria Maddalena fu eretta nel 1222 dalla famiglia Baffo, e poscia costituita parrocchia. Stabilita nel 1356 la pace tra Genova e Venezia il giorno di S. M. Maddalena, decretò il Senato, in memoria del fausto successo, che questo giorno si annoverasse tra i festivi. Nel 1701 Francesco Riccardi, allora prete titolato, e poscia pievano, rinnovò la chiesa di cui parliamo. Contemporaneamente crebbe a maggior altezza il campanile, il quale era un'antica torre, posta in riva ad un canale, che fino dal 1398 troviamo interrato, e si denomina ancora «Rio Terrà della Maddalena». Questo campanile nel 1881 atterrossi. La Chiesa della Maddalena fu rifabbricata dai fondamenti dopo la metà del secolo XVIII sul disegno del Temanza. Nel 1810 cessò d'essere parrocchiale, nel 1820 fu chiusa, e poi riaperta come oratorio sacramentale.

Al «Traghetto della Maddalena» esisteva un pregevole bassorilievo lombardesco, rappresentante la Vergine e Santi, trasportato oggidì al Civico Museo. Questo bassorilievo un tempo era alla sponda opposta di S. Eustachio.

Non lungi dal «Traghetto della Maddalena» scorgonsi sul prospetto d'un piccolo palazzo, già posseduto dalla famiglia Barbarigo, e risguardante il «Canal Grande», alcuni affreschi che forse sono i più ben conservati di Venezia. Dice in tale proposito il Boschini: «Al traghetto della Maddalena, sopra Canal Grande, vi è una casa dipinta da Camillo Ballini, sopra la quale si vede Cerere sopra il carro, la Fama, il Tempo, et altre varie figure».

Maddalena (Calle, Ponte della) all'Angelo Raffaele. Presso questo ponte esiste tuttora un ospizio per sette vecchie con annesso oratorio sacro a S. Maria Maddalena. L'ospizio suddetto venne veramente fondato nel 1361 dai due fratelli Gabriele e Luciano Prior, il secondo dei quali, con testamento 27 maggio 1376, in atti di Pietro Corrosatis, pievano di S. Barnaba, costituì tutti i suoi beni a dotazione dell'ospizio medesimo, ordinando all'uopo una speciale commissarìa, costituita di sei persone, che poscia si ridussero a quattro, e finalmente ad una sola col titolo di procuratore. Anticamente l'ospizio era destinato a ricettar poveri, e quindi sette povere, vedove o donzelle. Siccome poi per lungo tempo commissarii e procuratori del pio luogo furono i Corner da S. Cassiano, così questa famiglia ebbe a pretendere che esso fosse cosa propria, e di diritto inalienabile, trasmissibile di primogenito in primogenito, per cui reggeva l'istituto senza munirsi della solita procura delle ricoverate. Ecco la ragione che l'estimo del 1661 nomina l'«hospedaletto della Maddalena, sive pinzochere, di ragione del N. U. Zorzi et fratelli Cornaro fu de s. Andrea», e che comunemente si credette averlo i Cornaro fondato. Senonché le ricoverate tolsero coll'andar del tempo l'abuso, emancipandosi del tutto dai Cornaro, ed eleggendo, con atto di procura 12 agosto 1760, in atti Domenico Zuccoli, a loro procuratore Giacomo Trevisan. Dovettero perciò sostenere una lite contro Girolamo Corner, e la vinsero con due sentenze conformi 5 maggio, e 23 settembre 1761 del «Magistrato sopra Ospedali e Luoghi Pii», che obbligarono i Corner a dimettere l'azienda dell'ospizio della Maddalena, ed a non impedire alle ricoverate la libera elezione del loro procuratore. Ora la procura è restituita nuovamente a commissaria nell'original numero di sei individui.

Madonna (Calle della) a S. Angelo. Per questa denominazione altrove ripetuta vedi Carmine (Ponte del).

In «Calle della Madonna» a S. Angelo il 27 gennaio 1712 M. V. a 4 ore di notte, venne mortalmente ferito Bartolomeo Dotti, mentre tornava alla sua casa, posta a S. Vitale, dalla conversazione di ca' Fontana. Il Dotti nacque nel 1642 in Valcamonica nel Bresciano. Chiuso pel suo genio satirico nel castello di Tortona, continuava a lanciar motti satirici contro i giudici in presenza del carnefice che ardeva le sue prime poesie. Poscia trovò modo di fuggire dal carcere passando a nuoto un torrente, e venne a Venezia, ove militò sulle galere della Repubblica, fu fatto cavaliere, e fissò la propria dimora, fungendo l'incarico di nunzio, o console, della città di Brescia. Senonché, dopo circa venti anni, i suoi componimenti satirici lo condussero a cadere sotto i colpi degli avversari.

In «Calle della Madonna» a S. Angelo abitava nel 1779 Gasparo Gozzi in casa dello stampatore Modesto Fenzo.

Madonna (Calle, Ramo della) a S. Barnaba. Qui possedeva un tempo molte case il monastero di S. Maria della Celestia.

La «Calle della Madonna» a S. Barnaba, che un tempo era sotto la parrocchia di S. Margarita, è celebre perché v'abitava quella Veneranda Porta da Sacile, la quale, d'accordo con Stefano Fantini udinese, suo amante, staffiere dei NN. UU. Dolfin sulle «Zattere», uccise la notte del 12 giugno 1779 il proprio marito Francesco Cestonaro. Ecco come venne alla luce il delitto. La mattina del 14 ritrovavasi nel pozzo, situato innanzi la porta laterale della chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, un busto d'uomo colle braccia, e poche ore dopo due coscie con gambe e piedi in un altro pozzo presso la «Fondamenta del Malcanton». La mattina susseguente appariva nel «Canale di S. Chiara» una testa, e finalmente, verso mezzodì, scoprivansi alcuni interiori in faccia il quartiere dei «Zaffi da Barca» sulle «Zattere». Commosso il Governo a così fiero caso, ordinò che si esponesse la B. V. per otto giorni nella basilica di S. Marco, ed il Santissimo in tutte le chiese di Venezia, così per espiazione, come per ritrovare i colpevoli. Faceva pure esporre al pubblico imbalsamata la testa dell'interfetto, e siccome essa portava un «rouleau» di carta, formato col brano d'una vecchia lettera, la quale avea per sottoscrizione V. F. G. C., ordinava che venisse inserito nelle pubbliche gazzette il racconto del tutto col contenuto della lettera, e colle iniziali predette. Una di tali gazzette cadde per accidente nelle mani d'un Giovanni Cestonaro, domiciliato in Este, che corse a Venezia, e rabbrividendo, riconobbe il proprio carattere, e la testa del proprio fratello, a cui aveva spedito quella lettera. Interrogato dalla giustizia, egli fece cadere i sospetti dell'assassinio sopra la cognata Veneranda Porta, e sopra Stefano Fantini, raccontando come l'estinto fratello erasi spesso lagnato per lettera della tresca che il Fantini manteneva colla Veneranda. Esaminati i rei, confessarono il delitto, ed apparve che l'avevano commesso per astio verso il Cestonaro, e per contrarre dopo la di lui morte novelli sponsali. Entrambi furono, per sentenza della Quarantia Criminale, decapitati, ed il Fantini anche squartato il 10 gennaio 1780 M. V. Essendo la «Calle della Madonna» a S. Barnaba, ove abitava Veneranda, attigua al «Campiello dei Squelini», molti pongono il fatto come avvenuto in questa località. La casa di Veneranza Porta fu demolita, e la sua area è oggidì occupata da un orto fra i N. A. 3274 A e 3277.

Alcune case di ragione della confraternita di S. Maria della Carità, ed altre di ragione della confraternita di S. Maria della Misericordia, imposero il medesimo nome ad una Calle sulla «Fondamenta di Cannaregio».

Madonna dell'Orto (Fondamenta, Campo, Ponte, Rio della). Marco Tiberio da Parma, generale degli Umiliati, eresse circa la metà del secolo XIV, una chiesa dedicata a S. Cristoforo con annesso convento. Questa chiesa fu in seguito detta della Madonna dell'Orto, o di S. Maria Odorifera, avendosi in essa collocato nel 1377 un'immagine della B. V. che stava in un orto vicino. Minacciando di cadere nel 1399, il M. C. assegnò 200 ducati d'oro per rifabbricarla. I turpi vizi a cui s'abbandonarono nel secolo XV gli Umiliati obbligarono, dietro domanda del Governo, il pontefice Pio II ad espellerli dal loro convento, ed a surrogarvi la Congregazione dei Canonici secolari di S. Giorgio in Alga. Entrovvi questa nel 1462, e venne confermata nel possedimento l'anno 1473. Pensò allora a riedificare il convento, e la chiesa, quale la veggiamo ai nostri giorni. E' probabile però che in quell'occasione si lasciasse intatta la vecchia facciata eretta da Tiberio da Parma. I Canonici secolari furono soppressi nel 1668, ed il convento della Madonna dell'Orto si comperò nel 1669 dalla Congregazione dei Monaci Cistercensi, detta di Lombardia, che abitava nel rovinoso monastero di S. Antonio di Torcello. Senonché, licenziati nel 1787 anche i Cistercensi, la chiesa passò sotto il pubblico patronato, ponendosi ad uffiziarla un rettore ed alcuni sacerdoti. Nel 1810 essa venne dichiarata oratorio di S. Marziale, e nel 1841 il Governo Austriaco ne ordinava a proprie spese un generale ristauro, al quale però, se si eccettuino i lavori della facciata, operati nel 1845, non si diede mano che nel 1855. Dopo quel tempo la chiesa cedevasi al militare, che ne faceva deposito di paglia, per cui soltanto nel 1864 si ripigliava il ristauro, che ebbe termine nel 1869. Da alcuni anni essa venne fatta parrocchiale a sostituzione della chiesa di S. Marziale.

Alla Madonna dell'Orto abitava Bartolomeo Buono, architetto della così detta «Porta della Carta» nel Palazzo Ducale. Lo troviamo infatti denominato «mastro Bortolo tajapiera alla Madonna dell'Orto». Era figlio di Giovanni q. Bertuccio, il qual Giovanni testò il 25 marzo 1442 in atti Tomaso Pavoni, ordinando sepolcro «ante introitum ecclesiae S. Mariae ab horto, sive S. Christophori».

Sulla «Fondamenta della Madonna dell'Orto», nel palazzo Bartolini, divampò un fiero incendio il 28 agosto 1738. Questo palazzo venne formato dalla famiglia Gerardi-Zecchini colle case comperate dai Roberti nel 1581, appartenne quindi ai Muti, quindi all'Ospitale dei Mendicanti, e finalmente ai Bartolini. Qui abitò Orazio Bartolini, eletto Cancellier Grande il 7 maggio 1746.

Sulla stessa Fondamenta scorgesi il palazzo Patarol, ereditato nel secolo trascorso dai Rizzo, memoria dei quali esisteva anche più anticamente in questa località nel «Sottoportico», e «Sottoportico Secondo Rizzo», ora scomparsi. I Rizzo, che avevano tomba in chiesa della Madonna dell'Orto, furono ascritti nel 1689 alla nobiltà di Padova, e nel 1781 fregiati dalla Repubblica di titolo comitale. Si estinsero nel 1833. Il giardino annesso al loro palazzo della Madonna dell'Orto fu nel 1815 visitato da Francesco I imperatore d'Austria, e dai Lazzari-Costantini, successivi proprietarii, adornossi di vaga grotta rispondente alla Laguna.

Magazén Vecchio (Ramo del) a S. Martino. V. Magazén (Calle del).

Malvasia (Calle della) a S. Lio. Questa, ed altre strade di Venezia, ripetono il nome dalle «malvasie», che erano botteghe ove vendevansi vini navigati, e specialmente quello proveniente da Malvasia, città della Morea. Troviamo nelle spese pubbliche, registrate presso il Magistrato delle «Rason Vechie», che di tal vino con semplici biscottini componevansi le colazioni degli stessi elettori dei dogi. E di tal vino usavasi anche pel sacrificio della Messa, e per le comunioni, che un tempo amministravansi sotto ambedue le specie. La malvasia si divideva in «dolce», «tonda», e «garba». I venditori di essa formavano un'arte separata da quella dei venditori d'altri vini, e raccoglievansi in chiesa S. Nicolò dei Frari sotto la Natività di San Giovanni Battista. Essi non potevano vendere vini nostrani, non far da mangiare, non dare carte da giuoco, né innalzare insegna, forse perché, non contenti della semplicità, ingombravano le vie, unendovi rami d'alloro, festoni, ed altri ornamenti. Ai medesimi era eziandio proibito d'aprir botteghe nelle strade più frequentate («Capitolare dei VII Savii, Terminazione 12 giugno 1514»), la qual legge però andò col tempo in assoluta dimenticanza.

Nel 1885 la «Calle della Malvasia» a S. Lio, mediante nuovo passaggio, si pose in comunicazione colla «Corte Licini» alla Fava, e, mediante nuovo ponte, colla «Piscina di S. Giuliano».

Malvasia (Sottoportico della) o Fiubera a San Giuliano. Per la prima denominazione vedi l'articolo antecedente; per la seconda vedi Fiubera (Calle ecc.).

Malvasia vecchia (Ponte, Sottoportico, Campiello della) a S. Fantino. Alcune strade di Venezia sono chiamate in tal guisa pell'antichità dello spaccio di «malvasia», che colà un tempo esisteva.

Presso il «Sottoportico della Malvasia Vecchia» a San Fantino, in una casa grande posseduta dai Michiel di San Tomà, si schiuse, tra la fine del secolo XVII, ed il principio del XVIII, un pubblico teatro. La prima opera fu il «Paolo Emilio», poesia del dott. Francesco Rossi, musica dell'abate Pignatta. Questo teatro non durò che venti anni (1699-1719), terminando coll'opera vigesima ottava intitolata: «La figlia che canta».

In «Campiello della Malvasia Vecchia» a San Fantino esiste un piccolo fabbricato, eretto nel 1869 da Giorgio Casarini a ricordo della resistenza di Venezia contro l'Austriaco nel 1849. Esso consiste in una specie di loggia, ove sono disposte, in ordine architettonico, molte palle raccolte dal famoso bombardamento, e vi si ammira in galvano-plastica il ritratto di Daniele Manin colla medaglia del «resistere ad ogni costo», coniata a memoria del decreto 2 aprile 1849.

Manin (Ponte, Sottoportico, Calle) a San Salvatore. Nel secolo XVI il Sansovino costrusse in questa situazione un palazzo pei Dolfin della «Ca' Grande», dai quali esso passò nei Pesaro, e quindi nei Manin. Il doge Lodovico Manin voleva rifabbricarlo di pianta, ma poscia ne conservò la facciata dietro i consigli del p. Benedetto Buratti. Architetto dell'interno fu il Selva, il quale, se gli avvenimenti politici non vi ponevano ostacolo, doveva giungere colla rifabbrica fino al «Campo di S. Salvatore». In questo palazzo pose il piede qual semplice privato Lodovico Manin nel 1801 coi nipoti, e poco appresso lasciovvi la vita. La sua famiglia discese dalla Toscana, ove si rese celebre per generali e gonfalonieri. Indi nel 1312, per le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini, trapiantossi in Udine, e finalmente in Venezia, al cui patriziato venne ammessa nel 1651. Lodovico Manin, benché ìmpari all'alto grado che sosteneva ed alle turbinose vicende dei tempi, fu uomo integerrimo e grandemente benefico. Ce lo dimostra il suo testamento, col quale lasciò una sostanza di 100 mila ducati, perché il frutto di essa fosse impiegato parte nel mantener pazzi e parte nell'educare fanciulli abbandonati.

Il palazzo Manin, quand'era dei Dolfin, fu teatro di molte feste per opera principalmente della compagnia della Calza, detta degli Accesi.

E circa il medesimo, passato già nei Manin, leggiamo nei «Notatori» di Pietro Gradenigo: «Noteremo che l'anno 1746 la notte del p.mo Aprile da mano incognita fu slanciato un globo incendiario in una stanza terrena del palazzo dei N.N. U.U. dell'opulente famiglia Manin nella contrada di S. Salvatore, fra il bivio di ristrette strade, e più fabbriche, col diabolico fine d'accendere il fuoco, e distruggere tante suppellettili, e ricchezze si può dire incomparabili. Questo fuoco fu, per providenza divina, non troppo tardi scoperto».

Il «Ponte Manin» dicevasi anche nel secolo XVI «Ponte della Riva del Carbon», come appare dalla legge seguente del Magistrato alle Acque: «Sia rifatto et alzato il Ponte della Riva del Carbon acciocché le Barche vi possino passare di sotto. 1574, 12 Gennaro».

Manin (Campo) a S. Luca. Vedi Daniele Manin.

Manin (Rio terrà Istituto). Vedi Sabbioni.

Marcello o Pindemonte (Ponte e Calle) a S. Marina. Il prossimo palazzo, sorse per opera degli Anzelieri, venuti da Lucca nel secolo XIV, e soltanto in seguito passò in proprietà della famiglia Marcello. Nel Cod. 939, Classe VII della Marciana sta scritto circa gli Anzelieri: «Fecero edificar el palazzo in contrà de S. Marina, qual hora è de cha Marcello, et fo del pare del dose Marcello». E nell'«Elenco delle fabbriche fatte dai Lucchesi in Venezia» (Cod. 196, Classe VI della Marciana) abbiamo: «Casa al ponte di messer Giovanni Marcello per gli Anzelieri, 800 ducati». Notisi che tale elenco si dice tolto dal «Giornal N. III, Carte I» della Scuola del Volto Santo, secondo «una polizza fatta per mano del q.m m.r Zuane Marcello fu padre del serenis.mo Principe D. Nicolò, stava al ponte di S. Marina, in le chase che furono de Anzelieri». Non è improbabile però che il doge Marcello, pel quale vedi Dose (Calle, Corte, Fondamenta del), abbia fatto rinnovare il palazzo di cui parliamo. Rifabbricato sullo stile del Longhena, esso nel 1701 passò in proprietà della famiglia Pindemonte di Verona, ascritta a quella nobiltà fino dal 1409, e nel 1654 insignita di titolo marchesale da Carlo II duca di Mantova nella persona d'un Giovanni q. Giacomo, titolo riconosciuto dall'imperatrice Eleonora, che, con suo diploma 15 giugno 1676, nominò istoriografo imperiale il marchese Giovanni suddetto. Anche il Veneto Senato creollo, con decreto 15 novembre 1679, cavaliere di S. Marco, e gli destinò il premio d'una collana e d'una medaglia d'oro. Per colmo d'onorificenze, la Repubblica ammise finalmente la famiglia Pindemonte al Maggior Consiglio nel 1782. Essa ampliò d'un'ala il suo palazzo di S. Marina, ove abitò lunga pezza il cav. Giovanni Pindemonte, ed anche, sebbene interrottamente, il cav. Ippolito, suo più celebre fratello. Ora il palazzo Marcello-Pindemonte è posseduto dai conti Papadopoli, che l'acquistarono l'anno 1808, ed in seguito lo ristaurarono.

In palazzo Marcello a S. Marina morì il 16 novembre 1508 il patriarca di Venezia Alvise Contarini, cognato di Francesco Marcello.

Marco Foscarini (Calle) ai Gesuiti.

Martin Novello (Corte) a S. Giuseppe di Castello. Un «Martin Novello» così si espresse nella Condizione de' suoi beni, presentata nel 1566 ai X Savii: «Mi atrovo havere una casetta posta in contrà de S. Piero de Castelo, a S.to Isepo, ne la qual habito con la mia famegia».

Martinengo dalle Palle (Calle) a S. Marina.

Memmo o Loredan (Calle) a S. Luca. E' laterale ad un antico palazzo, di stile bizantino-lombardo, che, per quanto si ritrova, apparteneva anticamente ai Boccasi, e che diede ricetto al doge Jacopo Contarini dopo la sua abdicazione, successa nel 1280. Dai Boccasi esso passò in mano dei Zane, che v'ospitarono nel 1361 la corte del duca d'Austria. Appartenne quindi alla famiglia Corner, un Federico della quale v'albergò splendidamente nel 1363 Pietro Lusignano re di Cipro. Grato il re, faceva scolpire sul prospetto le proprie insegne, ed in premio d'aver ottenuto a prestito da Federico Corner settantamila ducati, lo investiva d'un cavalierato ereditario, e del feudo di Castel Piscopia nel regno di Cipro. Questo palazzo, ove alloggiarono nel 1378 Valentina Visconti; nel 1389 Francesco Gonzaga, signore di Mantova; nel 1416 un fratello del re di Cipro, e nel 1440 la figlia del marchese di Monferrato fidanzata a Giovanni Lusignano II, venne ristaurato nel secolo XVII da G. Battista Corner, padre di quell'Elena, che fu miracolo di scienza a' suoi giorni, e che, insignita di laurea dottorale, morì in Padova nel 1684. Lucrezia, nipote della medesima, congiuntasi nel 1703 in matrimonio con G. Battista Loredan, appigionò una parte del palazzo di S. Luca alla famiglia Memmo, la quale altri stabili possedeva nei contorni. Perciò «Anzolo e fratelli Memmo» notificarono nel 1740 d'abitare in parrocchia di S. Luca nel «solèr di sopra» del palazzo posseduto dalla «N. D. Lucrezia Corner Piscopia consorte del N. U. G. Battista Loredan». Estintosi finalmente questo ramo dei Corner, il palazzo medesimo divenne proprietà dei Loredani, donde passò in altre famiglie, finché nel 1867 venne acquistato dalla Congregazione Municipale di Venezia, che, mediante cavalcavia, lo congiunse al palazzo Farsetti propria residenza, e nel 1881 vi praticò nuovi ristauri.

Venendo a parlare della famiglia Memmo, se la fa discendere dalla gente Memmia di Roma. Credesi che anticamente si chiamasse anche Monegaria e Tribuna, ed in tal caso avrebbe dato a Venezia quattro dogi. Produsse pure due vescovi, ed alcuni militari valenti, fra cui Girolamo, rettore a Schiatta nell'Arcipelago, tagliato a pezzi nel 1538 dagli Schiattesi perché non voleva arrendersi ai Turchi, ma poscia dai Turchi medesimi vendicato, i quali mandarono a fil di spada quegli isolani in pena d'aver ucciso il proprio duce. Un Bartolammeo Memmo fu appiccato il 14 luglio 1470 fra le colonne rosse del palazzo ducale per avere sparlato del doge Cristoforo Moro, e per aver proferito segnatamente queste parole conservateci dagli «Annali» del Malipiero: «Vegnimo diese a consegio domenega che vien, et le corazzine sotto la veste, e amazemoli, comenzando da questo becco de Cristoforo Moro». E d'una Isabella Memmo così scrive nelle sue «Memorie» il mordace prete Carlo Zilli sotto il 14 ottobre 1780: «Morì per una stasi alla testa la N. D. Isabella Memo Berlendis. La sua morte fece un gran colpo e per esser ella una delle prime bellezze della città, e per esser mancata quasi all'improvviso, poiché senza sacramenti, e senza che il suo male fosse conosciuto, e per le contese fra i due medici Perlasca e Fantuzzi, che furono alla cura, i quali con loro dispute in iscritto divertirono molto il paese. Il Perlasca arrivò a tale imprudenza sino a scrivere in sua giustificazione contro il Fantuzzi, che morì in forza del mercurio, dato in dose eccedente a questa Dama per qualche incomodo di galanteria che aveva. N'era tanto persuaso che non ebbe difficoltà di scrivere questo tanto al marito di lei Andrea Memo, attualmente Bailo a Costantinopoli. Corsero per la città varie composizioni poetiche su questa morte, e su tali circostanze. Fra le altre si lesse un epigramma, degno dell'età dell'oro della latinità, nel quale si fa ch'ella dai Campi Elisi scriva al D. Perlasca, rimproverandolo della sua crudeltà, avendo così pubblicamente infamata la sua memoria». Questo ramo dei Memmo oggidì è estinto.

Della famiglia Loredan parlammo altrove. Vedi Loredana (Corte e Calle).

Mercanti (Calle dei) in «Ruga Giuffa», a S. Maria Formosa. Lo stemma, e le sigle scolpite all'ingresso di questa Calle, nonché i catasti, danno a divedere che qui possedeva case la confraternita di S. Maria della Misericordia o dei Mercanti. Essa venne eretta nel 1261, sotto il titolo di Santa Maria della Misericordia e di San Francesco, presso il chiostro dei Frari. Essendo il locale troppo angusto, ottenne nel 1434 dal Consiglio dei X di trasferirsi in qualche punto più adatto, ma, ciò malgrado, continuò nel primo soggiorno fino al 1570 in cui, successe alcune discordie coi pp. Minori, si trasferì alla Madonna dell'Orto, fondendosi con un'altra pia società, pur essa composta di mercanti, che esisteva colà fino dal 1377 sotto la invocazione di San Cristoforo, ed incominciandosi ad appellare Confraternita di Santa Maria della Misericordia, di San Cristoforo e di San Francesco. L'edificio ove raccoglievasi è situato lateralmente alla chiesa di Santa Maria dell'Orto, e, secondo l'epigrafe che si legge sulla porta, venne ristaurato nel 1570. Esso oggidì serve ad oratorio del patronato pei ragazzi vagabondi sotto il titolo di Pio IX. La «mariegola» della Scuola di S. Maria della Misericordia dei Mercanti conservasi in codice cartaceo nel nostro Archivio.

Mercanti (Ramo, Corte, Calle dei) a S. Eustachio. Questa Corte, la quale impartì il nome alle prossime località, veniva chiamata anticamente «Corte dei Trevisani mercanti de lana», e ritroviamo che nel 1661 possedevano stabili in essa «gli heredi di G. Antonio Trevisan mercante de lana». Egli era figlio d'Alessandro, e terminò i suoi giorni in parrocchia di S. Eustachio nel 1652. Questa famiglia, fornita di ricco censo, fu approvata cittadina originaria veneziana l'anno 1703.

Mezzo (Calle di) a S. Apollinare. Questa, ed altre strade di Venezia presero il nome dall'essere poste in mezzo ad altre strade laterali.

Mezzo (Calle di) in Ruga Giuffa, a S. Maria Formosa. Dalla patrizia famiglia Da Mezzo. Una «Chiara da Mezzo» notificò nel 1566 ai X Savii di possedere alcuni stabili «in la contrà di S. Maria Formosa, in Ruga Giuffa, in Calle de Ca' da Mezzo». Essa apparteneva a patrizia famiglia venuta da Jesolo, che trovossi esclusa dal Maggior Consiglio al suo chiudersi, ma poscia vi fu riassunta all'epoca della guerra di Chioggia in un Francesco, che abitava anch'egli a S. Maria Formosa. Si legge nelle memorie di questa famiglia che un Giacomo Da Mezzo venne eletto nel 1470 ambasciatore ad Ussun Cassan re di Persia, ma poscia, fattosi dispensare, andò ambasciatore a Roma, e nel 1484 fu Provveditore di campo contro il duca di Ferrara; che un altro Giacomo nel 1571 morì gloriosamente combattendo alle Curzolari; che un Nicolò, soprannominato Palmeto, della colonia di Candia, sacrificò pur egli la vita colpito da una palla di cannone nel 1656 sulla galera del generale Marcello; che finalmente un Francesco figliuolo di Nicolò, ed un Giorgio Da Mezzo non furono da meno nel rintuzzare l'orgoglio degli infedeli. Questa patrizia famiglia andò estinta nel 1797 in un Francesco Maria q. Sebastiano, q. Giorgio, che cadde nella notte dal 12 al 13 aprile di quell'anno in bocca del rivo dell'Arsenale e che, estratto dall'acqua a merito dell'urbana custodia notturna della contrada di S. Biagio, poco dopo spirò nel casello della pattuglia medesima. Vedi Cicogna, «Inscr. Ven.», VI.

Misericordia (Sacca, Canale, Fondamenta, Campo, Ponte, Rio, Fondamenta della). Sino dal 1308 venne eretta una scuola dedicata a Santa Maria della Misericordia presso la chiesa abaziale del medesimo nome. In seguito ampliossi, e vi si aggiunsero uno spedale, ed una cappella. Senonché cresciuto il numero dei confratelli, essi nel 1534 commisero al Sansovino l'erezione d'un nuovo albergo più grandioso ed in seguito cessero il vecchio alla confraternita dei Tessitori di Seta. Il nuovo albergo, che scorgesi tuttavia presso il palazzo Lezze, ora Antonelli, è quello che diede il nome alle località di cui stiamo favellando. Esso nel 1806 consegnossi al Militare, in mano del quale conservasi tuttora.

Il «Ponte della Misericordia» fabbricossi nel 1595, sotto la ducea di Marino Grimani, e quindi ristaurato dai fondamenti per cura di Pietro Barbarigo, figlio d'Agostino, provveditore di Comune.

Sulla «Fondamenta della Misericordia» restò ucciso in rissa nel 1627 Girolamo Pisani per opera di Agostino e Pietro fratelli Canal, che nol riconobbero, quantunque quella sera stessa avessero cenato insieme.

Quanto alla «Sacca della Misericordia», vedi Sacca (Ponte della).

Misericordia (Calle, Ramo della) a San Geremia. La Scuola Grande della Misericordia possedeva in questa situazione parecchie casette provenienti dal testamento di Pietro Agresti, priore dell'Ospitale di S. Lazzaro, 14 febbraio 1438, in atti Bartolammeo di Tommasi N. V.

Anche Andrea Moranzon, con suo testamento 10 gennaio 1510 M. V. lasciò alla Scuola medesima alcune altre case ai Tolentini, presso il «Ponte del Gaffaro», e perciò una Calle colà posta conserva tuttavia il nome della «Misericordia».

Per questa Scuola vedi l'articolo antecedente.

Mocenigo Casa Nuova (Calle) a S. Samuele. Nella contrada di S. Samuele nacque la partizione della patrizia famiglia Mocenigo in «Casa Vecchia» e «Casa Nuova». Il primo de' due rami così denominossi perché, mediante le divisioni famigliari, ebbe in sua esclusiva proprietà il più antico dei quattro palazzi Mocenigo sul «Canal Grande», cioè l'ultimo a man sinistra, il quale, ad onta della rifabbrica operatasi sullo stile del Longhena, conserva nell'interno alcuni indizii della sua vetustà. Il secondo ramo assunse il titolo di «Casa Nuova» perché fu suo retaggio l'ultimo dei palazzi a mano destra, fondato in epoca più tarda, e, come si ha fondamento per credere, dopo il 1454; quindi rifabbricato in seguito sullo stile del Vittoria. Al ramo Mocenigo «Casa Nuova» pervennero eziandio i due palazzi del centro, che marcano il decadimento dell'arte, e che nel 1579 non erano ancora compiuti, come appare dal testamento di Giovanni Mocenigo.

Nelle «Memorie» del prete Zilli, altrove citate, abbiamo sotto il 17 settembre 1780: «Fu posto in libertà, dopo una relegazione di sette anni in punto nel castello di Brescia, il cav. Bastian Mocenigo, Casa Nova S. Samuele. Tale castigo se lo aveva tirà adosso per le sue pubbliche dissolutezze contro natura, per le quali, essendo a Parigi, fu anche messo in arresto dalle guardie, però colla scusa di non conoscerlo, e lasciato poi subito in libertà. La sua relegazione cominciò col giorno appunto che era per portarsi a Vienna, alla qual Corte era stato eletto ambasciatore». Di questo Sebastiano Mocenigo, e delle sue inclinazioni pederastiche, parla anche il Casanova nelle sue «Memorie».

Lo Zilli scrive pur anche sotto il decembre 1780: «La N. D. Pisana Mocenigo, figlia del Cav. Zuane Mocenigo Casa Nova, maritata da pochi mesi con Alvise Mocenigo, suo cugino germano, figlio del cav. Bastian, esce d'improvviso dalla casa del marito, e va a ritirarsi nelle Pinzochere a S. Gioachino a Castello, ove, entrata appena, comincia a fare degli atti al foro ecclesiastico per provare la nullità del suo matrimonio. Cosa che per niente sorprese il paese, mentre universalmente n'era stato fatto il pronostico».

I tre palazzi Mocenigo della «Casa Nuova a San Samuele», allorquando nel 1788 Alvise Mocenigo fu creato Procuratore di S. Marco, messi in comunicazione fra loro, presentarono alla festa ben quaranta ampie stanze magnificamente addobbate nel breve spazio di sette ore.

In uno dei predetti palazzi abitò Anna di Shrewsbury, moglie del conte Tommaso d'Arundel, maresciallo d'Inghilterra, frequentando la casa della quale, ove convenivano alcuni ministri esteri, Antonio Foscarini fu accusato di propalare i secreti della Repubblica, e perciò nel 1622 condannato a morte, quantunque poscia fosse dichiarato innocente. Nel palazzo medesimo abitò lady Mary Wortley Montagu, nonché lord Byron, tenendosi presso, come sultana favorita, la bella Margherita Cogni, moglie d'un fornaio. Qui egli compose i primi canti del «Don Giovanni», il «Beppo», una parte della tragedia «Marin Faliero», il «Sardanapalo», e le «Visioni del Giudizio». Qui pure ospitò il poeta Tommaso Moore.

Mocenigo Casa Vecchia (Calle, Ramo) a San Samuele. Vedi Mocenigo Casa Nuova (Calle).

Nel palazzo Mocenigo «Casa Vecchia» venne ospitato nel 1574 Emmanuele Filiberto principe di Savoia, in fede di che fu posta un'epigrafe moderna sulla facciata del palazzo risguardante il «Canal Grande».

Qui pure abitò l'infelice filosofo Giordano Bruno, invitato con replicate istanze ed offerte da Giovanni Mocenigo, che poscia tradillo, e s'adoperò per darlo nelle mani del Sant'Uffizio il 23 maggio 1592.

Il ramo «Mocenigo Casa Vecchia» si estinse nel 1864 in un Alvise di Alvise I.

Modena Gustavo (Calle). Vedi Gustavo Modena.

Mondo Novo (Ponte, Sottoportico, Calle del) a S. Maria Formosa. Pensano il Dezan ed il Berlan che qui resti memoria della famiglia Mondonovo, da cui uscì la moglie d'Apostolo Zeno. Ma nulla ci fa sapere che questa famiglia abbia qui abitato, o posseduto degli stabili, e scorgiamo invece nella Descrizione della contrada di S. Maria Formosa pel 1740 che nella «Calle del Mondo Novo» esisteva il «Bastion del Mondo Novo», condotto da «Mattio e fratelli Colletti, detti Quaresima», i quali pagavano pigione a varii comproprietarii. E si legge nella «Mariegola» dei «Luganegheri» (manoscritta presso il Civico Museo) che fino dal 1590 un «Bortolo Scagiante» teneva a S. Maria Formosa un «magazen» chiamato «el Mondo Novo». Ora è probabile che dall'insegna di questo magazzino, o spaccio di vino, abbiano derivato il nome le vicine località.

Troviamo nei Notatori del Gradenigo: «4 marzo 1772. Fu a pericolo di fuoco grande la notte scorsa la grande taverna, o dicesi magazzino, chiamata del Mondo Novo, a S. Maria Formosa. Con tutto ciò le fiamme incenerirono alquanti mobili riservati perché impegnati dai bevitori. Fatalità volle che, accorso con altri un fabbro vicino appellato Giuseppe Sala, restò morsicato in una gamba dal cane della Guardia Notturna».

Presso il «Ponte del Mondo Novo», sopra il rivo, havvi una casa nella cui facciata scorgonsi due circoli di macigno, entro i quali sono scritti due motti, o vuoi dir sentenze, greco l'uno e l'altro latino.

Morosina de la Regina (Calle). Vedi Pignoli (Campiello e Calle dei).

Morosini e Pisani (Calle stretta) a S. Stefano. E' prossima ai due palazzi Morosini e Pisani. Il primo sorgeva in antico di stile moresco, come attestano alcune finestre del cortile interno. Era tutto dipinto esteriormente da Antonio Aliense, ma nella rifabbrica avvenuta nel secolo XVII queste pitture scomparvero, e, per riportare le parole del Boschini, «furono cambiate con tanti sassi». La facciata di fianco fu ridotta dal Selva al finire del secolo trascorso. In queste soglie abitò Francesco Morosini, che, per le sue insigni vittorie riportate sopra i Turchi nel Peloponneso, venne chiamato il Peloponnesiaco. Datosi fino dalla sua giovinezza al mestiere dell'armi, egli si rese famoso per la conquista di più che 37 piazze fortificate, pell'acquisto di oltre 1360 cannoni, e per la schiavitù, o morte, di quasi 200.000 nemici. Nel 1688, essendo supremo comandante nel golfo d'Eubea, ricevette il berretto ducale. Vissuto sul trono anni cinque e mesi nove circa, venne a morte nel 1694 in Napoli di Romania. Colà rimasero i di lui visceri, ma il corpo imbalsamato fu trasferito a Venezia, e sepolto nella chiesa di S. Stefano. Nel palazzo che gli apparteneva, insieme all'armi, trofei, vessilli, ed altre spoglie di guerra si conserva il di lui busto in bronzo, che la Repubblica fece fondere, e che conservavasi nelle sale del Consiglio dei X.

In palazzo Morosini a S. Stefano il 19 febbraio 1709 si diede una splendida festa di ballo a Federico IV re di Danimarca, essendosi costrutta una strada coperta che dal «Canal Grande» arrivava al palazzo a cagione dell'abbondante neve cadente allora dal cielo. La grande illuminazione, il grande sfarzo d'addobbi delle stanze, il ricco vasellame, e la sontuosità delle mobiglie fecero conoscere le dovizie e la magnificenza del casato. Il ballo continuò per più ore dopo la mezzanotte.

Del secondo palazzo diremo più innanzi. Vedi Pisani (Campo).

Morosini Francesco (Campo). Vedi S. Stefano.

Mosto o dei Colori (Calle) a S. Leonardo. Appare da una delle «mariegole» appartenenti alla Scuola di S. Maria della Misericordia (an. 1318-1403) che fra i nobili ascritti a quel pio sodalizio figurava un «Gasparo Mosto» da S. Leonardo.

La patrizia famiglia Da Mosto venne in tempi antichissimi da Padova, oppure, secondo altri, da Oderzo. Un Alvise Da Mosto si rese celebre per le sue lunghe peregrinazioni. Egli di 22 anni avea solcato più volte il Mediterraneo, e visitato le Fiandre. E per le Fiandre nuovamente partiva l'8 agosto 1454 sopra una flotta capitanata da Marco Zeno. Avendosi però dovuto fermare per tempesta allo stretto di Gibilterra, vi ritrovò l'infante D. Enrico di Portogallo, che invitollo a scoprire le coste africane. Con una caravella quindi, armatagli dal principe, fece vela il 22 marzo 1455, e, toccata Madera, passò alle Canarie; indi, volgendosi al Capo Bianco, visitò l'ampia foce del Senegal, e s'accingeva a doppiare il Capo Verde, quando, incontrato un Antonio Usodimare genovese, con esso lui accompagnossi, e si spinse fino alle foci del Gambia, che avrebbe rimontato senza l'accoglimento ostile degli abitanti, ed il malcontento dei marinai. Riportatosi all'anno seguente, scoprì le isole del Capo Verde, e rimontò le foci del Gambia per 70 miglia. Indi giunse, spingendosi a mezzodì, verso il Rio Grande, dopo cui tornò in Portogallo. Alvise da Mosto scrisse egli stesso una relazione dei proprii viaggi. La famiglia Da Mosto vanta pure un Vittore nel 1701 Governatore di nave, nel 1708 Almirante delle navi, e nel 1709 Provveditore a S. Maura, il quale, accesosi il fuoco alle munizioni della sua nave, saltò in aria con altre 260 persone, e miseramente perì, essendo giunto all'anno trentesimo della sua età.

Perché poi la «Calle Mosto» a S. Leonardo si chiami anche «dei Colori», vedi Colori (Calle dei).

Muazzo (Calle, Ramo Corte, Corte) in «Barbaria delle Tole». Un ramo della patrizia famiglia Muazzo nella «Temi Veneta» pel 1796 è contraddistinto col titolo di «Muazzo in Barbaria delle Tole». Esso abitava in uno dei due palazzi, che guardano colla facciata il rivo di S. Giovanni Laterano, e che, secondo lo Stringa, vennero fondati, verso lo spuntare del secolo XVII, dai Giustiniani.

La famiglia Muazzo passò a Venezia da Torcello nell'ottavo secolo coi Querini, Gussoni, ed altri. Si fa menzione nel 1168 d'un Antonio Muazzo che rifabbricò la chiesa di San Paterniano. Parte di questa famiglia passò nel secolo XIII con le colonie nobili in Candia ed appunto un Francesco Muazzo, nato in quell'isola, ribellossi nel 1364 contro la madre patria, facendo uccidere Giorgio, figlio di Giacomo suo fratello, in vendetta che questi erasi conservato fedele alla Repubblica. La linea di Candia produsse pure un G. Antonio nato nel 1621, il quale si rese celebre come letterato, e lasciò alcune opere inedite di patrio argomento, nonché un altro G. Antonio, uomo violento, che uscito una fiata dalla città co' suoi bravi, s'abbatté nel Casarini, suo fiero nemico, seguito da un solo servitore per nome Gianni. Vederlo e comandare ai bravi d'ucciderlo fu un punto solo. Ma il Casarini, benché in più parti ferito, ebbe tempo di chiamare Gianni in suo aiuto, che scaricò il fucile, e colpì il Muazzo. Ambidue quindi i due avversarii furono riportati malconci in città, ove il Muazzo, quattro giorni dopo il fatto, successo nel 1636, dovette soccombere. Qui si narra un bel tratto del Muazzo medesimo. Imperciocché prossimo a spirare, volle a sé il Gianni, e commendatolo per aver difeso il padrone, lo regalò, confessandosi colpevole, e supplicando la giustizia a non procedere né contro il fido servo, né contro il Casarini. Quest'ultimo poté in seguito riaversi dalle riportate ferite.

Dalla famiglia Muazzo uscirono pure un Luca vescovo di Caorle, e varii coraggiosi militari nelle lunghe guerre sostenute dai Veneziani contro i Turchi.

Muazzo (Calle) ai Ss. Apostoli. Vedi Manganer.

Muneghe (Calle delle) a S. Alvise. Da case che, come si può scorgere nei catasti, erano qui possedute dalle monache Agostiniane di S. Alvise.

In «Calle delle Muneghe» a S. Alvise, al N. C. 2888, corrispondente al N. A. 3281, abitava quel povero pazzo Matteo Lovat, calzolaio, nato in Casale di Soldo, il quale, spinto da mania religiosa, dopo aversi completamente evirato e dopo aver tentato di crocifiggersi nel bel mezzo della «Calle della Croce» in «Birri» a San Canciano, finalmente nel giorno 19 luglio 1805 messosi a nudo, cintosi il capo di spine, e fattasi con un coltello la ferita nel costato, inchiodossi crudelmente ad una croce, attaccata per mezzo di fune ad una trave vicina alla finestra della sua abitazione, donde si spinse fuori penzoloni per dare spettacolo del proprio martirio ai passanti. Tolto di là e curato, morì l'anno seguente nell'ospitale dei pazzi a San Servolo. Vedi Ruggeri: «Storia della Crocifissione di Matteo Lovat da se stesso eseguita. Venezia, Fracasso, 1814».

Muneghe (Corte delle) alla Celestia. Dal prossimo ex convento di monache Cistercensi. Vedi Celestia (Campo ecc. della).

Muneghe (Corte delle) a S. Marina. Da case che appartenevano al monastero di San Lorenzo. Leggesi nel catastico del medesimo: «Santa Marina. Possiede il Monastero in questa contrada case X con Corte in mezzo, detta Corte delle monache, et cava d'affitto d. 226. Scritture non si sono sino hora trovate».

Muneghe (Sottoportico e Corte delle) a San Maurizio, sulla «Fondamenta Corner Zaguri». Le monache di San Maffio di Mazzorbo notificarono nel 1564 ai «Sopraintendenti alle Decime del Clero» di possedere «24 case in contrà di San Mauritio, appo la casa nova del mag.co m. Zorzi Corner» con altre al «Ponte di Ca' Malatin», ed altre in «Campo di S. Mauritio». Sopra quest'ultime havvi tuttora una lapide donde s'impara che nel 1320, le monache comperaronle dalla plebania di S. Maurizio, e quindi le ristaurarono nel 1762 sotto l'abbadessa Marianna Manzoni.

Maria Canal, Richelda Zancarolo, e Maria da Zara ottennero nel 1218 da Stefano Natale, vescovo di Torcello, un'antica chiesa posta nell'isola di Costanziaco, e sacra a San Matteo, o San Maffio, coll'intendimento di fondarvi appresso un monastero di Benedettine. E dopo alcuni litigi lo fondarono in effetto, avutone permissione dal pontefice nel 1233. Tuttavia, siccome Costanziaco veniva sempre più corrosa dall'acque, e l'aere n'era malsano, si stabilirono a Mazzorbo, ove edificarono un'altra chiesa, pur essa sacra a San Maffio, della quale pose la prima pietra Alerone, vescovo di Torcello, come egli stesso ebbe ad attestare in un pubblico documento del 1298. Nel 1469 le monache di San Maffio, che fino allora avevano obbedito agli abati cistercensi della Colomba, vennero sottoposte ai patriarchi. Nel 1521 si concentrarono con esse anche le poche religiose del rovinoso monastero di S. Margarita di Torcello. Ora più non esistono i loro edificii.

Muneghe (Corte delle) ai Miracoli. La muraglia merlata e la bella porta archiacuta con sopra scolpito lo stemma della famiglia Amadi, antichi proprietari delle case vicine, consistente in un uccello che posa sul più alto di tre monticelli, danno a questa corte un aspetto grandioso. Eravi nell'interno una magnifica «vera» di pozzo recante anch'essa lo stemma degli Amadi, vera pur troppo levata di posto, e venduta nel 1885. Fu in questa Corte, e precisamente accanto il pozzo, che veneravasi la miracolosa immagine della Vergine, per collocare degnamente la quale si costrusse poscia, a merito degli Amadi, e d'altre famiglie, il bel tempietto di S. Maria dei Miracoli. Vedi Miracoli (Calle ecc. dei). La Corte medesima, che anticamente chiamavasi di «Ca' Amadi», si disse poscia delle «Muneghe», essendo le case degli Amadi passate in proprietà delle monache dei Miracoli, le quali, come troviamo scritto, ne appigionavano una nel 1661 a «Tommaso Tasca», ed un'altra a «Vettor Pozzo».

Muneghe (Calle, Corte, Ramo delle) a San Samuele. Da tempo immemorabile esisteva in parrocchia di San Samuele un piccolo oratorio sacro a Santa Susanna, presso il quale nel 1485 si trasferì la confraternita di San Rocco. Essa voleva riedificarlo in forma di chiesa, ed a tal fine comperò alcune prossime case, inservienti ad uso di postribolo. Ma poscia, mutato consiglio, di là allontanossi nel 1488, e cesse il tutto ad una conversa, per nome Chiara, del monastero di S. Margarita di Torcello allora cadente, spedita da quelle monache per ritrovar loro un ricovero in Venezia. La conversa, coll'aiuto d'alcuni gentiluomini, s'accinse senza indugio ad edificare ove sorgeva l'oratorio di S. Susanna una chiesa novella, ed un convento. Perché poi solenni ne fossero i principii, scelse il giorno del Venerdì Santo, in cui, il padre Benedetto Signori, genovese, predicatore della vicina chiesa di Santo Stefano, terminata la Passione, ed inalberato il crocefisso, portossi, seguito da tutti i padri Agostiniani, al luogo disegnato, e fece erigere una cappella di tavole, che trasformossi ben presto in una chiesa dedicata ai SS. Rocco e Margarita, per costruire la quale si pose la prima pietra ai 22 aprile dello stesso anno 1488. Era terminato anche il convento quando le monache di S. Margarita di Torcello, riattate le fabbriche che possedevano in quella isola, ricusarono di venirlo ad abitare. Vuoto quindi sarebbe rimasto, se Stella, vedova d'un Marco Balanzan, non vi si fosse rinchiusa, ed, unita a suor Chiara, non vi avesse attirato altre seguaci a vivere sotto la regola di S. Agostino, dotando l'istituto di tutti i suoi beni, e divenendone la prima superiora. Dopo la soppressione del 1810, la chiesa dei SS. Rocco e Margarita, che era stata rinnovata alla metà del secolo XVII, restò chiusa, ed il convento fu per alcuni anni Casino Filarmonico, finché nel 1822 divenne sede della Casa d'Educazione Femminile, fondata dal sacerdote Pietro Ciliota, al cui uso destinossi anche la chiesa.

Muneghe (Calle, Corte delle) a S. Ternita. Da case di proprietà delle monache del «Corpus Domini» (Descrizione della contrada di S. Ternita pel 1661).

Muneghe (Calle delle) a S. Benedetto. Né i catasti, né le memorie dei nostri conventi valsero a farci scoprire quali monache ricordi col suo nome questa Calle. Vegga altri se meglio di noi potesse riuscire nell'intrapresa.

Muneghette (Calle delle) a San Martino. Qui abitavano fino dal 1427 alcune donne del terzo ordine di San Domenico. Ad esse si unirono nel 1616 alcune altre religiose del medesimo ordine, che abitavano in una casa ai SS. Apostoli. Nel 1649 ottennero di erigere una piccola chiesa dedicata a S. Maria del Rosario, e poscia si ridussero a perfetta comunità, stabilendo di non ammettere nel loro consorzio che vergini, e sottoponendosi nel 1749 al juspatronato ducale. Dopo la loro soppressione, i locali da esse occupati servirono per anni parecchi ad uso del militare, ed ora furono comperati dalla Congregazione di Carità, e ristaurati affine di concentrarvi i ricoverati d'alcuni piccoli ospizi sparsi per la città, divenuti rovinosi.

Muneghette (Campiello, Calle, Rio delle) al Gesù e Maria. Dal convento d'Agostiniane del Gesù e Maria, ora convento di Servite Eremitane col titolo dell'Addolorata. Vedi Gesù e Maria (Calle del).

Mussato o Tasca (Calle) a S. Giuliano. Questa strada porta i nomi suddetti perché è prossima al palazzo Tasca, il quale negli ultimi tempi della Repubblica era tenuto a pigione dalla famiglia Mussato. Essendo stato l'11 settembre 1795 eletto Procuratore di S. Marco Sebastiano Giulio Giustinian, cognato di Giulio Antonio Mussato, si legge che la festa relativa, con bella illuminazione e generosa dispensa di pane, vino e danaro al popolo, si fece nel palazzo abitato dai Mussato a S. Giuliano, come luogo più comodo per la sua situazione. I Mussato continuarono ad abitarvi fino al 1796, poiché nella «Nota di tutti gli affittuali di Case e Botteghe della Contrada di S. Giuliano, fatta per ordine degli Ill.mi Sig.ri Deputati et Aggiunti sopra la Provvision del Denaro, e Savio Cassier attuale et uscito, giusta al Decreto 30 giugno 1796» si scorge che il «N. U. Giulio Antonio Mussato» aveva in quell'anno terminato l'affittanza coi «N. U. Zuane e Roberto Papafava», allora padroni del palazzo Tasca, e che era subentrato nell'affittanza medesima il «marchese Rangoni».

La famiglia Mussato trovasi nei fasti così di Padova, come di Vicenza, ed è celebre per Albertino storico e poeta, pubblicamente incoronato in Padova nel 1315. Un ramo di essa, trasportatosi a Venezia, venne ammesso al Maggior Consiglio nel 1776.

Del palazzo e della famiglia Tasca diremo altrove. Vedi Papafava o Tasca (Fondamenta).

Muti o Baglioni (Calle) a S. Cassiano. In fondo a questa calle scorgesi un grandioso palazzo, eretto, secondo Pietro Gradenigo ne' suoi «Casi memorabili Veneziani», l'anno 1602 dalla famiglia Muti. Lo Stringa, che pubblicò la «Venezia» del Sansovino colle sue aggiunte nel 1604, ne dà i cenni seguenti: «Ma tra i più notandi palazzi che sieno fra terra deve essere posto quello dei Muti a S. Cassiano, il quale, fabbricato in questi ultimi anni, è veramente edificio stupendo e singolare, ma tanto più meraviglioso apparirebbe a tutti se sopra il Canal grande fosse stato fabbricato». Da ciò si rileva il grosso farfallone del Quadri, del continuatore del Berlan, e d'altri, che fanno eretto questo palazzo nel secolo XV. Esso, sul declinare del secolo XVII, passò in proprietà degli Acquisti, e sul principio del XVIII in quella dei Vezzi. Finalmente nel 1750 venne acquistato dai Baglioni. Quando era dei Vezzi venne il 23 febbraio 1736 M. V. in parte incendiato, avendosi acceso il fuoco in una prossima casa, perciò rimasta distrutta, di proprietà dell'avvocato Angelo Tirabosco, nell'occasione che un certo Tolotta, il quale v'abitava, solennizzò, mediante festini, le nozze della propria figlia Caterina con Giovanni Cabrini. Il palazzo medesimo albergò poco dopo Francesco d'Este duca di Modena, esule dai propri stati, colla di lui famiglia. Un «Diario Veneto» (Codice 58, Classe XI della Marciana) racconta che il 4 ottobre 1742, «all'ore ventitrè circa, giunse in Venezia Francesco d'Este duca di Modena, cacciato da' suoi stati dalla regina Teresa d'Ungheria, e dal duca di Savoia, re di Sardegna, per aver tenute le parti della Spagna. Prima della sua venuta era già capitato in Venezia stessa il principe ereditario suo figlio colla moglie principessa di Massa. Alloggiano tutti in contrada di S. Cassiano in un palazzo del N. U. Zuane Co. Vezzi, che pochi anni prima erasi abbrugiato, e che appena era terminato di rifabbricarsi quando venne il sud. Duca. Condusse seco anche la moglie della casa d'Orleans, ch'era una principessa grassa e grossa straord.te e che fu portata al suo appartamento in seggetta. Pagò il duca per detto palagio d. 1000 all'anno di affitto. Aveva numerosa corte, ma non molto bene vestita, e fu collocata per la maggior parte in alcune case adiacenti in detta contrada di S. Cassiano».

Della famiglia Muti abbiamo parlato nell'articolo antecedente. Quanto alla famiglia Baglioni, venuta dal Milanese, essa esercitava in Venezia, fino dal secolo XVII, l'arte tipografica, poiché un Paolo Baglioni, nato nel 1606, era, secondo i Registri dell'«Avogaria», stampatore con bottega da libri in «Merceria» di S. Salvatore, all'insegna dell'«Aquila Nera». Egli sostenne la carica di Guardian Grande della Scuola di S. Teodoro, di S. Fantino, dei Carmini e del Rosario. Dalla moglie Elisabetta Bergonzi ebbe cinque figli, cioè Tommaso, G. Antonio, Francesco, Giuseppe e G. Battista, che il 28 marzo 1684 furono approvati cittadini originarii. G. Battista venne poscia ammesso al patriziato coi discendenti nel 1716. La famiglia Baglioni vanta alcuni soggetti che si distinsero nella carriera ecclesiastica.

Macello (Calle del) a S. Giobbe. «Ordinatasi dal Governo la concentrazione dei macelli sparsi di castrati, vitelli, e suini, il proprietario del vecchio macello di bovini sig. Rebustello offerse di concentrarli, dilatando il proprio di S. Giobbe. Accoltasi la proposta, si eseguiva in sette mesi d'inverno il lavoro, e venne consegnato al Comune inquilino il 4 maggio 1842. L'estensione dell'area è di campi due trevigiani. L'importo della spesa fu di lire 300.000. Posto in capo alla strada di Cannaregio sulla laguna, isolato da fabbriche, ha bel coperto esteriore, e la fronte nobilmente ornata. Quivi nulla è negletto di quanto può essere necessario a salvezza dei riguardi di polizia medica. L'ingegnere fu il sig. Cappelletto. Il Salvadori vi provvide con maestria ai comodi, e vi dispose copia grande di acqua, mercé l'artificio dei giuochi». Tanto il Fontana nel suo «Manuale ad uso del Forestiere in Venezia». Il nostro macello fu di fresco ristaurato.

Madonnetta (Calle, Ponte, Calle del Traghetto, Traghetto della) a S. Polo. Per queste, ed altre località d'egual nome, vedi Carmine (Ponte del).

Nel secolo XV il «Ponte» e la «Calle della Madonnetta» a S. Polo eran chiamati eziandio di «Ca' Pisani» pegli stabili posseduti anticamente da questa famiglia, tuttora uniti da un arco sopra cui scorgesi lo stemma Pisani. Fin d'allora poi l'immagine della Beata Vergine esisteva sul Ponte, poiché si ritrae dalle «Raspe» che Andrea Dandolo uccise nel 1393 Andrea Bragadin «in contracta S. Apollinaris, in calli de cha Pisani, ad Pontem Virginis Mariae». E prima, come narra il Sanudo nelle sue Vite dei Dogi, Giovanni Majoni, orefice, il quale andava per la città distruggendo le immagini di Nostra Donna, venne frustato, con sentenza 25 novembre 1364, in varii luoghi ove aveva commesso il delitto, fra cui «sotto il portico di S. Polo, avanti al Ponte di Casa Pisani». Anche in epoca recente l'immagine della B. V. al «Ponte della Madonnetta» a S. Polo venne nottetempo manomessa ed ora più non esiste l'altarino.

Al «Traghetto della Madonnetta», il 5 agosto 1582, vennero ferite due monache converse del S. Sepolcro, l'una sulla testa, e l'altra sopra un braccio, per causa, dicesi, d'amore, e gelosia. Un D. Rossi da Cividale del Friuli, autore del fatto, fu bandito in assenza dal Consiglio dei X con confisca di 100 ducati applicabili a beneficio del monastero del S. Sepolcro, e con comminatoria di decapitazione ove fosse caduto in mano della giustizia.

Maffioletti (Ramo Corte, Corte) in «Birri», a S. Canciano. Si chiamavano queste strade «Calle» e «Corte del Fruttarol», e presso alle medesime nel 1713 un «Antonio Maffioletti» teneva a pigione una casa, ed una bottega da fruttajuolo con due prossimi magazzini. Probabilmente i discendenti d'Antonio si dedicarono a qualche più civile professione, nominando l'Anagrafi Sanitaria pel 1761 un «Paolo Maffioletti» fra i cittadini domiciliati in parrocchia di S. Canciano.

Magazén (Calle del) a S. Benedetto. Ecco come il Boerio nel suo «Dizionario del Dialetto Veneziano» definisce il «magazen», o magazzino: «Bottega dove si vende vino al minuto, e dove ai tempi veneti si ricevevano effetti in pegno, pei quali ritraevansi due terzi in danaro, ed un terzo in vino pessimo, detto appunto Vin da pegni». I «Magazenieri da vin» avevano Scuola di divozione, secondo la «Guida» del Coronelli (edizione del 1700), in chiesa di S. Salvatore, sotto il patrocinio di S. Nicolò vescovo di Bari. Le loro botteghe erano per l'addietro, molto più che adesso, teatro di tresche scandalose tanto nel carnovale, quanto negli altri tempi dell'anno, del che fanno fede varii autori, e fra gli altri il Dotti, il quale nella sua satira intitolata: «La Quaresima», lasciò scritto:

Altri vanno ai magazzini

Dove mai non è penuria

D'appostati camerini

Per ricovro alla lussuria.

Più d'una strada di Venezia trasse il nome da siffatte botteghe.

Scrive il Gradenigo ne' suoi «Commemoriali»: «Le càneve da vino più magnifiche in Venezia inservienti a luoghi pubblici, ossiano Magazzini, sono quelle situate a S. Girolamo, alla Ca' D'oro a S. Sofia, et alli Incurabili. Per altro la botte più grande attenente a simili taverne sta nel magazzino contiguo ai SS. Giovanni e Paolo perché contiene assai più di bigonzi 23, e secchi 13 di vino».

Maggia (Corte). Vedi Majo.

Maggioni (Calle) a S. Maria Nuova. Hanno i Registri Sanitari: «A dì 31 ottobre 1750. Sig.r Alessandro Maggioni del Sig.r Nicolò, d'anni 32, da tabe polmonica da molto tempo, morto all'ore 9, medico Pizzi — S. Maria Nuova». Anche in un elenco di mercadanti Veneziani, posto in appendice al «Libro d'Oro» del 1781, trovasi un «Giovanni Maggioni» da S. Maria Nuova.

Maggiore (Fondamenta presso Corte, Fondamenta Corte, Corte, Ramo Corte) a S. Nicolò. La «Corte Maggiore» sembra aver avuto questo nome comparativamente ad altre Corti di Venezia, assai meno larghe ed estese.

Anche a S. Leonardo havvi una «Calle Maggiore», la quale conduceva ad una Corte che era contrassegnata col medesimo nome forse per la sua ampiezza primitiva.

Magno (Calle) a S. Ternita. Dall'antico palazzo Magno, che poscia servì ad uso della fabbrica di conterie Pitteri. La famiglia Magno venne, come si crede, da Oderzo nel 598, oppure nel 905, produsse tribuni, fabbricò, secondo alcuni, nel 912 la chiesa di S. Vito, e sempre fece parte del Consiglio. Un Giovanni Magno, parroco di S. Simeone Apostolo, restò eletto nel 1306 vescovo d'Equilio. Uno Stefano, nato poco dopo il 1499, raccolse in sua casa celebre museo, e fu scrittore d'una cronaca e di annali Veneziani. In chiesa poi di S. Ternita ebbero sepoltura, con epigrafi illustrate dal Cicogna, Michele Magno che combattè contro i Turchi, sostenne quindi varie cariche civili, e finì di vivere nel 1720; Stefano, fratello di Michele, che più volte appartenne alle «Quarantie», e chiuse i suoi giorni nel 1724; nonché Giovanni, nipote dei due precedenti, eloquente «Avogador di Comun», morto nel 1757. I Magno si estinsero in un Marco q. Stefano nel 1852.

In «Calle Magno», e precisamente fra il palazzo Magno ed il palazzo Manolesso, esisteva, per quanto scrive il Cicogna, l'ospitale delle Boccole, così detto dal cognome della nobile famiglia fondatrice.

Mainetti (Sottoportico) a S. Nicolò. Leggasi, come nel Paganuzzi e nel Quadri, «Mainenti», poiché la Descrizione della contrada dell'Angelo Raffaele pel 1740, sotto la cui giurisdizione si ritrovava anche anticamente questa strada, ci fa edotti che qui abitava un «Gio. Batta Mainenti» in una casa di «Franc.co Patarol». Egli probabilmente apparteneva alla famiglia cittadinesca Mainenti, della quale troviamo in parrocchia dell'Angelo Raffaele anche posteriori memorie, annoverando l'Anagrafi Sanitaria pell'anno 1761 fra i cittadini domiciliati in quella parrocchia un «Antonio Mainenti», e leggendosi nei Necrologi del magistrato medesimo: «23 dicembre 1763. Gio. Maria dell'Ill.mo Antonio Mainenti, di mesi 28, da varole, g.ni 20 - s. Raffaele». Questa famiglia era però diversa dall'altra del cognome medesimo, che produsse un Alvise, eletto nel 1483 secretario dei X e che si estinse in tempi anteriori.

Majo (Corte del) a S. Apollinare. Malamente il continuatore del Berlan fa derivare questa denominazione da «majo» (maglio o mazzapicchio) oppure da «maggio» (ferriera, o luogo delle fornaci dove si cola e lavora la vena del ferro). La Corte indicata è detta, nella Descrizione della Contrada pel 1713, «Corte del Maggia», cognome di famiglia, che qui antecedentemente abitava. Troviamo un «Francesco di Bortolo Maggia», il quale nel 1644 provò la sua civiltà per poter entrare nel Collegio dei Ragionati, ed un «Carlo Maggia» che nel 1661 era «Guardian Grande» della Confraternita di S. Maria della Misericordia.

In «Corte del Majo» esiste una bella «vera» di pozzo, sopra cui scorgesi scolpito lo stemma della cittadinesca famiglia Arborsani, che aveva fabbricato molti stabili presso S. Apollinare, lasciati poscia da essa alla Confraternita della Misericordia.

Malatina (Sottoportico e Corte) a S. Maurizio. Queste località, le quali, benché prossime a S. Maurizio, erano sotto l'antico circondario parrocchiale di Sant'Angelo, desunsero il nome dalla cittadinesca famiglia Malatini, venuta da Modena nel sec. XIV. Un «Bernardo Malatin» notificò nel 1582 di possedere varie case «in contrà de S. Anzolo, in corte de cha Malatini». Ed il Ziliolo (Classe VII, Cod. 90 della Marciana) parlando dei Malatini, così si esprime: «Possedono molti stabili in Venetia, e specialmente a S. Mauritio, dove è il ponte che si chiama de cha Malatini». Tal ponte è prossimo al «Sottoportico e Corte Malatina», ma ora chiamasi «della Malvasia».

Qui presso abitava la famiglia Vellutello, venuta da Lucca, che ci diede Alessandro, commentatore di Dante e del Petrarca, nonché Labieno, figlio d'Alessandro, avvocato fiscale della Signoria e filosofo di grido. Altro Alessandro, figlio di Labieno, riportò in questa sua casa una mortale ferita il 4 febbraio 1601 M. V.

Anche la «Calle Malatina» a S. Ternita denominossi dalla medesima famiglia, poiché il citato «Bernardo Malatin» notificò pure nel 1582 di possedere altre case «in contrà de S. Ternita, in calle de cha Malatini». La famiglia di cui parliamo, oggidì estinta, faceva per arma una torre, aveva tomba in chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, e produsse, secondo l'espressione delle cronache, «molti uomini nobili nelle lettere e nella mercatura».

Malcanton (Fondamenta, Rio, Callesella del) a S. Margherita. Suppone il Dezan che la «Fondamenta del Malcanton» abbia questo brutto nome perché, quando era molto stretta, chi passava disavvedutamente colà ove essa piega a semicerchio, correva rischio di cadere nell'acqua; oppure perché in tale deserta situazione della città i viandanti venivano nottetempo aggrediti, come succedeva in «Calle della Bissa», e presso il «Ponte degli Assassini». Tuttavia noi stiamo con una antica tradizione, e con alcune cronache seguite dal Salsi nei suoi «Cenni storico-critici sopra i Pievani di S. Pantaleone», le quali tramandano che la «Fondamenta del Malcanton» sia stata in tal guisa appellata pel seguente storico avvenimento. Al principio del sec. XIV Ramperto Polo, vescovo di Castello, pretendeva dal parroco di S. Pantaleone, Bartolomeo Dandolo, la decima sui morti della parrocchia, come gliela tributavano i parroci delle altre chiese. Quello di S. Pantaleone, per dispensa avuta dal vescovo antecessore, si rifiutava di pagargliela. Ora avvenne che, mentre Ramperto recavasi ad esigerla colla forza, giunto a questa fondamenta, fu dall'ammutinato popolo assalito ed ucciso. Credesi che da tal fatto nascesse inoltre la famosa nimistà dei Castellani e dei Nicolotti.

Una parte della «Fondamenta del Malcanton» è chiamata anche «Bembo» per alcuni stabili già posseduti da questa patrizia famiglia.

In capo alla «Fondamenta del Malcanton» leggesi sopra una porta un'iscrizione accennante alle antiche case, che colà esistevano, dei Faliero, rifabbricate dagli eredi Dandolo nel 1475.

Malibran (Corte del Teatro). Vedi Teatro.

Malipiero (Calle, Ramo, Salizzada) a San Samuele. Archiacuto in origine, come si scorge da alcuni avanzi, era il palazzo Malipiero, che guarda colla facciata il «Canal Grande», ma venne ridotto nella forma presente sul principio del secolo XVII, e probabilmente nel 1622, anno che, insieme allo stemma della famiglia, scorgesi scolpito sopra una delle porte nella «Salizzada». Questo palazzo, che più anticamente apparteneva ai Cappello, ritrovasi inciso nella raccolta del Coronelli.

I Malipiero, venuti da Altino alla fondazione di Venezia, chiamavansi anticamente Magistrelli, e poi Maistropieri. Poterono far parte del Consiglio fino dal 908, e concorsero alla fabbrica delle chiese di S. Croce, S. Geremia, e S. Maria Maggiore. Orio Malipiero salì nel 1178 al soglio ducale, che illustrò colla sottomissione di Zara ribellata, e colla spedizione d'un'armata in terra Santa. Ma nel 1192, dopo 14 anni di governo, abdicò, facendosi monaco in S. Croce. Un «Pierazzo» della medesima famiglia fu eletto nel 1370 Provveditore alla difesa di Mestre contro i Carraresi, e nel 1380, essendo sopraccomito contro gl'Istriani, ruppe un ponte fatto dai nemici, e ricuperò Capo d'Istria. Anche Pasquale Malipiero, dopo avere più volte disimpegnato con lode le cariche di Provveditore di Campo, e di ambasciatore, ebbe il berretto ducale nel 1457. Della linea di Pasquale fu quel Domenico, che nel 1484, sostituito nel comando al generale Giacomo Marcello, colpito da bombarda sotto Gallipoli, prese quella città, e nel 1496, essendo Provveditore d'armata a favore dei Pisani contro i Fiorentini, combatté virilmente all'assedio di Livorno, riportando le lodi dello stesso imperatore Massimiliano I, che colà si trovava presente. Egli ci lasciò gli «Annali» intorno alle cose di Venezia dal 1457 fino al principio del secolo XVI, i quali videro la luce nell'«Archivio Storico Italiano». I Malipiero brillarono per altri guerrieri, per altri letterati, e per alcuni vescovi. Fra i membri più moderni di questa famiglia, che diede il nome ad altre strade di Venezia, e che si estinse nel 1856, ricorda il Cicogna quell'Angelo, il quale, essendo stato nel 1797 confinato nell'isola della Giudecca, divenne mezzo pazzo, e ricusò di ritornare in città anche dopo la caduta della Repubblica, in quell'anno medesimo successa, dicendo che un decreto del Consiglio dei X avealo bandito, e che soltanto un decreto consimile poteva liberarlo. Mandossi pertanto un cotale, camuffato da «Comandador», ad intimargli il ritorno, al che il Malipiero obbedì, ritirandosi in una casa ai Tolentini, ove morì nel 1826 scemo di cervello, e fisso nell'idea che la Repubblica ancora sussistesse.

Malpaga (Rio, Calle, Ponte del) a S. Barnaba. Dal palazzo che, secondo il genealogista Girolamo Priuli, fece fabbricare all'imboccatura di questo rivo Fantino Michiel, soprannominato Malpaga, nel secolo XV. Ora di questo palazzo non esistono che le mura di cinta, scorgendosi tuttora però, alla sommità dell'arco della porta, lo stemma Michiel. L'altro genealogista poi Marco Barbaro assegna al soprannome attribuito ad esso Michiel e posteri l'origine seguente: «Fantin q. Mattio» (Michiel) «fu fatto capitan general in golfo di 25 galie; del 1424 fu fatto la pace con Amurath Turco, e venne a disarmare nel 1425. Dicesi che costui in una notte fece fare il castello appresso Ragusi, detto Malpaga. Et pagò galioti; poi giunto a Venezia persuase alla signoria che tutti li salariati de navigli armati perdessero le decime dei suoi salari nel disarmare. Et così osservasi fino al presente che li suoi mesi si fanno di giorni 33; et quando li galioti passano inanci ad esso castello sempre con ignominiose parole lo biastemano, et colui fece farlo, et li tragono legni e sassi, e perciò li discendenti del detto Fantin sono detti Michieli Malpaga».

Racconta il Sanudo nei «Diari» che, in forza del terremoto successo in Venezia il 26 marzo 1511, caddero quattro camini «alla cha de cha Michiel cognominati i Malpaga, al tragetto di S. Barnaba».

Altri pretendono che il «Rio», ed il «Ponte del Malpaga» sieno così appellati perché colà abitasse il generale Bartolammeo Colleoni, signore del castello di Malpaga nel Bergamasco. Altri finalmente credono Malpaga cognome d'una famiglia popolare, che qui presso fosse domiciliata. Non crediamo però che possa essere messa in dubbio l'etimologia da noi più sopra riferita.

Maltese (Calle e Corte del) detta dei Risi a S. Paterniano. Chi s'addentra in questa corte vede, non senza meraviglia, una magnifica scala esterna a «bòvolo», ovvero a chiocciola, architettata nel secolo XV, come sembra, da uno dei Lombardi, ed appartenente al palazzo dei Contarini perciò detti «dal bovolo», il quale ha la sua facciata archiacuta sopra il rivo di S. Paterniano. Il Martinioni nelle sue Aggiunte alla «Venezia» del Sansovino, dopo aver descritto l'altro palazzo Contarini, poscia Mocenigo, in «Rio di San Luca, o delle Poste», così continua: «Più avanti, sopra il medesimo Rio, in contrà di S. Paterniano, vi è il palazzo di Gio. Battista, Marco, e Nicolò Contarini, prestantissimi et virtuosi senatori, detti dal Buovolo per una scala insigne, tortuosa, fatta tutta di marmo con colonne e volti, coperta tutta di lastre di piombo, per la quale si ascende in giro, chiamata comunemente scala in buovolo, in cuppole e corridori, fabbricata con eccellente ordine d'architettura, e con spesa incredibile» ecc.

Fino dal 1261 trovasi nel Barbaro un Paolo Contarini dalla parrocchia di S. Paterniano, ove nacque eziandio il doge Andrea, nipote di Paolo. Questo ramo dei Contarini possedeva in chiesa di S. Paterniano l'altare del Crocefisso colla propria tomba d'innanzi. Circa il palazzo, esso nel secolo trascorso passò in proprietà dei Minelli, pel matrimonio, avvenuto nel 1717, fra Elisabetta, figlia di Pietro Maria Contarini, e Giovanni Minelli. Fu acquistato poi nei primi anni del nostro secolo dalla ditta Emery, dalla quale l'ebbe a pigione Arnoldo Marseille, che v'aprì e vi tenne per molt'anni un albergo detto del «Maltese», originando così la prima denominazione portata dalle prossime vie. Finalmente nel 1852 venne lasciato, per testamento, alla confraternita dei poveri della parrocchia di S. Luca, ed ora vi ha sede la Congregazione di Carità. La scala ebbe di recente, unitamente al palazzo, un ristauro.

Quanto alla seconda denominazione assai più antica, leggasi, come nei catasti, «dei Rizi», e non «dei Risi». E' probabile che qui abbia abitato una famiglia «Rizo», o «Rizzo», perocché in una delle «mariegole» appartenenti alla scuola di S. Maria della Misericordia (an. 1308-1499) trovasi ascritto qual confratello un «Zamaria Rizo» da S. Paterniano, e giusta le Condizioni del 1582, un «Piero de Rizi» faceva il suo domicilio allora nella medesima parrocchia.

Mandolèr (Calle del) a S. Tomà. La Descrizione della contrada pel 1740 pone presso il «Campo di S. Tomà» e la «Scuola dei Calegheri, una bottega da mandoler, affittata ad Anzolo Zardon, di rag.ne delli R.R. Padri della Certosa».

L'arte dei «Mandoleri», o Venditori di mandorle, era unita dal 1675 a quella degli «Spezieri da grosso». Vedi Speziali (Ruga dei).

Mandolìn (Calle del) a S. Martino. Questa località era sottoposta alla parrocchia di S. Tèrnita, e ritrovasi che il 20 maggio 1775 morì in detta parrocchia «Giovanni, q. Giovanni Mandolin d'anni 33».

Manestra (Campiello dei) a San Nicolò. Dalla famiglia Dabalà soprannominata «Manestra». Leggesi nelle Notifiche presentate ai X Savii in occasione della Redecima del 1740 che un «Maria Dott. Savelli» possedeva varie case «in contrada S. Nicolò, presso S. Marta, in Campiello di Manestra», una delle quali era appigionata da «Anzola relita dal q. Nadalin Dabalao detto Manestra», ed un'altra ad «Innocente Dabalao detto Manestra». A questa famiglia appartenne Vincenzo Dabalà, detto Manestra, ultimo doge dei Nicolotti. Vedi Remurchianti (Campiello ecc. dei). Il «Campiello dei Manestra» a S. Nicolò attualmente è chiuso.

Manganèr (Calle del) ai SS. Apostoli. Nel 1713 in «Calle del Manganer» ai SS. Apostoli eranvi la «casa e bottega da Manganer», tenute dal «sig. Pietro Bonora».

I «Manganeri» (manganatori) si dividevano in due colonnelli, cioè «lustradori da seda» (di panni di seta) e «lustradori da lana» (di panni lani). Avevano scuola di devozione in chiesa di Santa Maria Formosa, sotto il patrocinio di S. Caterina. Ignorasi quando quest'arte si unisse, ma trovansi documenti della sua esistenza in corpo fino dal 1603.

Anche la «Calle di S. Matteo» è detta del «Manganer», e nel 1661 troviamo descritte poco lungi dalla chiesa di S. Matteo, ora distrutta, una «casa e bottega con comodità del mangano, voda, di ragion della sig. Angela q. Benetto q. Piero Baron».

Francesco Maldacena, napoletano, cesellatore, domiciliato «in contrà de S. Mattio sulle scale del Mangano», essendogli l'11 giugno 1741 fuggita di casa «madama Francesca», supposta sua moglie, e credendo che ciò fosse avvenuto per persuasione, ed aiuto d'un «Luigi Patur detto Piemonte», che in quello stabile medesimo abitava, lo ammazzò il giorno 17 successivo, fuggendo poscia da Venezia sulla corriera di Ferrara. Perciò venne capitalmente bandito il 1° febbraio 1741 M. V.

Maraffoni (Calle) a Castello, in «Ruga». Fino dal 1641 un «Ger.mo Maraffon q. Zorzi» comperò due case a Castello, la prima da «Elena Curzolara», e la seconda dall'«eredità di Sebastian Zorzi». Egli è probabilmente quel «Gerolamo Maraffoni, paron de nave», domiciliato, secondo i registri «dell'Avogaria», a Castello, una figlia del quale, nominata Catterina, sposò nel 1648 Nicolò Olini. La casa poi ove il Maraffoni abitava era situata precisamente, giusta la Descrizione della contrada di S. Pietro di Castello pel 1661, nella località che perciò si disse «Calle del Maraffon», o «Calle dei Maraffoni». Il suddetto Girolamo morì nel novembre dell'anno 1663, lasciando eredi i propri figli Giorgio, Giovanni, e Pietro, che, mediante le divisioni avvenute, fecero i loro traslati di proprietà nel 1677.

Marangon (Calle del) a San Vito. Più non si scorge in questa situazione la bottega da «marangon», o falegname. Anticamente, quando facevansi le case di legno, erano tanto numerosi questi artieri in Venezia che dal loro nome appellavasi «Marangona» quella campana, la quale, sorto il sole, eccitava ai lavori, dalla torre di San Marco, ogni ordine di persone. Essi dividevansi in quattro colonnelli: I. «Marangoni da case» (lavoravano quanto spetta alla struttura degli edifici, e tutte le opere di legno bianco inservienti agli usi domestici); II. «Marangoni da noghera» (fabbricavano i mobili non impiallacciati); III. «Marangoni da soaze» (facevano «soaze» o cornici); IV «Marangoni da rimessi» (si occupavano d'impiallacciature e tarsie). L'arte dei Marangoni, il cui statuto incomincia coll'anno 1335, raccoglievasi dapprima, sotto il titolo della B. V. Annunziata, nella chiesa dell'Ascensione, in capo del «Broglio», ma nel secolo XV trasportossi a S. Samuele, ove nel 1463 fabbricò un albergo, assumendo per protettore San Giuseppe. Questo edificio, situato nella così detta «Calle delle Carrozze» e modernamente rifabbricato, vantava ancora in quest'ultimi anni un bel poggiuolo colla data del 1558, che aveva scolpito San Giuseppe in atto di lavorare da legnaiuolo alla presenza del suo divino figlio putativo, e di Nostra Donna, ma che venne levato di posto, e venduto nel 1883. La denominazione è anche altrove ripetuta.

Maravégie (Ponte delle) ai SS. Gervasio e Protasio. Secondo il Dezan, abitava, o possedeva stabili, in questa situazione la famiglia cittadinesca Maraviglia, o «Maravegia», famosa per quell'Alessandra sorella di Giovanni Maraviglia, secretario del senato, e moglie di Pietro Albino, gran cancelliere del regno di Cipro, la quale, dopo la presa di Nicosia, fatta prigioniera con molte Cipriote, diede fuoco, innanzi di far vela per Costantinopoli, al luogo delle munizioni, ed arse non solo la nave ov'era, e sé medesima ancora, ma fu motivo che il fuoco s'appiccasse ad altri due legni vicini, e che tutti perissero i prigionieri colà raccolti.

Non vogliamo tacere però che circa l'origine del nome attribuito al «Ponte delle Maravegie» (meraviglie) corrono due fantastiche tradizioni popolari, riportate dal Pullè nelle sue annotazioni ai «Canti del popolo Veneziano» del Foscarini.

Narra la prima che questo Ponte fu così detto perché venne in una notte meravigliosamente edificato da mani ignote, essendo stati posti in uso que' materiali che il giorno innanzi erano stati colà preparati per dar principio all'opera.

Dice la seconda che in faccia al Ponte suddetto abitavano sette sorelle, sei delle quali belle, ed una brutta. Aveva incominciato a frequentare la loro casa un giovane barcaiuolo, ma da quel momento in poi, di sano e robusto, era divenuto tanto ammalaticcio e debole da non rimanergli forze sufficienti a cimentarsi in una prossima regata. Egli allora si credette ammaliato, ed il suo sospetto cadde sopra la settima sorella brutta chiamata Marina, che, quantunque volte lo vedeva, cercava di fuggirlo. Volendo adunque vendicarsi, ed avendo scelta una sera in cui, per essere il Venerdì Santo, il padre e le altre sorelle erano andate a visitare i «sepolcri», s'avviò verso la casa della Marina, ma, sbigottito pell'atto che andava a commettere, sostò prima per pochi minuti sul ponte. Quand'ecco per la finestra la presunta maliarda inginocchiata dinnanzi ad un Crocefisso, e nel punto medesimo alzati gli occhi al cielo, notò sei stelle fiammeggianti, disposte a foggia di carro, colla ruota ed il timone, precedute da una settima piccola e fioca. A mano a mano però le sei lucide perdevano splendore, e si faceva più bella la settima, finché le altre si dileguarono, ed essa rimase unica a risplendere nel cielo. La vista di lei che inginocchiata pregava, nonché il prodigio, che, per un arcano sentimento, gli sembrava aver relazione co' casi suoi, mutarono interamente l'animo del barcaiuolo, e lo fecero entrare diffilato in casa, ove, interrogata la Marina se era vero che l'aveva ammaliato, e che voleva farlo morire, questa piangendo gli manifestò il celato amore che per lui nutriva nel seno, e gli disse che in quel momento pregava Iddio di farla morire in di lui vece. Intenerissi il garzone ai tai detti, e, siccome breve è il passaggio dalla compassione all'amore, anch'egli cominciò ben presto a corrispondere ai sentimenti della fanciulla, per cui, lasciati da parte i pensieri di morte, e riacquistata la salute, vinse la regata, ed ebbe la Marina in isposa. Da quel momento il ponte, sopra cui egli vide il prodigio delle sette stelle, ben a ragione avrebbesi chiamato «delle Maravegie» (meraviglie).

Al «Ponte delle Maravegie», in casa di Giovanni Crassifida, si eseguì nel 1754, sia pel canto che pel suono da alcuni nobili accademici, l'«Artaserse» del Galuppi.

Marcello (Ponte) ai Tolentini. Di stile archiacuto del secolo XIV, sorge appiedi di questo ponte il palazzo, che apparteneva ad un ramo dei patrizii Marcello.

Discesa dalla gente Claudia Marcella, celebre nei fasti di Roma antica, sarebbe venuta fra noi la famiglia Marcello nel principio del settimo secolo. Almeno così dicono i cronisti, i quali aggiungono aver essa prodotto «tribuni antichi, buggiardi oltremodo, huomini di battaglia, che spesso facevano questione, et leggeri di cervello». Chiara pel doge Nicolò eletto nel 1473, e per alcuni vescovi, fu più chiara ancora questa famiglia per le belliche imprese di Giacomo Antonio Marcello che fiorì nel 1438 combattendo contro i Milanesi; di Pietro di lui figlio che, essendo nel 1482 Provveditore di Campo contro il Duca di Ferrara conquistò il Polesine; d'altro Giacomo, generale di mare, che nel 1484 restò ucciso da un colpo di bombarda sotto Gallipoli; di Lorenzo, chiamato dal Capellari «vero fulmine di guerra», che, capitano nel 1638 delle galeazze, fece risplendere il proprio valore nella disfatta delle galere barbaresche perdendo un braccio, e che, generalissimo di mare nel 1656, venne a giornata coi Turchi ai Dardanelli, nella quale morì colpito da una cannonata nel fianco. La famiglia Marcello poi vanta una corona che manca all'altre famiglie consorelle, ed è quella lasciatale in retaggio da Benedetto Marcello, nato nel 1686, e morto nel 1739, famoso per le sue opere poetiche e musicali, ma specialmente per quest'ultime, laonde meritò d'essere dichiarato «Principe della musica veneziana».

Dalla famiglia Marcello altre strade di Venezia presero il nome.

Presso il «Ponte Marcello» ai Tolentini scorgesi l'antica scuola dei «Laneri», dedicata a San Bernardino, la quale il 26 maggio 1620 patì grave incendio. In tale occasione, per la caduta d'un muro, restò morto il patrizio Nicolò Malipiero. Nel 1633 venne ricostrutta con marmoreo prospetto, come si vede.

Marcona (Calle, Corte) a S. Pantaleone. Dalla famiglia Marconi. Parlando dei Marconi, così dice una cronaca cittadinesca del secolo XVI (Cod. 939, Classe VII della Marciana): «Questi vennero da Fiorenza a Ven.a. Erano homeni industriosi, grandi de persona, et li piaceva accumular denari. Et si domandavano Mallacarne, et portano nell'arma un mezzo bo, et un mezzo can levriero; et un s. M.co Mallacarne, havendo una nave co la qual conduceva li pellegrini ch'andavano in Gerusalem gratis et amore, per esser grando e grosso, li fo detto sempre Marcon, et la nave del Marcon. Sono antiquissimi in Venetia da 300 anni in suso, e gl'è la corte de cha Marconi a S. Pantaleon, et altre fabbriche per loro fatte in Venetia alli Carmini, et altrove, et sono stati sempre honorati».

Anche le «Mariegole» della Scuola di S. Giovanni Evangelista fanno fede che era da S. Pantaleone quel «Carlo Marconi», il quale venne ascritto a quel pio sodalizio nel 1482, e nell'anno seguente ne divenne Guardian Grande.

Margaritera (Corte) a San Martino. Nella Descrizione della parrocchia di S. Martino pel 1740 trovasi qui posto un terreno da «margariter» del «N. U. Francesco Barbarigo», tenuto da «Michiel dalla Venezia».

L'arte dei «Margariteri» o lavoratori di quelle piccole pallottoline di vetro smaltato d'ogni tinta che si chiamano «margarite», incominciò a svilupparsi in Venezia nel secolo XIII. Narrasi che un Cristoforo Briani, avendo appreso dal celebre viaggiatore Marco Polo quanto gli abitanti delle coste della Guinea andassero pazzi pell'agate, per le granate, ed altre specie di pietre preziose, si dedicasse ad imitarle col vetro. Domenico Miotti condusse in seguito a maggior perfezione l'opera del Briani, e spedito a Bassora un carico della novella mercanzia, ritornò in patria provveduto d'oro non poco. Fu allora che istituì in Venezia un'arte del tutto distinta dalla generale vetraria, chiamandola delle «Margarite», poiché sotto questo nome erano generalmente conosciute le granate, e le altre pietre preziose. I «Margariteri» dovevano, per legge, ritrarre le paste necessarie ai lavori dalle fornaci di Murano. Anticamente erano uniti ai «Perleri» (perlai), ma dopo il 1500 si divisero. Avevano scuola di divozione a San Francesco della Vigna, sotto il patrocinio di Sant'Antonio Abate, e, come dice la Statistica del 1773, si partivano in due colonnelli, da «ferrazza», e da «spiedo», contando 100 capi maestri, 70 loro figliuoli, 26 padroni di fornaci, 11 «mezzadi» per negozio, e 26 fornaci.

Mariani (Corte). Vedi Marioni.

Marin (Rio) a San Simeone Profeta. Dice il Gallicciolli che fino dal 1080 trovasi questo rivo così denominato. Ed una «Stefania del fu Pietro di Rivo Marin» è citata in un documento del luglio 1100 nell'archivio di San Zaccaria. Aggiunge poi il Gallicciolli che il rivo medesimo trasse il nome dall'essere stato fatto scavare a mano da Marin Dandolo. Anche il Corner («Eccl. Ven. Dec. X»), parlando dell'istituzione del priorato di San Giovanni Evangelista, operata dai Badoer, dice che «Baduariae familiae eo temporis subjacebat quidquid terrarum atque domorum a S. Stephani paroecia extendebatur ad eum usque rivum quem Marinum nuncupatum fuisse fertur ex Marino Dandulo, qui, ut hasce domus ab aliis in confinio S. Jacobi de Luprio sitis sejungeret, rivum ipsum effodi jusserat».

Presso questo rivo esisteva un tempo il così detto «Purgo», sapendosi dalle vecchie memorie che Giacomo d'Armer, morto il 20 settembre 1353, «stava in Rio Marin presso il Purgo». Tale stabilimento venne poscia trasportato sul finire della «Fondamenta della Croce», ove trovavasi anche al cadere della Repubblica. Si legge nella cronaca del Savina all'anno 1587, 24 maggio: «Fu presa parte in gran cons.o che Nicolò Memo fu di Gio. Maria possi alienare il suo stabile condicionato che è sopra Canal Grando app. Santa Croce per poter maritare et monacare alcune sue figlie, et lo vendere, come fece, alli signori Soprastanti del Purgo per fare il loro uffizio, et per purgar li panni, sendo molto stretti nella sua stantia di Rio Marin, et lo comperarono per XVm. ducati». Il «Purgo» era un tratto di terreno con gallerie, destinato a mondar coll'acqua le lane ed i panni, al quale era annesso il detto «Uffizio» o «Camera del Purgo».

Il «Rio Marin» nel 1875 venne, coll'atterramento d'alcune case, in qualche punto allargato.

Marina (Secco) a S. Giuseppe. Vedi Secchera.

Marinoni (Campiello). Vedi Malvasia Vecchia.

Marioni (Sottoportico e Corte) a S. Giacomo dall'Orio. Leggasi «Mariani», come nella Descrizione della contrada di San Giacomo dall'Orio pel 1713, la quale ci fa avvisati che in «Corte de Ca' Mariani» possedevano varie case «D. Paolo e Gio. Batt. fratelli Mariani». Sappiamo che i medesimi fratelli, per salvare dal pericolo d'incendio gli stabili da loro posseduti, avevano chiesto nel 1693 di poter abbattere il vicino ospedaletto di S. Giacomo dall'Orio, costrutto di tavole, col patto d'erigerne a loro spese un novello di pietra. La famiglia Mariani fu riconosciuta cittadina originaria il 1° maggio 1717, ed in Venezia era d'antica civiltà, poiché, fino dal 18 aprile 1560, un «Zuane Mariani» fece il suo testamento, ove si dice «nobile della Brazza, cittadin Veneto, e Scrivan al Monte del Sussidio». Dai registri dell'«Avogaria» risulta pure che questa famiglia possedeva non mediocri ricchezze, acquistate in mare negoziando con navi proprie, e che abitava in «Campo di S. Giacomo dall'Orio» in un palazzo da essa fabbricato con altre case vicine. Tale palazzo è senza dubbio quello il quale colla facciata guarda la chiesa di S. Giacomo dall'Orio e per di dietro confina colla «Corte Mariani».

Marte (Campo di) a S. Maria Maggiore. Colle macerie e sozzure, e col limo scavato dai canali avevasi formato in questa situazione uno spazio solido e vasto, che raggiungeva il livello delle vicine strade. Volendosi approfittare del medesimo per le militari evoluzioni, si diede mano ad accomodarlo all'uopo, e si aprì al pubblico il 31 agosto 1828 col titolo di «Campo di Marte».

Martini (Fondamenta) ai Carmini. Vedi Briati.

Maruzzi (Calle) a S. Lorenzo. Risulta dalla Descrizione della contrada di S. Severo pel 1740, che, fino da quell'epoca, la famiglia Maruzzi, originaria dall'Epiro, possedeva ed abitava il palazzo posto in questa situazione. Hanno i Necrologi Sanitarii la seguente annotazione: «23 feb. 1755 M. V. Illmo Sig.r Pano q. Anastasio Maruzzi d'anni 30 d'una ferita stata data nel peto, che li colpì il cuore, oltre molte altre, come da fede del sig.r Vincenzo Gasparini, chirurgo de la contrà di S. Gio. in Bragora, in questo g.no suddetto, all'ore 19, finì di vivere. S. Severo, Cap.lo». L'uccisore fu Giorgio Cristandopulo, il quale, colto dai birri, si diede tre profonde ferite nell'addome, e come da altra annotazione del necrologio, morì in prigione il giorno 27 del mese medesimo. La famiglia Maruzzi, che era tanto ricca da aver potuto una fiata sovvenire l'esausto erario di Caterina II imperatrice delle Russie, si estinse il 20 febbraio 1846 nel marchese Costantino figlio di altro Pano, e della principessa Zoe Gicha. Eletto, fino dagli anni suoi giovanili, ciambellano, commendatore, uffiziale delle guardie imperiali russe ecc., rinunziò poscia ad ogni ambizione, dedicandosi ad una vita lieta, e filantropicamente tranquilla in mezzo ai numerosi suoi amici. Egli possedeva pure uno dei palazzi componenti le «Procuratie Vecchie», il che fu causa che un Sottoportico ed una Corte, colà situati, acquistassero il medesimo nome.

Marzaria. Vedi Merceria.

Marzer (Calle del) a S. Polo. La bottega da merci in questa situazione è tuttora aperta. Pell'arte dei «Marzeri» (merciaj) vedi Merceria.

Maseràn (Calle) ai SS. Apostoli. Vedi Mazzorana.

Matta. Vedi Ca' Matta.

Mazzini (Calle larga). Vedi Scimia (Calle della) a S. Salvatore.

Mazzorana (Calle) ai SS. Apostoli. Leggasi cogli Estimi «Maserana», o «del Maseran». Abbiamo memoria che una famiglia di questo cognome abitava in parrocchia dei SS. Apostoli nel secolo XVI, poiché un Paolo Locatello l'8 giugno 1560 andò a fare il proprio testamento in atti A. M. Vincenti, «in casa di m. Francesco Maseran in contrà di Santi Apostoli». Questi forse apparteneva alla famiglia Maseran di Murano, che occupavasi nell'industria vetraria. Un «Antonius Maseranus fiolarius de Muriano» è nominato fino dal 1318 nel libro «Clericus-Civicus», contenente le deliberazioni del Maggior Consiglio. Questa famiglia aveva tomba in chiesa di S. Donato di Murano.

Mazzorini (Sottoportico dei) a S. Geremia. Dalla famiglia Mazzorini, che si estinse nel 1886 in una Maria Mazzorin, la quale abitava nella casa sovrapposta a questa località.

La famiglia Mazzorini esercitava l'arte dei tessitori in seta ed in oro, e dai telaj della medesima uscirono i broccati e damaschi, che resero celebre Venezia nell'Oriente. Fra le migliori opere che esistono di questa casa, si annovera il famoso ombrello di S. Rocco, nonché il ricco parapetto della chiesa medesima, per tacere d'altri pregevoli lavori, tuttora esistenti fuori della nostra città.

Màndola (Calle, Ramo Calle, Rio Terrà della) a S. Benedetto. Al termine di questa calle, verso S. Angelo, sorgeva sopra il rivo, che venne interrato, un ponte, il quale in tempi antichi chiamavasi del «Fruttarol», ma poscia si disse «della Mandola», o «della Mandolina», a cagione dell'acquavite colla «màndola», solita a vendersi in una prossima «malvasia». Il Ponte suddetto comunicò il suo nome alle finitime località. Troviamo che esso venne rifatto giusta la terminazione 30 maggio 1759.

Màsena (Ramo, Calle della) ai SS. Ermagora e Fortunato. La Descrizione della contrada dei SS. Ermagora e Fortunato pel 1661 è testimonio che allora in «Calle della Masena» esisteva una «casa da masena da lin voda», posseduta da un Paolo Marioni.

Altre «masene» (macine) diedero lo stesso nome ad altre strade di Venezia.

Meloni (Calle, Campiello, Rio dei) a S. Apollinare. Venditori di poponi, «vulgo meloni», avrebbero dato il nome secondo il continuatore del Berlan, a queste località. Il «Rio dei Meloni» era attraversato da un ponte egualmente intitolato, che da parecchi anni venne distrutto.

Presso questo ponte aveva bottega nel 1725 Bartolammeo Baggietta, barbitonsore, che venne accusato dal proprio garzone d'aver tagliato la testa col rasoio ad un forestiere, d'averla seppellita quindi nella bottega, e d'aver gettato il cadavere in «Canal Grande». Perciò fu posto in prigione, ma poscia si scoprì innocente, e si procedette in quella vece all'arresto del calunniatore.

Dalla medesima circostanza appellossi forse «dei Meloni» una altra Calle ai SS. Giovanni e Paolo, presso la «Calle della Testa». La «Calle dei Meloni» ai SS. Giovanni e Paolo comunicava colla «Fondamenta dei Mendicanti» per mezzo d'un ponte, pur detto «dei Meloni», il quale, come si legge nella «Pianta Topografica» di Venezia, unita ai «Viaggi» del Coronelli, era «fatto a volto, d'industriosa struttura, colle bande tutte di legno». Anche questo Ponte da alquanti anni scomparve, ed ora ne porta la denominazione il nuovo ponte di ferro, eretto nel 1855 a cavallo della «Fondamenta dei Mendicanti», allorché si scavò la cavana interna pell'approdo delle barche al Civico Ospitale.

Mende (Corte, Ramo Primo, Calle, Ramo Secondo, Ramo Terzo delle) agli Incurabili. «Il rimendare, ossia cucire la rottura dei panni può aver originato cotal denominazione. Son fatture pazienti da donne, e donnucce in queste grette callaje ce ne sono a torme». Così il continuatore del Berlan. E' più probabile però che le strade suddette abbiano tratto il nome dalla famiglia Menda. Un «Francesco Menda» viveva nella prima metà del secolo trascorso.

Mendicanti (Ramo Primo, Ramo Secondo, Ramo Terzo, Calle, Ponte, Fondamenta dei). L'origine dell'ospitale dei Mendicanti risale al secolo XIII quando i veneti legni, reduci dalla Soria, importarono la lebbra. Allora (anno 1224) si raccolsero coloro che ne erano affetti in una Corte ai SS. Gervasio e Protasio, la quale era detta di S. Lazzaro, dandosi comunemente tal nome alla lebbra. Nel 1262 si trasportarono gli ammalati in un'isoletta della laguna, pel motivo medesimo appellata in seguito di San Lazzaro, ove, diminuitasi la lebbra, si concentrarono nel secolo XVI «mendicanti e vecchi impotenti». Finalmente, nei primordii del seguente secolo XVII, la carità dei Veneziani, e specialmente quella dei ricchi mercatanti Bartolammeo Bontempelli dal Calice e G. Domenico Biava fece sorgere pei mendicanti, sul disegno dello Scamozzi, un ospizio situato nell'interno della città, ai SS. Giovanni e Paolo, non lungi dalle «Fondamente Nuove». La chiesa, che lo Scamozzi piantò nel centro dello spedale, si consecrò nel 1636 sotto l'invocazione di S. Lazzaro, e nel 1673 s'innalzò il suo prospetto sul disegno di Giuseppe Sardi, giusta il testamento dell'altro mercadante Jacopo Galli. Chiuso l'ospizio dei Mendicanti contemporaneamente alla chiesa dopo la caduta della Repubblica, fu destinato nel 1809 ad ospitale militare insieme alla Scuola di S. Marco, alla Cappella della Pace ed al convento dei SS. Giovanni e Paolo. Tutti questi edifici costituirono poi nel 1819 l'Ospitale Civile, per uso interno del quale si ridonò nel 1826 al divin culto la chiesa.

Ricovrandosi, sotto la Repubblica, ai Mendicanti anche fanciulle abbandonate, esse venivano erudite nella musica istrumentale e vocale, in modo che solevano accompagnare col suono e canto le funzioni ecclesiastiche, ed eseguire i celebri oratori. Ciò praticavasi egualmente alla Pietà, Ospedaletto ed Incurabili.

Il «Ponte dei Mendicanti», che era di pietra, fu per vecchiezza atterrato nel 1828, e sostituito con un ponte di legno, che però fu rifatto in marmo alcuni anni dopo.

Menùo (Rio). Si stacca dal «Canal Grande» fra S. Luca e San Benedetto ove pure è detto «Rio delle poste», e, prendendo per via altri nomi, torna a scaricarsi nel canale medesimo a San Moisè di faccia la Dogana. Esso in alcuni documenti del secolo XII appellasi «Rivus de Minutolo», laonde puossi supporre che «Minutolo» sia cognome di famiglia, benché nulla in proposito ci abbiano lasciato scritto i cronisti. Siccome poi «menuo» in vernacolo vuol significare «piccolo», così dicesi proverbialmente che «va per rio menuo» chi fa piccola spesa, e cerca tutti i possibili risparmi.

Leggiamo in una cronaca, che fra le case dei complici di Bajamonte Tiepolo, bollate per infamia col leone, entrava quella dei Corner in «Bocca del Rio Menuo a S. Benedetto». Essa è il palazzo archiacuto, che ha la facciata sul «Canal Grande», e che unitamente all'attiguo, avente in vece la facciata lombardesca sul rivo, apparteneva ai Corner, e poscia passò nei Contarini e nei Mocenigo. Oggidì è più conosciuto sotto il nome di palazzo Cavalli, dai due cavalli marini che servono di cimiero ai due scudi gentilizi scolpiti sulla facciata. Sembra pure che questo sia quel «palazzo Corner a S. Benedetto», di cui parla il Da Porto nelle sue «Lettere Storiche», raccontando che, mentre qui nel 1509 abitava il generale Alviano, gli si presentò un giorno, ad ora della mensa, un cerretano bergamasco, predicendogli cattivo esito nella guerra che stava per intraprendersi contro i collegati di Cambrai.

Altra cronaca, per indicare il sito preciso della casa che i Barozzi, complici pur essi del Tiepolo, avevano a S. Moisè, e che il governo fece spianare dai fondamenti, la dice situata «a banda zanca, in bocca del Rio Menuo, dalla parte verso S. Marco, per mezo la doana». Queste parole accennano all'odierno «Campiello del Tagliapietra», il quale anche nella pianta di Venezia, incisa nel 1500, ed attribuita al Durero, scorgesi privo di fabbricati.

Di tal guisa il «Rio Menuo», sì nell'uno che nell'altro dei suoi capi, ricorda la celebre congiura.

Merceria (Ramo della) a S. Giuliano. Mette alla «Merceria», cioè a quella strada che dalla «Piazza di S. Marco» conduce al «Campo di S. Bartolomeo», e che dividesi in «Merceria dell'Orologio» dal prossimo orologio di S. Marco, ed in «Merceria di S. Giuliano», «di S. Salvatore», e «di S. Bartolomeo», dalle prossime chiese di questi santi. La «Merceria di S. Bartolomeo», per la sua ristrettezza, era detta anche in vernacolo «Marzarieta», ma oggidì, ampliata, si dice: «Via Due Aprile». Il nome di «Merceria» proviene dalle molte botteghe di merci, che la fiancheggiavano e la fiancheggiano tuttora. L'arte dei «Marzeri» (merciaj) era molto antica in Venezia, esistendo documento delle sue rappresentanze fino dall'anno 942. Sembra però che incominciasse ad avere ordini e regole stabili soltanto nel 1446, 23 marzo, poiché da tal data incomincia la di lei «mariegola», che si conserva nel R. Archivio. Vedi anche il «Ristretto Generale di tutte le parti della Scuola dei Merciai sino il 22 settembre 1612» colà parimente conservato. I Merciaj stavano sotto il patrocinio di M. V. Assunta, ed anticamente radunavansi in chiesa delle Vergini, da cui nel 1323 passarono in quella di San Daniele. Poscia, con istrumento 3 agosto 1452, ottennero per le loro radunanze a livello perpetuo dal parroco e capitolo di San Giuliano una casa situata nella così detta «Calle a fianco la Chiesa», ed in chiesa di S. Giuliano fabbricarono pure il 7 febbraio 1487 un altare, sostituito da un altro l'11 settembre 1534. Essi non furono da meno dell'altre Arti nell'onorare la venuta a Venezia dell'imperatore Federico III nel 1452. I «Marzeri», ricorda la cronaca del Trevisan (Classe VII, Cod. 519 della Marciana), «fecero un burchio grande, con un soler da pope a prova tutto fornido de rasi, et in mezzo una torre granda e tonda, sulla quale tre file di putti una sopra l'altra, tutti vestidi de bianco come anzoleti, e con cembali in mano; erano più di 60, et in la cima erano tre come la Trinità, e si volgevano attorno a se stessi, tirado da ottanta remi; altro con gran ruota che girava con otto putti, degli angeli che sempre stavano in piedi dreto, e a pope l'effigie de tutti gli imperatori Romani, armati all'antica, poi tante ninfe danzanti a suon di pifferi e trombe; era pur tirato da 80 remi. Andò la comitiva da S. Clemente alla casa del Duca di Ferrara apparecchiada de rasi et altre sede».

I Merciaj, al cadere della Repubblica, dividevansi in otto colonnelli, enumerati partitamente dal Cicogna nelle sue «Inscrizioni» dietro la scorta del manoscritto Dal Senno.

Dice il Dezan che fino dal 1339 si prese a nobilitare la «Merceria» col tagliare gli arbori che crescevano in qualche punto, e col rimuovere i così detti «reveteni», o «pozzuoli», posti a preservazione delle case. Fu questa la prima strada nella quale, sotto Nicolò Sagredo, doge dal 1675 al 1676, siasi sostituito all'antico pavimento di mattoni cotti il selciato di macigno, che incominciò a rifarsi il 26 gennaio 1743 M. V., compreso anche il «Campo di S. Bartolomeo». Per la «Merceria» facevano il loro ingresso i Patriarchi, i Procuratori, ed i Cancellieri Grandi. L'ingresso dei Procuratori era il più magnifico e sfarzoso. In tale occasione i mercanti sfoggiavano la maggior ricchezza ed il maggior buon gusto possibili nel mettere in mostra gli oggetti della loro industria, lavori d'arte di pregio, quadri, intagli ecc. I Procuratori poi li regalavano di pani di zucchero in ricompensa della dimostrazione che loro avevano data d'affetto, addobbando in tal guisa le loro botteghe.

Mettivia (Calle del) a S. Luca. Il nome attribuito a questa strada, abitata da parecchie meretrici, non dipende, come vorrebbero alcuni, dal significato osceno in cui si potrebbe usurpare il verbo «metter via», ma bensì da cognome di famiglia. «Benetto Zorzi» notificò nel 1661 varie case in parrocchia di S. Luca, e precisamente presso la «Corte delle Campane», una delle quali era appigionata a «Piero Mettivia».

Mégio (Fondamenta, Ramo Fondamenta, Rio, Ponte, Sottoportico, Calle del) a S. Giacomo dall'Orio. Nella Pianta Topografica di Venezia, pubblicata dal Coronelli, si nota che presso queste località vi erano «li magazzini pubblici detti del Megio, o Miglio». Tali granai, tuttora sussistenti, acquistarono il nome, perché forse vi si trovava anticamente una gran quantità di quella biada minuta, «mégio» o miglio, appellata, di cui veggiamo aversi talora fatto farina per confezionare il pane ad uso della popolazione. Infatti, per attestato delle cronache, molta gente sarebbe perita nella carestia del 1346 «nisi fuisset milium quod erat tunc Venetiis, et fuerat bene per XX, XXI et XXII annos». Anche la cronaca Molin (Codici Cicogna 2620, 2621) nota che nella carestia del 1559 «saria morta gran quantità di gente se la provvidenza del Senato non avesse aperto li magazzeni de li migli salvati a questo rispetto». E quando nel 1570 morì il doge Pietro Loredan, vi furono, secondo le Aggiunte alla cronaca del Caroldo (Classe VII, Cod. 142 della Marciana), «grida popolari per la carestia, dicendo al dose Megioto, che fe' vendere ai pistori il pane di miglio anche con sarsezza».

Sulla «Fondamenta del Megio» s'innalza una casa di stile del secolo XV, la quale fu del celebre storico Marino Sanudo. Vedi Rawdon Brown («Ragguagli sulla vita e sulle opere di Marino Sanuto»). Sulla facciata di essa fu posta, non sono molti anni, commemorativa iscrizione.

Sul «Rio del Megio» s'ammira il palazzo Priuli-Stazio, di gusto sansovinesco. Apparteneva anticamente ai Surian, antica famiglia patrizia, estinta nel 1630. Giovanni q. Antonio di tale famiglia vendevalo nel 1584 ai Prezzato, che, dopo averlo fatto rifabbricare, come si vede oggidì, lo rivendevano nel 1636 alla commissaria di Lorenzo Stazio, dalla qual famiglia nel 1659 veniva in proprietà dei Priuli. Successi altri passaggi, era finalmente comperato nel 1859 dal Comune di Venezia, che per alcuni anni lo fece servire a quartiere delle Guardie Municipali.

Sopra questo rivo eravi, del pari, il palazzo Renier, distrutto nel 1811, ove nacque nel 1710 Paolo Renier penultimo doge.

Miani (Ramo Corte, Corte) a S. Cassiano. Qui possedeva stabili la famiglia Miani, che portava nello stemma una rosa, e che venuta, secondo i cronisti, nel 709 da Jesolo, fabbricò nel decimo secolo la chiesa di S. Cassiano. Il Barbaro ne fissa a capo stipite un Matteo, marito di Richelda, «il quale habitava ne la contrà de S. Cassan, et fu del Gran Cons. dal 1261 fino al 1275». Questa famiglia fu chiara per un Pietro vescovo di Vicenza, e si estinse nel secolo XV in un altro Pietro q. Matteo, pur esso da S. Cassiano.

Un'altra famiglia Miani, venuta, come vuolsi, d'Aquileja, oppure da Oderzo, che aveva due stemmi, l'uno caricato da una pannocchia di miglio, l'altro da tre pannocchie consimili, abitava fino dagli antichi tempi a «S. Vitale», poiché, stando al racconto d'alcune cronache, cooperò nel 917 alla fondazione di quella chiesa, ed è certo che tre Miani da S. Vitale fecero nel 1379 prestiti alla Repubblica. La casa dominicale già posseduta da tale famiglia porta attualmente il N. A. 2865, e presso la medesima si scorgono due località a cui tuttora si dà il nome di «Sottoportico e Corte Miani». Celebre invero detta casa per aver dato nel 1481, come provò l'abate Cadorin, i natali a S. Girolamo. Questo santo militò nella sua giovinezza, e nel 1511 fu governatore di Castelnuovo, preso il quale dai Francesi venne posto in carcere, donde fuggì. Datosi poscia alle cose dello spirito, incominciò a raccogliere orfanelli, e servì negli ospitali dei Derelitti, e degli Incurabili. Partì dalla patria nel 1532 per istituire case d'orfanelli a Brescia ed a Bergamo, nonché ospizii di convertite a Bergamo, Verona e Como. Fondò in seguito la congregazione dei Chierici regolari di Somasca, che aveva per iscopo l'istruzione dei fanciulli e dei giovani ecclesiastici. E fu a Somasca ove morì nel 1537 per contagio contratto nell'assistere i poverelli. Egli venne canonizzato da Clemente XIII nel 1767. La casa ove nacque soltanto nel principio del secolo decorso cessò d'appartenere a' suoi discendenti, i quali si estinsero in un Giacomo q. Marco nel 1790.

Michiel (Calle) ai SS. Apostoli. Dal palazzo Michiel di gotico stile, che si disse «dal Brusà», poiché nel 1774, pell'incuria d'una fantesca, soggiacque a grave incendio, dopo il quale ebbe una rifabbrica a spese del pubblico, compiuta nel 1777, di cui resta nell'atrio la seguente memoria: Quos Ignis Consumpsit Patria Mementa Majorum Nepotibus Patrios Lares Restituit S. E. vi Idus Ianuarii 1777. Il capostipite della famiglia Michiel credesi Angelo Frangipane, figliuolo di Flavio Anicio Pier Leone Frangipane, senator romano, venuto a Venezia con altri due fratelli nel quinto secolo, e soprannominato dal popolo Michiele, forse per pareggiarlo in fortezza e bontà a quest'arcangelo. La famiglia Michieli fino dai primi tempi ebbe tribuni, e nel 697 votò all'elezione del primo doge. Vitale Michiel I, salito al principato nel 1096, mandò una forte armata, sotto il comando di Giovanni suo figlio, e d'Arrigo Contarini, in aiuto dei Crocesignati, ma, dopo pochi anni di governo, morì trucidato. Domenico Michiel, figlio di Giovanni, doge nel 1118, ritrovossi con altri principi collegati sotto Tiro, ed essendo corso il sospetto, poiché andava a lungo l'ossidione, che egli potesse partire co' suoi, fece, per rassicurare gli animi, portare a terra tutte le vele, e gli altri attrezzi marinareschi, né si spiccò dall'impresa finché non l'ebbe condotta a compimento. Vitale Michiel II, figlio di Domenico, illustrò il suo principato colla vittoria riportata sopra il patriarca d'Aquileja, donde ebbe origine la festa del Giovedì Grasso, descritta dalla celebre Giustina Renier Michiel, che nei discendenti di questa illustre prosapia s'era accasata. Anche egli però, come Vitale Michiel I, suo bisavolo, venne ucciso nel 1172 mentre recavasi alla chiesa di S. Zaccaria. Da lui nacque quell'Anna che, pell'innocenza della sua vita, meritò il titolo di beata, titolo che essa divise con Bartolammeo Michiel, fiorito circa il 1420. Questa famiglia produsse inoltre un cardinale, un patriarca, varii vescovi, varii generali, cavalieri, senatori, ambasciatori, e non meno di undici procuratori di S. Marco. Essa fabbricò alcune chiese, e diede il nome a più strade di Venezia.

Michieli (Ramo) ai Birri.

Milion (Corte del). Vedi Sabbionera.

Minelli (Calle, Sottoportico, Calle e Corte, Ramo) a San Fantino. Queste vie chiamavansi anticamente di «Ca' Maccarelli», poiché Gregorio Maccarelli aveva acquistato alcune case qui poste da Pietro Pasqualigo, e l'aveva traslate in propria ditta l'8 aprile 1604. Essendosi poi nel 1650 una Catterina Maccarelli congiunta in matrimonio col N. U. G. Battista Minelli, ne nacque che, pel testamento di G. Battista Maccarelli, zio della sposa, 9 marzo 1660, atti Stefano Sola, e per quello di Giovanni, padre della medesima, 12 decembre 1664, atti Claudio Paolini, i beni tutti dei Maccarelli passarono nei Minelli. Ecco perché nel 1713 si trovano descritte sotto tal nome anche le case di S. Fantino.

La famiglia Minelli, d'origine bergamasca, era anticamente di bassa schiatta, ed aveva bottega in principio della «Casaria» di Rialto. Mediante il solito esborso dei 100 mila ducati, Lorenzo Minelli potè farsi eleggere del Consiglio il 27 marzo 1650 coi proprii discendenti, e con quelli del fratello Andrea. Raccontano alcune cronache che il giorno stesso in cui fu eletto vendeva salumi e formaggi, mentre il di lui fratello maggiore stava giocando alle palle in Rialto colla «traversa», o grembiale turchino, ad uso dei bottegai della nostra città. La famiglia Minelli si estinse nel 1793.

La «Corte Minelli» si trova denominata pure di «Ca' Giustinian», perché prossima al palazzo, ora distrutto, ove si credono nati il beato Nicolò, e S. Lorenzo Giustinian. Vedi Fruttarol (Calle del) a S. Fantino.

Minestra. Vedi Manestra.

Minio (Calle) a S. Fosca. La patrizia famiglia Gussoni, di origine bellunese, fece sorgere, sopra disegno del Sammicheli, il palazzo a cui questa calle conduce. Ignoriamo l'epoca precisa dell'erezione, ma non manchiamo di dati per crederla avvenuta verso la metà del secolo XVI, ed a merito d'un Marco Gussoni, figlio di Andrea, dal quale appunto nell'albero genealogico del Barbaro incomincia il ramo dei Gussoni da S. Fosca, a distinzione dell'altro ramo che possedeva ed abitava il palazzo di San Vitale, comperato più tardi dalla patrizia famiglia Cavalli. Dai poggiuoli del palazzo Gussoni a S. Fosca, sul cui prospetto, respicente il «Canal Grande», ammiravansi le due figure a fresco del Tintoretto, tratte l'una dal Crepuscolo e l'altra dall'Aurora, famose statue di Michelangelo, l'arciduca Carlo d'Austria, fratello dell'imperatore Massimiliano, assistette ad una regata datasi in di lui onore il 17 maggio dell'anno 1569. Questo palazzo, celebre eziandio pegli affreschi del cortile, opera di G. Battista Zelotti, e per la ricca galleria di quadri raccolta dal cav. Vincenzo, divenne sede nel 1668 dell'accademia Delfica, appellata anche Gussonia, e solita ad occuparsi negli esercizi d'eloquenza estemporanea. Esso appartenne alla famiglia fondatrice fino alla sua estinzione, avvenuta nel senatore Giulio, morto nel 1735, che lasciollo per metà alla moglie Faustina Lazzari, e per metà alla figlia Giustiniana. Costei è quella celebre Giustiniana Gussoni, che nel 1731 fuggì da Venezia col conte Francesco Tassis di Bergamo, col quale contrasse matrimonio clandestino, e che, rimasta vedova, nel 1736 si rimaritò con Pietro Martire Curti, ma finì i suoi giorni, d'anni 27, nel 1739, e fu sepolta nella nostra chiesa degli Scalzi. Allora Faustina Lazzari Gussoni, divenuta per tal morte unica proprietaria del palazzo, ne dispose in favore, mediante testamento 15 febbraio 1747 M.V., in atti Marco di Mazi, del proprio fratello G. Battista Lazzari e discendenti maschi, mancando i quali, in favore dei «discendenti maschi abili al M. C. della casa Minio delli NN. UU. Giacomo e Marin del N. U. Zuane», coll'obbligo ai beneficati di aggiungere al proprio il cognome Gussoni, e mancando anche questi, in favore della casa professa dei Gesuiti di Venezia, che però, per sentenza, rimase esclusa. Passato adunque il palazzo in tal modo nei Minio, denominossi «Minio» la prossima Calle.

Poscia Giovanni e Girolamo Minio Gussoni q. Alvise, e Zilio Minio Gussoni q. Antonio lo vendettero, con istrumento 1° giugno 1798, in atti G. Matteo Maderni, a Benedetto Grimani q. Francesco Maria. Ma nemmeno i Grimani lo conservarono, e nel 1816 venne comperato dagli israeliti Dalla Vida.

Se si vuol prestar fede al Freschot, Paolo Minio fu il primo che da Mazzorbo venisse fra noi nel 790. Alcuni antichi tribuni; un Lorenzo Minio, che nel 1431 trovossi sopraccomito di galera sul Po contro i Milanesi, e nel 1448, capitano di Brescia, difese quella città strettamente assediata dai medesimi; un Luigi che nel 1668 alle Focchie affondò una galera turchesca, e nel 1669 cooperò alla difesa di Candia; varii senatori ed illustri magistrati: ecco in compendio le glorie della patrizia famiglia Minio.

Una «Calle Minio» vi è pure a S. Felice, che però non appare così appellata nei catasti. Probabilmente assunse il nome negli ultimi tempi della Repubblica, e ciò, non per opera della famiglia Minio patrizia, ma d'un'altra popolare. Ce lo fa credere il non trovarsi a quell'epoca i Minio patrizii domiciliati, o possessori di stabili, in parrocchia di S. Felice, ed il leggersi invece che nel suddetto circondario mancò ai vivi il 13 aprile 1764, «Antonio di Nicolò Minio, di g.ni 4, da spasemo sempre, levatrice Casari». La mancanza dei soliti titoli dimostra abbastanza che il bambino non nasceva dalla casta degli ottimati.

Minotto (Fondamenta, Sottoportico) ai Tolentini. Da un palazzo che in questo sito apparteneva ai Minotto, famiglia, giusta l'opinione di alcuni, venuta da Roma, e, giusta quella di altri, dall'Albania, ove anticamente chiamavasi Minoxi. Anche questa famiglia fu una delle prime a passare sotto il nostro cielo, tantoché poté produrre tribuni. Rimasta poi del Consiglio nel 1297, vanta un Marco Minotto che, essendo di quel tempo generale di 37 galere contro i Greci, prese l'isola di Stalimene; un Demetrio che fiorì nel secolo XIV per santità; un Pasqualino che nel 1364 passò in Candia alla ricupera di quell'isola dalle mani dei nobili coloni ribellati, e poscia nel torneo, datosi in «Piazza di S. Marco» per allegrezza della vittoria, riportò, giostrando, il premio di un'aurea catena del valore di 360 ducati; un Gio. Luigi che batté l'armata Turca nel 1646, e che, preso Rettimo dai barbari, fu posto alla difesa del castello, cui però dovette cedere per mancanza di soccorsi; un Giovanni finalmente, morto nel 1742 vescovo di Padova.

Le sepolture della casa Minotto dai Tolentini erano nella chiesa di S. Lorenzo.

Un altro ramo dei Minotto, che fino dal 1778 troviamo nei «Libri d'oro» domiciliato in parrocchia di S. Maria Zobenigo, diede il medesimo nome ad alcune località in quella parrocchia esistenti.

Miracoli (Calle, Ramo, Ponte, Rio, Campo, Campiello, Calle dei). Un Francesco Amadi, abitante nel circondario di S. Marina, aveva fatto appendere per divozione presso la sua casa, e propriamente all'ingresso d'una località che chiamavasi la «Corte Nuova», una immagine della Beata Vergine, la quale ebbe tal fama di prodigiosa da indurre nel 1480 un di lui nipote, per nome Angelo, a trasportarla in «Corte di Ca' Amadi», e costruirvi una cappella di tavole onde esporla alla pubblica venerazione. Nell'anno stesso il pievano di S. Marina, Marco Tazza, gettò i fondamenti, col concorso degli Amadi, e d'altre famiglie, d'un nobile tempio, che compì nel 1488, ed in cui collocò la sacra immagine, fondando eziandio in prossimità un convento di monache Francescane. Ignorasi chi abbia dato il disegno del tempio, poiché Pietro Lombardo ne fu, per quanto si afferma, l'esecutore soltanto, aggiungendo però di suo la cappella maggiore e l'annesso convento. Il Malipiero, ne' suoi «Annali Veneti», racconta colle seguenti parole, sotto l'anno 1480, l'origine dei suddetti edificii: «Quest'anno ha comenzà la devotione della M. di Miracoli, la qual era alla porta de Corte Nuova, all'opposto delle case di Amai, in la calle stretta, e per el concorso della zente è sta necessario levar la imagine, e portarla in corte de cha Amai, et è sta fatto di grandissime offerte de cere, statue, denari, et arzenti, tantoché se ha trovà intorno 400 ducati al mese, e quei della contrà ha creà sie procuratori, e tra i altri Lunardo Loredan Procurator. Et in processo di tempo è sta assunà 3000 ducati d'elemosine, e con essi è sta comprà la Corte Nova da cha Bembo, da cha Querini, e da cha Baroci, e là è sta fabbricà un bellissimo tempio con un monastero, e dentro è sta messo donne muneghe de S. Chiara de Muran».

Il tempio di S. Maria dei Miracoli diventò nel 1810 oratorio dipendente dalla chiesa di S. Canciano, e chiuso ai nostri giorni a cagione di ristauro, sta attualmente per dischiudersi, dopo varii anni, al culto divino.

Dopo la soppressione delle monache, il convento fu ridotto a private abitazioni.

Raccontano i «Diari» del Sanudo: «In questa mattina» (27 gennaio 1515 M. V.) «ussita fuora di la chiesia di Santa Maria di Miracoli una bellissima maridata, nomata Samaritana Zon, moglie di Zuan Fran.co Benedeto popular, et hessendo su la riva per montar in barca, et andar a caxa, era una maschera sentata sopra la riva, la qual vista, li dete di uno fuseto, e li tajò el viso da l'ocio fino alla bocha, sì che dita dona sarà guasta. Di questo fo gran mormoration in la terra, adeo, inteso il principe e la signoria, terminono dar taja nel Consejo di X». Di tale delitto venne accusato Cardin Capodivacca, padovano, e posto perciò in prigione il dì 29 successivo. Ma nel 2 febbraio fu liberato come innocente, e citato in quella vece il N. U. Pietro Tiepolo q. Paolo, che, resosi contumace, venne bandito il giorno 24 dello stesso mese.

Il Supplemento 28 gennaio 1622 al «Giornale delle cose del Mondo» ecc. (Codice Cicogna 983) fa il seguente ricordo: «Gier sera si accese fuoco accidentalmente in casa delli Cl.mi Badoeri alla Madonna dei Miracoli, et perché penetrò alquanto nel monastero di quelle moniche, queste si salvarono in chiesa fin che fu estinto il fuoco, il quale fece poco danno».

Al «Ponte dei Miracoli» avea bottega nel 1713 un «caregheta» (facitore di sedie, o «careghe») che tenea per garzone Antonio Codoni, d'anni 16, nato alle «Caloneghe» di Belluno. Quest'ultimo essendo stato una mattina svegliato dalla serva del proprio padrone forse prima del solito, le disse un mar d'ingiurie, in pena delle quali, dopo una buona bastonatura, venne licenziato dal servigio. Desideroso perciò di vendicarsi con la serva, e contro il padrone, aspettò che la poveretta rimanesse sola in casa, se le scagliò addosso, e l'uccise, appropriandosi alcuni oggetti di argenteria. Sopraggiunti al rumore i vicini ed i birri, fu preso il feroce ragazzo, e condannato al capestro. Qui occorse uno strano accidente. Apprestavansi il 3 luglio 1713 in «Piazzetta di S. Marco», fra le due colonne, gli strumenti dell'estremo supplizio, quando i barcajuoli del prossimo traghetto fecero osservare al carnefice che il laccio era troppo lungo, al che questi rispondeva: «Allorché dovrò farlo per voi, farollo a modo vostro». Giungeva frattanto il reo, ed il carnefice ponevasi all'opera, ma il laccio veramente eccedeva in lunghezza, laonde il paziente, prima di morire, ebbe prolungati per lunga pezza i proprii tormenti. A tal vista i barcaiuoli incominciarono a tumultuare, e percossero il carnefice, nascendo tale tafferuglio che, come attesta il Cod. 1596, Classe VII della Marciana, «molta gente andò in acqua, fu persa molta roba, e stroppiate molte persone nel cader a terra una sopra l'altra, e molti ne morì affogati, che fu veramente una gran strage di popolo».

In «Calle dei Miracoli», nel palazzo Zacco, si cantò nel 1698, per ventisei sere un dramma musicale, intitolato il «Finto Esaù», con libretto di Giuseppe Fanelli, e musica di D. Antonio Bacelli.

Mistra (Corte della) a S. Barnaba. «Mistra» in dialetto veneziano corrisponde a «maestra», laonde possiamo arguire che qualche maestra di scuola abbia soggiornato in questa situazione.

Mocato. Vedi Moncato.

Mocenigo (Fondamenta rimpetto) a San Eustachio. Porta questo nome perché guarda la parte posteriore del grandioso palazzo Mocenigo. S'accordano tutti gli scrittori nell'attribuire nobilissimi principii ai Mocenigo, originari di Milano. Dicono che un Benedetto Mocenigo, partendo da quest'ultima città in tempi antichi, edificò il castello di Musestre sul fiume Sile, e quindi, tradottosi a Venezia, fu ricevuto fra i patrizii, e mandato alla difesa dell'Istria con generale comando. Un Tommaso Mocenigo, essendo nel 1395 capitano contro i Turchi, gli sconfisse, e nel 1414 ebbe, in premio delle sue benemerenze, il corno ducale. Un Pietro, nipote di Tommaso, anch'egli capitano contro i Turchi, distrusse Smirne; devastò le riviere dell'Asia e della Grecia, facendo ricco bottino; quindi nel 1472 scacciò gl'infedeli dalla Caramania, ed espugnò varie città; finalmente passò in Cipro per dare aiuto alla regina Catterina Corner, dopo le quali imprese si vide eletto doge nel 1474. Doge fu pure nel 1570 Alvise Mocenigo, sotto cui i Veneziani riportarono la famosa vittoria delle Curzolari. Dalla sua linea uscì quell'altro Alvise, che nel 1647 battè gli Ottomani nel porto di Scio, poscia nel 1648, creato capitano generale e Procuratore di San Marco, sostenne per due anni la difesa di Candia, donde costrinse gli inimici a ritirarsi. Nel 1651 tornò a battere i Turchi, e diede novelle prove di valore nel 1652, ma, caduto infermo, morì in Candia nel 1654. Questo eroe, il quale ha un magnifico mausoleo nella chiesa dei Mendicanti, venne compianto non solo da' suoi, ma eziandio dagli avversarii, che, al momento dei funerali, pavesarono di nero i loro navigli, ed in segno di lutto strascinarono le bandiere pell'onde. Emuli del valore d'Alvise si mostrarono posteriormente Lazzaro, figliuolo di Giovanni, ed Alvise III, che salì al principato della sua patria nel 1700. Altri tre dogi, ed altri valorosi guerrieri vanta la famiglia Mocenigo per cui, bene a ragione, Vettore Benzon cantò nella sua «Nella»:

Nome famoso e conto ovunque il sangue

Per la patria versato onor riceve

Mocenigo! risuona in questo il nome

Di molti prodi .......................................

I Mocenigo, dividendosi in più rami, lasciarono il nome a più strade di Venezia.

Modena (Ponte, Calle del) a San Boldo. Il «Ponte del Modena» a San Boldo, che è pur detto «della Chiesa» dalla vicina chiesa di Sant'Ubaldo, o «Boldo», ora distrutta, ricorda una famiglia Modena. Scorgesi nella Descrizione della contrada di S. Boldo pel 1713, che sopra il «Ponte della Chiesa» abitava «il sig. Giacomo Modena q. Santo; stabile della Scola dei Mercanti», e che in prossimità eravi un «magazzen da salumi tenuto ad affitto dal sud.to Modena», pel quale pagava pigione «alli eredi del q. Zulian Paiton». Anche il 12 marzo 1750 «Giacomo Modena q. Santo, nativo di Chiozia, ma abitante a V.a sin da primi anni di sua vita, in età di anni 77, abita a S. Boldo, negoziante in piazza», venne chiamato qual testimonio all'ufficio dell'«Avogaria» per dare informazioni circa una Paolina Riosa, la quale chiedeva d'essere abilitata, maritandosi con un patrizio, a procreare figli capaci del Maggior Consiglio. Finalmente «Giacomo Modena» è annoverato fra i cittadini domiciliati in parrocchia di S. Boldo dall'Anagrafi ordinata dai Provveditori alla Sanità pell'anno 1761.

Il «Ponte del Modena» comunicò il proprio nome alla Calle vicina.

Al «Ponte del Modena» scorgesi l'antico palazzo della famiglia Secco, il leone sbarrato, arma della quale, è scolpito sopra il prospetto. Questo palazzo fu poscia dei Zorzi.

Molin (Calle, Corte) a S. Fantino. Il palazzo Molin, che qui si scorge, ed ha replicatamente scolpito sulla facciata lo stemma della famiglia a cui apparteneva, è di stile archiacuto, e venne fondato da «Marco e Girolamo fu Polo Molin» nel 1468.

Gli scrittori dividono la famiglia Molin, e parte ne fanno venire da Mantova, e parte da Tolemaide. La poca diversità dell'arma dimostra però che, sebbene da diverse regioni venuta, ella si è una casa medesima. I Molin si trovarono in Venezia prima dell'887, ebbero tribuni, e rimasero del Consiglio nel 1297. Alcuni dicono che nel 905 fecero edificare la chiesa di S. Agnese, e nel 1138 il monastero di S. Daniele. Un Luigi Molin, eletto procuratore di S. Marco nel 1516, essendogli stato ucciso un figlio da Marco Michieli, non inveì per nulla contro l'uccisore, ma con grandezza d'animo ordinò a Marco, altro suo figlio, di perdonargli, e procurarne la libertà. Un Francesco Molin, dopo illustri militari intraprese, salì al principato nel 1646. Sotto di lui si svolse la terribile guerra di Candia, nella quale Filippo Molin operò prodigi di valore contro i Turchi sulle mura di Rettimo, e ferito nel ginocchio da un dardo avvelenato, seppe (se almeno si vuol credere ai cronisti) strapparselo fuori coi denti per iscrivere con esso l'estreme linee di fede al Senato. Altri uomini distinti pel loro valore contro i Turchi illustrarono questa famiglia, da cui altre strade di Venezia presero il nome.

Molo. Impropriamente è così chiamato quel tratto di strada in fondo alla «Piazzetta di S. Marco», il quale comincia dal «Ponte della Paglia», ed arriva ai «Giardinetti Reali», poiché «molo» significa veramente riparo contro la violenza delle acque, e qui non rimane alcuna traccia d'argine costrutto a tal fine. La sola sua somiglianza ad un argine avrà dunque procurato a questo tratto l'anzidetta denominazione. Esso formossi quando nel 1285 si volle ampliare verso la laguna la «Piazzetta», dalla quale è diviso mediante le due belle colonne di granito orientale, trasportate da una dell'isole dell'Arcipelago dopo il 1125, sotto il doge Domenico Michiel, o come altri pensano, nel 1171 sotto il doge Vitale Michiele II. Dicesi che queste colonne fossero veramente tre, ma che una nel trasporto cadesse nell'acqua. Nel 1557, ed anche nel 1809, si diede opera a ricercarla, ma senza effetto. Le due, che tuttora si vedono, vennero innalzate da terra, ove giacevano, nel 1172 per opera di Nicolò Barattieri. Sopra una di esse sta un leone di bronzo volto verso il levante, quasi insegna del dominio dei Veneziani sul mare. Questo leone fu rapito dai Francesi, e quindi nel 1815 riportato a Venezia. Sopra l'altra sta la statua di San Teodoro collo scudo nella destra per indicare che i Veneziani tendono a difendersi, e non ad offendere. Pietro Guilonzardo, o Guilombardo, però, che nel 1329 assistette al collocamento della statua medesima, dice raffigurare essa S. Giorgio, e non S. Teodoro. Intorno ambedue le colonne eranvi alcune botteghe distrutte nel 1529. Sul «Molo», nel secolo XVII, s'innalzò una statua della Fortuna come si apprende da un sonetto del Dottori, inserito nelle di lui Rime, edite in Padova nel 1695 dal Frambotto. Ad una estremità del «Molo», e propriamente sotto la «Zecca» (robusto edificio, eretto nel 1535 dal Sansovino), vendevasi il pesce, onde il prossimo ponte, che nel 1808 fu accomodato per dar accesso ai «Giardinetti Reali», e che ora è ricostrutto in ferro, chiamavasi «Ponte della Pescaria». Sopra l'area poi ove presentemente tali «Giardinetti» s'ammirano, eranvi anticamente alcuni serragli per le belve e «squeri», o cantieri, ove si costruivano galee per particolari, ma nel 1340 ciò venne proibito, e, distrutti i cantieri, si fecero sorgere in quella vece i pubblici granai detti di S. Marco, facendosi innanzi ad essi una piazza, la quale dice il Magno, «per esser fatta de novo, fo detta terra nova». Ove stendonsi i «Giardinetti» eranvi anche le prigioni, in cui l'anno 1380 si rinchiusero i Genovesi presi nella così detta guerra di Chioggia, ed in cui godettero gli effetti della pietà delle donne veneziane, fra le quali segnalaronsi Anna Falier, Catterina Da Mezzo, Francesca Bragadin, ed altre. Finalmente si trovavano colà stabiliti il Magistrato della Sanità, quello delle Legne, il Fondaco della Farina, e le Beccherie situate anticamente in «Piazzetta».

Monastero (Calle del) allo Spirito Santo. Dal monastero d'Agostiniane che qui presso esisteva sotto l'invocazione dello Spirito Santo. Vedi Spirito Santo (Campo dello).

Moncato (Sottoportico) in Ghetto Vecchio. Deve leggersi col Paganuzzi «Mocato». Un «Manuele» ed un «David Mocato de Samuel» notificarono nel 1713 ai X Savii «una casa posta in Ghetto Vecchio nella contrada di S. Geremia, di nostro proprio uso; più una casetta habitada da Jsaq. Lanchiano». Anche prima del 1713 trovasi la famiglia Mocato domiciliata in «Ghetto Vecchio».

Monti (Calle del) a S. Luca, presso la «Calle dei Fabbri». Malamente alcune piante topografiche leggono «Calle dei Morti», mentre nella Descrizione della contrada di S. Luca pel 1740 troviamo chiaramente che nella «Calle dei Monti», in «Calle dei Fabbri», eravi la «casa in soler in due appartamenti, per uso et habitatione propria degli Ill.mi Sig.ri Francesco e Tommaso Monti». Questo Francesco e Tommaso Monti, insieme agli altri fratelli Giuseppe, Carlo, Andrea, Antonio, Simeone ed Alvise, erano stati approvati ai 25 settembre 1697 cittadini originarii, la qual concessione medesima era stata fatta, ai 31 maggio 1670, al loro padre Gregorio ed ai loro zii Pietro Maria e Giovanni Battista. Anche i registri dell'«Avogaria» dicono che i fratelli suddetti erano nati nella loro casa vecchia di S. Luca presso la «Calle dei Fabbri», che godevano di comodo censo, e che la loro famiglia anticamente teneva bottega da droghe, e più anticamente bottega da ferro all'insegna del «Gambaro», avendo tomba in chiesa di S. Geminiano. Esisteva infatti colà la seguente epigrafe riportata dal Cicogna: Augustinus Ioannis A Ferro Bonae Fidei Mercator Hoc Sibi Ac Suis Posteris In Spe Futurae Resurrectionis Hospitium Adeptus Est - Obiit In Die Ascens. - Domini X Calen. - Iunii mdlxvi. E nei Necrologi Sanitarii abbiamo la seguente annotazione: «Adì 23 marzo 1566. M. Agustin dal Gambaro di anni 67, amalà da levra za molti anni - S. Giminian». Si vede che la famiglia Monti era allora domiciliata in parrocchia di S. Geminiano.

Montorio (Sottoportico ecc. del). Vedi Mortorio.

Mora (Ramo, Calle della) a S. Canciano, in «Birri». Una famiglia Mora, la quale però non era alcuna delle due ammesse al patriziato, diede queste appellazioni. L'Anagrafi Sanitaria pell'anno 1642 registra domiciliato in parrocchia di San Canciano «Mons. D. Zuane Mora». Ed altre memorie così anteriori, come posteriori all'anno 1642, trovansi di questa famiglia cittadinesca nella medesima parrocchia.

Morando (Ramo, Calle) a San Canciano, in «Birri». Un «Marcantonio Morando testor» da San Canciano ha posto nell'Anagrafi Sanitaria pel 1642. La Descrizione della contrada pel 1661 ci fa conoscere poi ch'egli abitava in «Birri», e precisamente nella situazione indicata. Apparteneva probabilmente a quella famiglia Morandi, venuta da Bergamo, che anticamente si occupava a tessere seta, e poscia aprì bottega della medesima stoffa a San Bartolomeo, presso il Fontico dei Tedeschi, all'insegna dei «Due Mori». Questa famiglia, alcuni individui della quale sostennero nell'Uffizio della Seta i carichi di Aggiunto e Provveditore, venne ascritta alla cittadinanza originaria il 23 agosto 1793 nei fratelli Bartolammeo, Domenico, e Gaetano, figliuoli di Natale Morandi, e di Maddalena Bertioli.

Moretta (Corte, Ramo) a S. Samuele. Un Roberto Moretti, fattore del N. U. Malipiero, abitava a S. Samuele nel 1680. Da lui nacque quel Pietro Maria, canonico del Zante, e pievano di San Samuele, che pose tomba al padre, alla madre ed a sé nella propria chiesa parrocchiale. A San Samuele troviamo pure domiciliati un «Zuane Moretti causidico» nel 1682, un «Marco Moretti pubblico Ragionato» nel 1719, ed un «Girolamo Moretti, causidico» anch'egli, nel 1724. Probabilmente erano tutti d'un sangue.

Essendovi state però, come avverasi anche al presente, varie famiglie Moretti in Venezia, altre strade, oltre l'accennata, portano la stessa denominazione.

In «Calle Moretta» a S. Canciano, sopra una porta otturata, scorgesi scolpito un antico leone, uno di quelli forse coi quali vennero bollate nel 1310 le case dei seguaci di Bajamonte Tiepolo.

Mori (Calle, Campo, Ponte, Fondamenta, Corte dei) alla Madonna dell'Orto. Qui si scorge un antico corpo di fabbriche, in gran parte manomesso e rimodernato, che si stende dal «Rio della Sensa» a quello della «Madonna dell'Orto», ed ha incastonate nelle muraglie tre statue d'uomini vestiti alla orientale (una delle quali è conosciutissima dal nostro popolo sotto il nome di «Sior Antonio Rioba») terminando poi con un palazzo archiacuto, avente scolpito sopra la facciata, dalla parte dell'anzidetto «Rio della Madonna dell'Orto», un uomo, pur esso in costume orientale, che guida un cammello, nonché un'ara antica. Tutti gli scrittori credettero fin qui che questi fossero gli avanzi dell'antico fondaco dei Mori, o Saraceni, ma è certo in quella vece che i fabbricati sopra descritti vennero innalzati dalla famiglia Mastelli, autori della quale furono i tre fratelli Rioba, Sandi ed Afani, venuti dalla Morea, e perciò volgarmente Mori appellati; che le statue sono le immagini dei medesimi, e che quindi nacque il nome alle strade vicine. Leggesi in tale proposito in una cronaca (Classe VII, Codice 27 della Marciana): «Negli anni del Sig.re MCXII tre fratelli greci, Rioba, Sandi et Afani, per le seditioni civili fuggitisi dalla Morea, ove possedevano molte giurisditioni, si ricoverarono con grandi averi in Venetia, et edificarono l'abitationi loro molto honorevoli appresso il Ponte dei Mori, così detto per le figure dei tre sopradetti fratelli, che nei angoli della fabbrica insieme coi nomi loro si veggono scolpite». Ed un'altra cronaca così si esprime nel codice medesimo: «Veggonsi oggidì le antiche abitationi della casa Mastelli appresso S. Maria dell'Orto, et specialmente le rovine d'un sontuoso edificio, negli angoli del quale sono collocate tre grandi figure di marmo d'uomini vestiti alla Greca, i quali sostenendo tutto l'edificio, tengono sopra le spalle un fardello, a guisa d'una valigia, per dimostratione forse delle ricchezze da loro portate in Venezia, nelle quali sono scolpiti i nomi dei tre primi autori di questa casa, et per questa cagione il Ponte ivi vicino, che attraversa il Canal della Misericordia, viene chiamato dei Mori». A dimostrare poi la veracità delle due cronache, la seconda delle quali scambia il «Rio della Sensa» con quello «della Misericordia», soggiungiamo come nel cortile del palazzo che ha il cammello sul prospetto, a cui si accede per la porta situata in «Campo dei Mori» al N. 3381, scorgesi ancora un anello di pozzo fregiato d'uno scudo con una sbarra a scacchi, blasone della famiglia Mastelli, ripetuto pure sopra un focolare degli appartamenti superiori. Questa famiglia, che era degli antichi consigli, prese parte nel 1202 alla crociata condotta dal doge Enrico Dandolo. In seguito, rimasta nella cittadinanza, e dedicatasi alla mercatura, aprì in «Cannaregio» un fondaco di spezierie all'insegna del «Cammello», in allusione forse del cammello scolpito sul palazzo. Essa comperò dalla Signoria la giurisdizione sopra il passo detto del Moranzano sul Brenta, ed, abbandonato il commercio, attese a godere in pace le raccolte ricchezze fino al 1620, anno nel quale andò estinta in un Antonio, figlio di Gaspare Mastelli e di Laura Turloni. Ecco, secondo il Cicogna, la ragione per cui il popolo al primitivo nome di Rioba, che porta una delle statue anzidette, aggiunse quello di Antonio. Tuttavia il palazzo del Cammello era già passato da alcuni anni avanti nella famiglia Prezzato, avendolo Paola, nata da Nicolò Mastelli, e moglie di Pietro Dardani, concesso in dote alla propria figlia Angela, congiuntasi in matrimonio con Marcantonio Prezzato.

Il Gradenigo, che ne' suoi «Notatori» raccolse le cose più lievi accadute in Venezia, narra che nel 1757, allorquando questo palazzo era posseduto dal notaio Pietro Prezzato, s'udirono per più sere consecutive suonare nell'ora medesima tutte le cinque campanelle interne delle stanze. Ne derivarono molta paura, svenimenti di donne, cavate di sangue, e si giunse perfino ad implorare la benedizione del parroco, e, questa nulla valendo, a chiamare il cappellano della scuola di S. Fantino (solenne esorcista) perché cacciasse in bando i presunti spiriti maligni.

E' probabile che al corpo di fabbriche innalzato dai Mastelli appartenesse anticamente anche il palazzo di Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, situato sulla «Fondamenta dei Mori» al N. A. 3399, quantunque sia noto che il celebre pittore comperollo da Francesco di Schietti con istrumento 8 giugno 1574, in atti Giovanni Fanio. In queste soglie Jacopo tenne il suo domicilio fino al 31 maggio 1594, giorno della sua morte. Lo stabile medesimo passò poscia in mano del di lui figlio Domenico, ed anzi si legge che questi voleva lasciarlo ai pittori come studio dei disegni, modelli e rilievi del padre, ma, per disgusti avuti, cangiò di parere. Ne fu in seguito proprietaria Ottavia, sorella di Domenico, e sposa di Sebastiano Casser, i discendenti del quale lo possedettero fino ai nostri giorni.

Morion (Calle, Sottoportico del) a S. Francesco della Vigna. La Descrizione pel 1661 della parrocchia di S. Tèrnita chiama questa Calle, ad essa allora soggetta, «Calle della Spezieria del Morion», e poscia pone qui presso una «casa in soler con botega da spezier, all'insegna del Morion, del N. U. Nicolò Corner; habita il sig. Leonardo Bergonzi». Il morione è una specie di celata, od armatura del capo. La spezieria, o farmacia, che aveva tale insegna, e che restò aperta anche molto dopo l'epoca citata, si nomina dal Dotti nella satira XIV ove, additando certo prete novellista, così dice:

E' l'illirico bestione

Ch'esce fuor di sacristia,

E in bottega del Morione

Va a spacciar filosofia.

In «Calle del Morion» esisteva un ospedaletto per 20 povere donne, fondato nel secolo XIV da Natichliero Cristian sopra un fondo comperato da Filippo Querini. Una gotica iscrizione all'ingresso della via ricorda il pio istituto con queste parole: Hospital De Ser Natichlier Da Cha Cristian ed altra iscrizione poco discosta insegna che fu ristaurato nel 1479. Esso era diretto dalla Procuratia «de Citra», in un documento della quale, colla data del 1690, leggonsi le seguenti parole: «Natichlier Cristian, con testamento 3 luglio 1312, lasciò il suo ospitale fatto in contrà de S. Tèrnita alla Procuratia de Citra», ecc. Chiamavasi però ancora «Ospitale delle Boccole», poiché il documento medesimo così si esprime più sotto: «Fu sempre sostenuto da questa ecc. Procuratia il detto Hospitale chiamato ora Hospitale delle Boccole». Ciò forse nacque per aversi in esso concentrato l'altro ospizio fondato dalla famiglia Dalle Boccole nella stessa contrada di S. Tèrnita. Vedi Magno (Calle). Ora in questo locale, acconciamente ristaurato, si aprì, trasportate altrove le ricoverate, il primo «Asilo Notturno» che possa vantare la nostra città.

Moro (Fondamenta) a S. Girolamo. Rammemora il Sansovino nella sua «Venetia» un fabbricato che, a sembianza di grosso castello, fece costruire a S. Girolamo il senatore Leonardo Moro, e ne loda l'annesso giardino. Tale fabbricato, che, come si scorge in una pianta di Venezia del 1572 era fornito di quattro torri, esiste tuttora collo stemma dei Moro scolpito ripetutamente sulle muraglie. La famiglia, che ne era proprietaria, onde altre vie della città si denominarono, venne da Padova nei primi tempi, e si rese illustre fino dal 1280 in un Marino, uomo ricchissimo, il quale sconfisse i Triestini ribelli, e fondò l'ospitale della Misericordia. Quanto al doge Cristoforo Moro, sotto cui si svolsero varii patrii avvenimenti, egli è più noto per la sua pietà e per l'amicizia di S. Bernardino da Siena, che per la sua fermezza e pel suo militare coraggio. Narra il Sanudo che, non volendo questo doge prender parte alla crociata bandita da Pio II, Vittore Cappello, capitano navale, in pien senato gli disse: «Serenissimo Principe, se la serenità vostra non vorà andar co le bone, la faremo andar per forza, perché gavemo più caro el ben e l'onor de sta tera, che no xe la persona vostra». Narrasi pure che, confortato il Moro con la promessa di condur seco quattro consiglieri, soggiunse: «Vorìa co mi sier Lorenzo Moro, che xe duca de Candia, asmiragio su una galea, perché mi no me ne intendo de armade», al che il Senato acconsentì colle parole: «se farà come la dise ela». La crociata però, per la morte del pontefice, avvenuta il 15 agosto 1464, si sciolse, ed il debole doge, bene in suo cuore contento, poté ritornare a Venezia colla flotta. Egli morì nel 1471, e venne sepolto nella cappella maggiore di S. Giobbe, al qual monastero, fatto da esso fabbricare, legò, non avendo figliuoli, tutte le sue sostanze.

La famiglia Moro produsse pure alcuni vescovi, ed alcuni valorosi generali, fra i quali Giovanni, che nel 1509 venne spedito alla difesa della riviera della Puglia; nel 1510, entrato con navigli nel Po, recò sommo terrore ai Milanesi; nel 1528 pugnò in Puglia unito coi Francesi, prendendo molte città; nel 1537 finalmente fu Provveditore in Candia, ove morì nel 1539 colpito da una sassata sulla testa, mentre era accorso a sedare una fierissima zuffa insorta fra soldati ed isolani.

Morolin (Ramo, Sottoportico, Calle) a S. Samuele. Il palazzo Morolin fu fatto costruire dal celebre pittore Pietro Liberi sul disegno di Sebastiano Mazzoni, pittore fiorentino, e studioso architetto. Morto il Liberi, venne comperato dalla famiglia Lin venuta da Bergamo, e fatta patrizia nel 1686 in un Girolamo, già garzone in Venezia nella drogheria dei Luca, a piedi del «Ponte di Rialto», coll'insegna dell'Angelo, e poscia proprietario della medesima, il quale fece alla Repubblica la solita offerta. La famiglia Lin aggiunse al suddetto palazzo il piano superiore d'ordine corinzio. Quindi lo ereditarono i Moro in virtù del matrimonio, successo nel 1748, fra Gasparo Moro ed Isabella Lin, i quali perciò si fecero chiamare Moro-Lin, o Morolin. Altri pittori in seguito ebbero stanza in questo palazzo, come l'Hayez nella sua giovinezza, e da ultimo il Lipparini che ne comperò gran parte. Il Codice 183, Classe VII della Marciana, racconta il seguente aneddoto qui accaduto nel secolo XVII: «16.... Ser Ant.o Dandolo q. Zuane, q. Antonio, q. Matteo, q. Girolamo, q. Gasparo di Candia stava in la ca' del pittor Pietro Liberi in affitto, che hora è la casa dei Lini a S. Samuel, ed il figlio del pittor haveva preso tanta confidenza che il Dandolo haveva denari e rilasci d'affitto, onde questo andava e veniva a suo piacere. Il giorno di ........ andò in ca', e lo trovò chiuso in camera della moglie, ove più volte l'havea trovato, et, fatto strepito, fece fuggir il Liberi, vestì la moglie in boccassin, e la condusse in barca a' suoi fratelli e zio Foscarini, e gli la consegnò dicendo che gli restituiva la bu.... di sua sorella per non volersi imbrattar le mani nel sangue. Ma dopo qualche anno la riprese appo di sè, dicendo che fu uno sfogo perché il Liberi non gli dava più danari, e voleva il padre i suoi affitti, e lui essendo giuocatore, dissipava tutto nel giuoco; onde la povera dama svergognata da tutto il mondo et infamata, per restituirsi, dovette ritornare, et vivono in pace». L'Antonio Dandolo, a cui si riferisce il racconto, era nato, secondo il Capellari, nel 1651, e nel 1674 aveva sposato Altadonna di Giacomo Foscarini, dalla quale nel 1683 ebbe un figlio per nome Giovanni.

Morosina (Calle) a S. Barnaba. Vi possedeva una casa nel 1661 «ser Tadio Morosini». Per questa famiglia, che diede il nome ad altre strade di Venezia, vedi l'articolo seguente.

Morosini (Calle, Corte) a S. Giovanni Grisostomo. Mettono ad un palazzo, che ha la facciata archiacuta sul rivo, e che tuttora è posseduto dai Morosini. Nell'atrio di questo palazzo, al basso di una colonna, appiedi della scala, leggesi, sotto l'arma Morosina, la seguente iscrizione:

Marinus Maurocenus

Auctor 1369

Vincentius Descendens

Restaurator 1715

Quindi apprendiamo la data precisa della fondazione, e di un ristauro del palazzo medesimo.

La famiglia Morosini, venuta fra noi nei primissimi tempi, si rese chiara fino dal secolo X pell'erezione della chiesa di San Michele Arcangelo e del monastero di S. Giorgio Maggiore, fondato da Giovanni Morosini, posto dopo morte nel novero dei beati, sopra un'isoletta donatagli dal doge Tribuno Memmo.

I Morosini ebbero quattro dogi, tre dogaresse, e due regine, cioè Tommasina, moglie d'Andrea re d'Ungheria, e Costanza, moglie di Wladislao re di Serbia. Andarono pur chiari ed illustri per due cardinali, per parecchi valorosi capitani, e per due storici delle cose patrie, Andrea e Paolo. Di molte giurisdizioni erano dotati, come della terra e castello della Tisana in Friuli, e della signoria di S. Vincenti nell'Istria.

Morte (Calle della) alla Bragola. Dicesi che questa Calle abbia tal nome perché anticamente giustiziavansi in essa i rei. Aggiungesi che ciò avveniva per ordine dei Partecipazii, o Badoer, quando, come tribuni delle «Gemini», stanziavano nel prossimo palazzo respiciente col prospetto il Campo di S. Giovanni in Bragora. La prima delle due asserzioni ha qualche fondamento nelle parole del Sabellico («De Situ Urbis»), il quale, dopo avere parlato della chiesa di S. Giovanni in Bragora, così continua: «Ab aede loco haud multum diverso ostendebantur mihi angiportus. Proximi inquilini narrabant existimare se verissimum esse illud quod maiorum relatu vulgo percrebuisset, eo olim loco reos capitali supplicio affici solitos, atque in argumentum fabulae adducebant infelix ibi vadum esse, affirmantes vidisse saepius se illic viros subito congressu contrucidatos, alios vero, aut lapsu pedis, aut diverso casu, periclitatos». Così si legge in una delle più antiche edizioni degli opuscoli del Sabellico, che si conserva nella Marciana.

Poca credenza merita la seconda asserzione, poiché nulla ci prova che i Partecipazii, o Badoeri, possedessero in antico il palazzo, e nemmeno ch'esso esistesse ai tempi dei tribuni. Né l'arma che scorgesi sul prospetto, di stile archiacuto del secolo XIV, è quella dei Badoer, come, per uno sbaglio inconcepibile, scrissero alcuni, ma invece quella dei Gritti, che appunto fino dal secolo XIV troviamo domiciliati in parrocchia di S. Giovanni in Bragora, ed ai quali, anche ai tempi del genealogista Girolamo Priuli e dello Stringa, apparteneva il palazzo medesimo. Lo Stringa infatti non descrive altri palazzi «sulla piazza di S. Giovanni in Bragora» che quello del «procuratore Alessandro Gritti». Esso col progresso del tempo passò nei Morosini in virtù del matrimonio, avvenuto nel 1591, fra Lugrezia Gritti, nipote del procuratore Alessandro, con Tommaso Morosini. Perciò nella Descrizione della parrocchia di S. Giovanni in Bragora pel 1661 lo troviamo posseduto da un Taddeo Morosini, la nipote del quale, Elisabetta, impalmatasi nel 1729 con Sebastiano Badoer, fu cagione che il palazzo pervenisse nei Badoer, donde ai nostri giorni l'ebbero, per compera, i marchesi Saibante, che vi praticarono poco dopo un ristauro.

Questo palazzo venne colpito da una saetta la notte del 16 luglio 1500.

Morti (Ponte, Calle dei) a S. Cassiano. Per tale denominazione, frequentemente ripetuta in Venezia, vedi Cimitero (Calle del).

Il «Ponte dei Morti» a S. Cassiano, per quanto riferisce il Gallicciolli, era nel 1488 di pietra, nel 1502 di legno, e nel 1615 rifatto di pietra.

Al basso d'un pilastro d'una casa, situata presso questo ponte, scorgesi incisa la seguente epigrafe:

1686

Adi' 18 Zugno

Buda

Fu Assediata Et Adi' 2

Settembre Fu Presa

1686

Altre di tali epigrafi, concernenti a fatti estranei alla storia veneziana, ma relativi ai Turchi, scorgevansi in «Calle delle Rasse» ai SS. Filippo e Giacomo.

Morto (Canale, Fondamenta del Canale, Ponte del Canale) alla Giudecca. Questo canale, che comunica il suo nome alle vicine località, è così detto per essere senza sfogo, e perciò di acqua stagnante.

Abbiamo un «Campo Morto» anche in Venezia presso S. Andrea. La solitudine del sito giustifica la sua appellazione.

Mortorio (Sottoportico, Calle, Campiello del) alla Giudecca. Leggasi «Montorio», come negli Estimi. Un «Giacomello Montorio» della Giudecca era nel 1353 confratello della Scuola Grande della Carità. Un «Giacomo Montorio», domiciliato alla Giudecca, sovvenne con prestiti la Repubblica nel 1379. Un «Giacomo Montorio» era pure guardiano della Scuola di S. Giacomo di Galizia nell'isola della Giudecca, come si rileva da una carta di sicurtà 7 marzo 1386, in atti di Andriolo Cristian. Finalmente nel 1514 un «Zuanantonio Montorio» notificò di possedere una «casa da statio», ed altre otto da «sacenti» nella contrada di S. Eufemia della Giudecca, e precisamente «in la Corte de Ca' Montorio». Questi è quel G. Antonio Montorio, la cui figlia Samaritana contrasse sponsali con Alvise Luse, pur esso dalla Giudecca.

Mosche (Campo, Ramo, Campiello delle) a S. Pantaleone. Secondo il Negri, qui si avrebbero fabbricato i così detti «nei», o «mosche», che erano certi pezzetti di taffetà nero gommato, soliti a porsi dalle donne qua e là sul volto per far risaltare vieppiù la bianchezza della carnagione. Noi però, considerando che le accennate denominazioni risalgono al secolo XVI, e forse prima, epoca in cui tali «nei» per certo non si usavano, crediamo piuttosto che tanto il «Campo», il «Ramo», ed il «Campiello delle Mosche» a S. Pantaleone, quanto la «Calle delle Mosche» a S. Giustina ricordino qualche famiglia Mosca. Fino dal 12 agosto 1406 un «Guglielmo Mosca» ebbe un privilegio di cittadinanza veneziana.

Moschette (Calle delle) a S. Giustina. Dalla famiglia Moschetta, o Moschetti. Un Pietro Antonio Moschetti pose tomba alla moglie Maddalena in chiesa di «S. Maria Mater Domini» coll'anno 1625. Ed altri individui di questo cognome troviamo nella casta dei Ragionati.

In «Corte delle Moschette» a S. Giustina morì nel 1708, 19 gennaio, Anastasio di Leon, nobile Costantinopolitano, arcivescovo di Cesarea.

Mosto (Sottoportico e Corte) a S. Angelo. Queste località non desunsero il loro nome dalla patrizia famiglia Da Mosto, ma da un'altra famiglia cittadinesca del medesimo cognome. Si trova che nel 1661 un «Bortholomio Mosto» qui appigionava una casa ad «Agostino Pellizzari», e pur una nel 1713 il «sig. Alvise Mosto» a «Pietro Mazzoni». Alvise era figlio di Bartolammeo e di Lucrezia Marcello, e nel 1654, insieme ai fratelli Benedetto e Pietro, era stato approvato cittadino originario veneziano.

Una «Corte Mosto» trovasi anche alla Giudecca, e questa prese il nome da un palazzo ora distrutto della famiglia Mosto, di cui parleremo nell'articolo seguente.

Murèr (Calle del) agli Incurabili. Il manoscritto Dal Senno fa istituita l'arte dei «Mureri» (muratori) nel 1200. Essi riconoscevano per protettori S. Tommaso Apostolo e S. Magno, e possedevano albergo a S. Samuele, non però, come scrive il Sagredo, in «Piscina», ma in capo della «Salizzada». Quest'albergo aveva sulla facciata un basso rilievo di marmo, fattura di valente maestro del tempo dei Lombardi, che venne venduto, e passò in suolo straniero. Ancora però sulla porta scorgesi semicancellata l'iscrizione: La Scola dei Mureri, mentre sull'altro scorgonsi squadre, martello, ed altri emblemi dell'arte. L'arte dei «Mureri», che in chiesa di S. Samuele aveva pure il proprio altare ed il proprio sepolcro, contava nel 1773, 345 capomaestri, e 17 garzoni, dipendendo, come la maggior parte delle arti, per disciplina ed economia dai «Giustizieri Vecchi» e «Provveditori della Giustizia Vecchia», e per le gravezze dal «Collegio Milizia da Mar». Vogliamo ricordare col Sagredo che i manovali non erano considerati come fratelli dell'arte dai maestri, i quali chiamavansi «cazziole» pell'uso che fanno i maestri muratori della «cazziola».

Anzi ai manovali suddetti era proibito perfino con pena pecuniaria di toccare materialmente la «cazziola».

Muti (Ramo, Ponte, Corte dei) alla Madonna dell'Orto. La famiglia Muti, venuta dalla Lombardia e divisa in più d'un ramo, apparteneva alla cittadinanza originaria. Il ramo detto da S. Marziale, o dalla Madonna dell'Orto, perché in quel circondario abitava, trasmigrò a Venezia precisamente da Cima, in un G. Antonio, il figlio del quale, nominato G. Michiele, e medico di professione, sposò Elisabetta Gerardi Zecchini. Egli testò il 2 ottobre 1556 in atti Anton Maria Vincenti, e nel 1568 si preparò tomba in chiesa di S. Marziale coll'epigrafe: Michael De Mutis Sibi Posterisque Condidit Suis An. D. Mdlxviii.

In «Corte dei Muti» alla Madonna dell'Orto dimorò nel secolo trascorso il principe di Castiglione.

Un altro ramo dei Muti abitava a S. Cassiano, e ne parleremo nell'articolo seguente.

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