Leon Bianco (Calle, Corte, Traghetto del) ai SS. Apostoli. Dalla locanda all'insegna del «Leon Bianco», che esisteva nel palazzo sovrapposto al traghetto, e respiciente il «Canal Grande». Questa locanda fu celebre, specialmente negli ultimi tempi della Repubblica, pegli illustri personaggi che v'ebbero ospizio, fra i quali l'imperatore Giuseppe II, ambedue le volte che visitò la nostra città, ed i principi ereditari di Russia sotto il nome di conti del Nord. Il palazzo, ov'era aperta, venne fondato, come pare, nel secolo XIII, ed è fregiato nella facciata da sculture tolte ad edifizii dei bassi tempi. Gli scrittori però non sanno dirci a qual famiglia in origine appartenesse. Ci venne l'idea di consultare in tale proposito le nostre ricerche. Abbiamo dapprima posto mente al fatto, che in tutte le antiche piante topografiche di Venezia il sottoposto traghetto, il quale mette dai SS. Apostoli alle «Fabbriche Nuove di Rialto», s'appella col nome di «Ca' da Mosto». Svolgemmo allora alcune delle nostre cronache di famiglie patrizie, ed in quella della Raccolta Cicogna che porta il N. 2673, ove parlasi dello stemma anticamente usato dai Da Mosto, e consistente in uno scudo a quartieri con alcune borchie dentro, rassomiglianti a grossi aghi, od a teste di «broche» (piccoli chiodi), leggemmo le seguenti parole: «Queste sono le arme che sono in la chà granda de cha da Mosto sul Canal Grande al tragitto de S. Apostoli». Ci venne poscia in mano la «Cronaca Veniera» (Classe VII, Cod. 791 della Marciana), la quale dice che i Da Mosto anticamente «portavano l'arma a quartieri zala et azura con le borchie nere drento a modo de capelle d'agudi» (aghi), «come qui presentemente si vede, et come sono sopra la sua casa granda de Santi Apostoli, sopra il Canal Grando, de sopra al traghetto che si passa a Rialto, che sono due arme de piera viva con le dette borchie dentro». Come è ben naturale, abbiam dato tosto un'occhiata al prospetto del palazzo, e vi scorgemmo due scudi gentilizii di pietra viva, ma tali che, per vetustà, o per sofferte vicende, non offrono più (almeno ad occhio nudo) i distintivi surriferiti. Non per questo ci perdemmo di coraggio, e, svolte altre cronache, una finalmente (Classe VII, Cod. 201 della Marciana) alquanto più moderna delle altre, convertì i nostri sospetti in certezza colle parole: «I Da Mosto portavano arma a quartieri giala et azura con le broche nere, come appare ne la sua casa a S. Ap.li, ora Locanda del Leon Bianco». Nè crediamo che osti uno stemma diverso, sculto sopra una delle due colonne che sostengono l'edificio dalla parte del traghetto, poiché può ben essere che quella colonna, la quale per disegno è diversa dall'altra vicina, fosse stata, in occasione di rifabbrica, altronde trasportata.

Siccome poi da ricerca nasce ricerca, abbiamo voluto investigare altresì se nel palazzo medesimo sia nato, od abbia abitato Alvise da Mosto, viaggiatore Veneziano del secolo XV. E fummo indotti a ritenere per vero tal fatto dallo scorgere, nel Barbaro, che abitava ai SS. Apostoli la linea da cui discese Alvise, nonché dal ritrovare allibrati nel 1379 all'estimo della contrada dei SS. Apostoli gli «heredi di Zuane da Mosto», uno dei quali fu «Polo», avolo d'Alvise. Inoltre nei codici 160, 161 della Marciana col titolo: «Matrimoni di Nob. Veneziani», parlandosi delle nozze avvenute nel 1430 fra Alvise, ed una figlia di Giorgio Venier, esso Alvise viene compreso nella linea «dei SS. Apostoli al Traghetto». Spinto da tali argomenti dispose il nostro Municipio che una lapide, affissa al prospetto del palazzo Da Mosto sul «Canal Grande», ricordi il celebre viaggiatore.

Leggesi che, per terminazione del Collegio 5 ottobre 1461 ciascheduno in Venezia poteva entrare a vogare nei traghetti, pagando un ducato «di benintrada», eccettuato il traghetto di «Ca' da Mosto», perché era a disposizione di questa nobile famiglia.

Nella locanda del «Leon Bianco» ai SS. Apostoli due uffiziali del reggimento Schulemburg, l'uno colonnello, e l'altro capitano, si sfidarono a duello il 3 gennaio 1717 M. V. e caddero mortalmente feriti nel punto medesimo. Il primo finì di vivere al pontile del traghetto, ed il secondo sotto il portico che va al «Ponte dei Ss. Apostoli».

Registrano i «Notatori» del Gradenigo che nel 1765 il palazzo presso il «Ponte dei Ss. Apostoli», che era stato per molti anni locanda all'insegna del «Leon Bianco», e che allora apparteneva alle famiglie Dolfin, Foscarini, e Marcello, ebbe un ristauro.

Lista di Spagna. Vedi Spagna.

Lista vecchia dei bari. Vedi Bari.

Lizza Fusina (Fondamenta) a S. Nicolò. Era chiamata «Fondamenta del Traghetto di Lizza Fusina». I Barcaiuoli di questo traghetto si aveano scelto per protettore Sant'Alvise, e fino dal 1508 rinnovarono la propria «mariegola». Essi, per decreto del Consiglio dei X, 15 febbraio 1510, M. V., dovevano tener sempre approntate due barche a servigio della Signoria. Nel 1641, 8 marzo, ottennero l'investitura d'una cappella in chiesa dell'Angelo Raffaele alla destra di chi entra per la porta maggiore, e colà più tardi costrussero un altare dedicato al loro santo protettore. Il Traghetto di Lizza Fusina trasportossi nel secolo trascorso a S. Basilio, laonde la Descrizione della contrada di San Nicolò pel 1740, descrivendo la «Fondamenta del Traghetto di Lizza Fusina», dice che in quel luogo «solevano essere le libertà del traghetto di Fusina, ora trasportate nella contrà di S. Basilio».

«Lizza Fusina» è chiamata nel Sabellico «Leuca Officina», denominazione significante, per quanto vogliono, uno stabilimento d'imbiancatura altre volte ivi eretto. Il Negri («Soggiorno in Venezia di Edmondo Lundy») opina invece che questa prima terra del continente si chiamasse «Lizza» dalle lizze, o trincee, poste anticamente per impedire lo sbarco dei Veneti isolani, e poscia per sostenere le acque del Brenta acciocché tutte non isgorgassero nelle lagune. Fa poi derivare l'aggiunto «Fusina» da «fuscina», che indica in latino il tridente di Nettuno, ed anche quell'istrumento consimile usato dai pescatori. «Infatti», egli dice, «a questa estremità incominciava pei Patavini il regno del Nume dell'Acque e qui approdavano le barche pescherecce». Senza fare alcun commento a questa etimologia, alquanto stiracchiata, diremo che antichissime lapidi sepolcrali, scavate a Lizza Fusina, danno a divedere che il luogo era abitato fino dai più rimoti tempi e che, costumandosi allora di collocare i sepolcri fuori della città, qualche città esisteva nelle vicinanze. Alcuni poi ciecamente credettero ch'essa fosse quella fabbricata, secondo Tito Livio, dai Trojani alle foci del Medoaco, e per questo il Cluverio («Ital. Antiquit., Lib. 1, Cap. 18») chiamò «pagum Trojanum» tutto il tratto intorno Fusina. Qui pure più tardi fiorì uno spedale pei pellegrini, appellato S. Leone «in bucca Fluminis» (del Brenta), e beneficato assai dalla celebre Speronella, madre di quel Jacopo da S. Andrea, posto da Dante all'inferno.

Loredan (Calle) a S. Luca. Vedi Memmo.

Loredan (Corte e Calle) sulla «Fondamenta degli Ormesini». Qui possedeva varie case nel 1661 la «N. D. Isabetta Loredana». Raccontano i cronisti, che i Mainardi, ovvero i discendenti di Muzio Scevola soprannominato in Roma «Manum ardeo» dopo aversi abbruciato la mano destra al cospetto del re Porsenna, acquistarono coll'andar del tempo, pei molti trionfi ottenuti, il cognome di «Laureati», «Lauretani», e «Loredani»; che essi nell'816 andarono a fabbricare Loredo e che nel 1015 vennero a Venezia. Quale credenza debbasi aggiustare ai cronisti in siffatti argomenti, ognuno sel vede. Né la gloria della famiglia Loredan si deve far dipendere da origini così rimote ma dagli illustri fatti de' suoi figli. Imperciocché dal seno di questa famiglia uscirono tanti uomini illustri che noi ci troviamo imbarazzati nel farne la scelta. Merita tuttavia speciale menzione quel Pietro per tre volte generale di mare, che nel 1416 conquistò Traù, Sebenico, Spalato, Clissa, Lesina, Curzola, con altri luoghi della Dalmazia, e poscia ruppe i Turchi a Gallipoli, prendendo loro quindici galere. Il medesimo conseguì pure nel 1431 pieno trionfo sopra i Milanesi ed i Genovesi nel golfo di Rapallo colla presa di 8 galere, e colla prigionia dello Spinola, generale nemico. Egli morì nel 1439 lasciando erede delle proprie virtù il figlio Giacomo che, generale pur egli nel 1453, incendiò 22 navi degli infedeli, e gli sconfisse nel 1464. Anche Luigi, cugino, ed Antonio, figliuolo di Giacomo, fecero più volte oscurare sui mari la luna ottomana. Ricorderemo inoltre Leonardo, Pietro e Francesco Loredan dogi di Venezia, eletto il primo nel 1501, il secondo nel 1567, ed il terzo nel 1752; G. Francesco fondatore dell'Accademia degli Incogniti, e scrittore di varie opere, morto nel 1661; Antonio figlio di G. Francesco, accademico Delfico, che fiorì circa il 1670; parecchi vescovi, e parecchi gravissimi magistrati. I Loredan, che si divisero in più rami, fioriscono tuttora.

Loredan (Campiello) a S. Stefano. Alcune traccie ancora sussistenti fanno conoscere che il vicino palazzo, anticamente posseduto da un ramo della patrizia famiglia Loredan, venne eretto intorno alla metà del secolo XIV. Rifabbricato alla fine del secolo XVI, mostra dal lato maggiore il fare del Sansovino, e dal minore quello del Palladio. Sono affatto perduti gli affreschi della facciata, ove Giuseppe Porta, detto Salviati, aveva dipinto Lucrezia Romana in esercizio con le fantesche, sorpresa dal marito, e da Tarquinio; Clelia che valica il Tevere, e Muzio Scevola che tiene ferma la destra tra le fiamme. Riferisce il Fontana che in questo palazzo nacque il doge Leonardo Loredan, e che vi fu ritratto da Gian Bellino in atto di sedere innanzi ad una tavola con due figli, ed altri individui della famiglia all'intorno.

Dei Loredan, che diedero il nome ad altre strade di Venezia, abbiamo parlato nell'articolo antecedente.

La linea di S. Stefano si estinse nel 1750 in un Andrea q. Girolamo.

Luca Zanco (Calle di) alla Giudecca. Da un Luca della famiglia Zanco, la quale era molto numerosa, e, come può vedersi nei catasti, oltre che in questo, ebbe soggiorno in altri punti della Giudecca.

Luganegher (Sottoportico, Corte del) in «Frezzeria». Una bottega da «luganegher» (salsicciajo) è qui aperta tuttora. Altre di tali botteghe diedero il nome ad altre strade di Venezia. L'arte dei «Luganegheri», eretta in corpo nel 1497, accoglieva Veneti e dello Stato mediante il «garzonado» di cinque anni, la «lavorenza» di due, e la prova. Essa contava iscritti sul finire della Repubblica 684 individui con 218 inviamenti, dei quali però non erano aperti che 198. Dipendeva da varii magistrati, cioè per disciplina ed economia, e per le carni insaccate dai Provveditori alla Giustizia Vecchia; per «minuzzami», e porcine fresche dal Magistrato delle Beccherie; pegli oggetti di salute dal Magistrato alla Sanità; e per le contravvenzioni dal Collegio dei V Savii. I «Luganegheri» avevano Scuola di divozione, sotto il patrocinio di Santo Antonio Abbate, nella chiesa di San Salvatore, ove fabbricarono le loro tombe, nonché un bell'altare disegnato dal Vittoria con pala di Palma «il giovine», ed anticamente, come appare dalla loro «Mariegola», facevano le riduzioni nel convento dei Padri. Ma nel 1681 comperarono a tale scopo un locale a San Basilio sulle Zattere, e nel 1684 lo ristaurarono. Esso prestasi oggidì ad usi privati.

In «Corte del Luganegher», in «Frezzeria», abitava nel 1774 Giacomo Casanova. Vedi le «Scritture di Giacomo Casanova di Seingalt all'Archivio degli Inquisitori di Stato di Venezia», già pubblicate nel 1869 per cura del ch. prof. Rinaldo Fulin.

Luganegher (Calle del) o del Traghetto a S. Apollinare. Da uno spaccio di salsiccie, esistito nella bottega oggidì aperta ad uso di orefice e gioielliere. Questa calle poi è detta eziandio «del Traghetto» perché conduce al sito ove tragittasi il «Canal Grande» per la contrada di S. Luca.

Luganegher (Ramo e Corte del) o della Malvasia a S. Cassiano. Né la bottega da «luganegher», né lo spaccio di «malvasia» esistono più in questa situazione.

Labia (Fondamenta) a S. Geremia. I Labia, originarii di Gerona nella Catalogna, passarono in Avignone, poscia a Firenze, e da ultimo a Venezia, ove nel 1646 vennero ascritti al patriziato nella persona d'un Giovanni Francesco, che offrì 100 mila ducati alla Repubblica per la guerra di Candia. Questi edificò l'altare dei Tre Magi in chiesa dei Tolentini, e fu probabilmente il fondatore anche del palazzo Labia a San Geremia, che credesi disegnato, nel prospetto sul «Canal Grande», dal Cominelli, e, nel prospetto sul campo, dal Tremignon. Dalla moglie Leonora Antinori, gentildonna fiorentina, sposata nel 1614, ebbe G. Francesco varii figliuoli, fra i quali Carlo, morto nel 1701, meritò d'esser fatto arcivescovo di Corfù, e vescovo d'Adria. Fu nel palazzo di S. Geremia che vennero banchettati una fiata, con suppellettili d'oro, ben quaranta gentiluomini. E fu qui che il proprietario del palazzo dopo il pranzo gettò, come è tradizione popolare, esse suppellettili nel sottoposto canale, esclamando boriosamente: «Le abia, o non le abia, sarò sempre Labia». Credesi però che si fosse in quell'occasione tirata una rete sotto il canale, e che apposite barche abbiano poco dopo pescata la preziosa mercatanzia, e riportatala a chi ne era padrone.

Altre strade di Venezia presero il nome da questa famiglia.

Lacca (Sottoportico e Corte della) a S. Giovanni Evangelista. Che qui ci fosse una fabbrica di cera lacca, non ce lo lascia dubitare il Paganuzzi, nell'«Iconografia» del quale si trovano nominate queste località «Sottoportico e Corte della Fabbrica della Laca». In questa industria si distinse principalmente un Agostino Del Bene, che, come appare da una Relazione di Gabriele Marcello, «Savio alla Mercanzia e Deputato alle Fabbriche», dall'ottobre 1762, epoca del suo privilegio, al febbrajo 1767, spedì in Italia, Germania, Spagna, e Levante 24.890 libbre di cera lacca, spacciandone 883 nella propria bottega.

Lana (Campo, Sottoportico Secondo della) al Gesù e Maria. Questo Campo, nel quale sorgono la chiesa ed il convento del Gesù e Maria, era chiamato anticamente il «Businello» (cognome, come crediamo, di famiglia) ed in seguito si disse «della Lana», perché vi abitavano varii lanaiuoli, ed eravi l'ospizio dei Tessitori di panni lani Tedeschi (Condizioni del l566). In quell'anno «Voltier de Voltier, gastaldo di Thodeschi dell'Alemagna Alta, et della scuola de m.a S.ta Maria di Carmeni» notificò che tale confraternita possedeva «nella contrà de S.ta Croce in Ven.a, in loco detto il businello», varie casette, ed un locale che, come egli si espresse, «ha tre camere le quali habitemo noi Thodeschi con la nostra famiglia». Anche la «Cronaca Veneta Sacra e Profana» tramanda che la chiesa ed il convento del Gesù e Maria ebbero principio nel 1620 (altri 1623) «da due patrizie Venete Pasqualigo sorelle le quali, con altre sedici donzelle pur nobili, si ritirarono in una casa con terreno vacuo, di ragione dell'ospitale de' tessitori Tedeschi, posta in contrada della Croce, in Campo della Lana, in un luogo detto il Businello, ch'ebbero ad affitto dalli Procuratori sopra gli Ospitali». E noi crediamo che lo stemma visibile all'ingresso del «Sottoportico Secondo della Lana» sia quello dei Tessitori Tedeschi, e che per Arte Tessitori debbano interpretarsi le sigle A T, sotto lo stemma scolpite.

Fino dai tempi antichi provvide il governo perché fiorisse in Venezia l'arte della lana, trovandosi un decreto del 1272 col quale concedevasi alloggio gratuito a tutti quei lavoranti che fossero venuti fra noi ad esercitarla. Molti ne vennero allora, e nei tempi successivi, da varii paesi, fra cui dall'Alemagna, spargendosi in varie contrade, e specialmente in quelle della Croce, di S. Simeone Apostolo, di S. Simeone Profeta, di S. Giacomo dall'Orio, e di S. Pantaleone. Celebri quindi divennero le nostre manifatture, e la nostra «sagia», e «meza sagia», acquistarono rinomanza universale. Non solo esse tessevansi con eletta materia, ma lavoravansi con tutta diligenza, e tingevansi nei colori più fini. Fabbricavansi pure molti panni ordinari ad uso del popolo e dei soldati, con la sopravveglianza della così detta «Camera del Purgo». Questo magistrato, composto da lanajuoli, giudicava le liti insorte in materia di lanificio, e vegliava perché i proprietarii delle fabbriche avessero cognizioni e patrimonio sufficienti per bene dirigerle, e perché i lavori riuscissero perfetti. Tuttavia, verso il finire della Repubblica, anche il lanificio era decaduto grandemente fra noi, tantoché Andrea Tron, «Inquisitore alle Arti», nel suo discorso tenuto in «Pregadi» il 29 maggio 1784, espose, che le fabbriche di lana, le quali nei secoli andati producevano sino a 28.000 pezze di panno, e sino al 1559 si riguardavano come il principale sostentamento di Venezia, erano allora ridotte a tale che nel corso d'un anno i lavori giungevano al più a 600 pezze.

Lanza (Calle) a S. Gregorio. Vedi Fruttarol.

Lanzoni (Calle) ai SS. Giovanni e Paolo. Il sapersi che questa strada, confluente alla «Calle della Testa», e soggetta un tempo parte alla parrocchia di S. Maria Nuova, e parte a quella di S. Marina, viene appellata nelle antiche Notifiche di beni, presentate ai X Savii, «Calle dei Slanzoni», fa credere che essa abbia desunto il nome della famiglia cittadinesca Ghislanzoni, corrottamente «Slanzoni». E vale a confermarci nella nostra credenza il leggere che nel 1582 un «Lunardo Ghislanzoni» riscuoteva da Panfilo Corner e Paolo Val un livello annuo sopra una casa posta «in contrà de S. Marina, in Calle della Testa».

Lardona (Sottoportico e Corte, Corte) all'Angelo Raffaele. La Descrizione della contrada pel 1713, anziché «Corte Lardona», legge «Calle Lardona», e fa annotazione che in essa un «D. Iseppo Lardoni», possedeva ventiquattro case. Anche il «R.do Francesco Montico», primo prete della chiesa dell'Angelo Raffaele, citato come testimonio nel 1766 nell'occasione che un altro Giuseppe Lardoni, nipote del summentovato, richiese d'essere riconosciuto coi figli cittadino originario veneziano, si espresse in cotal guisa: «Sono più di 20 anni ch'io sono affittual d'una casa, di ragione dei sig.ri Lardoni, situata all'Angelo Raffaele in calle denominata col nome della stessa famiglia, perché sono di sua ragione li stabili in essa esistenti». La domanda di Giuseppe Lardoni venne ammessa il 3 giugno dello stesso anno 1766. Appare che la di lui famiglia provenne da Genova, poiché nei registri dell'«Avogaria» il primo dei Lardoni è un Pantaleone, figliuolo d'Ilario, che vien detto «negoziante genovese», e che nel 1627 si maritò con Giovanna Beatrice Babelli.

Larga (Calle) a S. Marco. E' così detta per essere più ampia e spaziosa di molte altre strettissime. Anticamente chiamavasi «Corazzaria» per la vendita di corazze. Il varco dalla parte della «Merceria» formossi, secondo il Barbo, il 12 febbraio 1545 coll'atterramento d'una casa, come egli si esprime, presso l'Orologio.

La denominazione è altrove ripetuta. A S. Tomà vi sono pure la «Calle Larga Prima», e la «Calle Larga Seconda». In «Calle Larga Seconda», sull'esterna parete della casa al N. A. 2939, leggesi la seguente moderna iscrizione: Domum Quae Gasparum Gozzium V. C. Vagientem Excepit Hospes Salvere Jubeto. Ed il Tommaseo nel ragionamento premesso agli scritti del Gozzi (Firenze, Le Monnier, 1849) così scrisse: «La casa dove Gasparo nacque s'ignora, ma a quella, dove abitò fanciulletto, fu posta per memoria un'iscrizione dall'abate Zenier».

Latte (Ponte della) a S. Giovanni Evangelista. Un «Zuane Della Late» figura tra quelli che nel 1379 contribuirono prestiti alla Repubblica, in parrocchia di San Simeone Profeta, la quale anche anticamente giungeva co' suoi confini a questo Ponte, e sembra essere quel medesimo «Giovanni a Lacte», orefice di Reggio, che nel 1371 ottenne un privilegio di cittadinanza veneziana. Il «Ponte della Latte», prima di legno, si costrusse ai nostri tempi in ferro, ed in tale occasione andò demolito il prossimo Sottoportico appellato col medesimo nome.

Del «Ponte della Latte», o «della Late», fa ricordo il Sanudo nei suoi «Diari», sotto la data del 31 agosto 1505: «In questo zorno», egli dice, «è da saper fo squartato un Albanese, qual amazò proditorie Zuan Marco cao di guarda, et prima li fo tajà la man al ponte di la late. Et nota che questo fece una cossa notanda; videlicet so mojer fo da lui a tuor combiato, et lui mostrò volerla basar, e li morsegò il naso via. Si dice lei fo causa di manifestar tal delitto».

Una memoria più recente si annette al «Ponte della Latte». Nell'anno di grazia 1844 si vide il medesimo per molte sere affollatissimo di gente, accorsa a contemplare un lumicino, o meglio, uno spettro di luce, che pallido e tremante appariva dalle nove a mezzanotte sopra un finestrone della Scuola di S. Giovanni Evangelista. Era un premersi, un urtarsi, ed un continuo ciarlare di diavoli, di stregherie, e d'apparizioni di morti. Anzi, siccome nella prossima «Calle di S. Zuane», volgarmente detta «del Bò», era stata uccisa di quel tempo una femmina, che soleva chiamarsi col soprannome de' suoi uccisori, saltavano su le donnette a gridare: «Uh! certo è l'anima della Brocchetta che si fa vedere!» e taluna diceva d'udirla persino a gemere e sospirare. Frattanto il fatto andò all'orecchio dei birri, che una bella sera sgomberarono il ponte, e si posero a spiare se alcuno facesse il mal giuoco, ma tutto fu indarno. Finalmente pensarono di chiamar barca, e, fatto un giro pel canale, si avvidero d'un piccolo lume che ardeva in una prossima casa di poveretti, nella quale penetrati, poterono convincersi, quella essere la luce che andava a riflettersi nel finestrone della Scuola di S. Giovanni Evangelista. Tale ridicola avventura è raccontata dalla «Cronaca della Lumetta», pubblicata nel 1844 coi tipi del Merlo, e dal conte Agostino Sagredo, ne' suoi studii sopra le «Consorterie delle arti edificative in Venezia».

Lavadori (Calle dei) ai Tolentini. Qui stanziavano anticamente i Lavatori di lane, mestiere che poscia troviamo esercitato a S. Andrea presso il «Rio delle Burchielle», e che nel 1637, come consta da una notifica presentata dalla famiglia Martinelli ai X Savii, era già stato trasferito da parecchi anni a Lizza Fusina. E' probabile però che in progresso di tempo si tornasse ad esercitare in Venezia, ricordando la «Cronica veneta sacra e profana» (edizione del 1736) che i «Lavoratori di lane» avevano allora Scuola di divozione in chiesa dei SS. Ermagora e Fortunato, sotto il titolo del Redentore.

Lavaro (Corte del) agli Incurabili. Leggasi, come negli Estimi, «Calle del Navàro», o «Navarro», da una famiglia di questo cognome che abitava in questa calle soggetta un tempo alla parrocchia di San Gregorio. Un «Bortolo Navaro», confratello della scuola di S. Maria della Carità, fu sepolto in chiesa di S. Gregorio nel 1519.

Lavezzara (Corte) a S. Luca. La Descrizione della contrada di S. Luca pel 1740 la chiama «Corte Lavezzera», coll'annotazione, che in essa esistevano «una casa e bottega da lavezer», tenute da «Giacomo Ferretto». I «Lavezzeri», o «Conzalavezzi», erano quelli che rappezzavano gli arnesi di rame, e racconciavano le stoviglie con filo di ferro. Sembra che l'arte loro fiorisse, fino dagli antichi tempi, in questi contorni, poiché un «Andrea lavezzer» da S. Luca, ed un «Marin Brigada lavezzer» da S. Paterniano, fecero nel 1379 prestiti alla Repubblica. L'arte suddetta, era stata unita fino dal 1577 a quella dei «Caldereri» (calderai), soliti a radunarsi per le loro divozioni in chiesa di S. Luca sotto l'invocazione di S. Giovanni Decollato. I «Lavezzeri», o «Lavezeri», secondo la statistica del 1773, avevano sei botteghe nelle cinquantasei dei Calderaj, e lasciarono il loro nome ad altre strade del Sestiere di S. Marco.

Legnami (Calle dei) ai Gesuiti. Vedi Consorti.

Leoni (Piazzetta dei) a S. Marco. Dai due leoni di marmo rosso, lavoro di Giovanni Bonazza, che vi fece porre nel 1722 il doge Alvise III Mocenigo, e che, rovesciati a terra, e maltrattati all'epoca democratica, furono quindi risollevati, ed al loro posto rimessi.

Scrive il Gallicciolli: «Quel pozzo che è a S. Basso, nel rialto dei Leoni Rossi, egli è il più profondo che siavi in Venezia, secondo alcuni, sebbene la sua acqua non sia molto buona». Questo pozzo è oggidì distrutto, e sembra che in suo luogo si voglia erigere una fontana.

In «Piazzetta dei Leoni» tenevasi anticamente il mercato dell'erbe. Vedi Cicogna: «Zibaldone» 173.

In capo di questa piazzetta sorge il palazzo patriarcale, che nel 1837 si rifabbricò sul disegno di Lorenzo Santi, e che veramente fa poco onore all'architettura dei nostri giorni.

In «Piazzetta dei Leoni», addossato al fianco della basilica di S. Marco, esiste il sarcofago di Daniele Manin, le cui ceneri furono trasportate da Parigi a Venezia nel 1868.

Lezze (Calle) alla Misericordia. Alcuni scrittori fanno venuta la patrizia famiglia Lezze da Lecce in Puglia nel 973, ed altri da Ravenna nel 1005, dicendo ch'era d'un sangue medesimo coi Traversari, e che le derivò il nuovo cognome da una legge di generale utilità, proposta al governo. Essa nel 1488 cooperò alla fondazione della chiesa dei SS. Rocco e Margarita. Si ha memoria d'un Silvestro Lezze, o da Lezze, che, con sentenza 13 aprile 1489, fu condannato a sei mesi di carcere, ed a due anni di bando perché, insieme agli altri nobili Leonardo Bembo, Alvise Soranzo, Filippo Paruta, Alvise Loredan, e Giusto Gauro, aveasi dilettato d'andar portando via i fazzoletti da naso alle ragazze, accorse all'indulgenza di S. Giovanni Grisostomo. Questa, che non doveva essere che una burla, o giovanile scappata, così severamente punita in vista soltanto al luogo ed al tempo in cui venne commessa, non vale ad oscurare i meriti della famiglia Lezze, meriti che specialmente spiccarono in un Antonio difensore di Scutari nel 1476, ed in un Giovanni creato dall'imperatore Carlo V, nel 1532, conte di S. Croce sulla Piave, molte volte ambasciatore, e finalmente provveditore in Dalmazia ed Albania.

I Da Lezze fabbricarono un ricco mausoleo in chiesa dei Crociferi, poscia dei Gesuiti, nonché, nel 1654, sopra disegno del Longhena, quel magnifico palazzo alla Misericordia, donde ebbe il nome la Calle che nell'articolo presente ci abbiamo accinto ad illustrare. Così scrive il Martinioni nelle aggiunte alla «Venetia» del Sansovino: «Alla Misericordia apparisce il palazzo dei Lezze, grande per circuito, copioso di nobili stanze, con la faccia ornatissima di marmi, e di vaghissimi intagli, et specialmente di gratiose e leggiadre teste, in particolare di donne, poste nelle serraglie dei volti, così delle finestre, come dei pergoli. D'intorno al Cortile, sopra modioni di marmo posti nei muri, sono collocate diverse mezze statue, cioè busti e teste, diligentemente scolpite da Francesco Cavrioli». Questo palazzo, che venne crudelmente messo a ruba ed a sacco nella vergognosa caduta della Repubblica, passò nel 1829 in proprietà della famiglia Antonelli, la quale vi tiene tuttora il suo tipografico stabilimento.

I Lezze imposero il nome ad altre strade di Venezia.

Librer (Campiello o Rio Terrà del) a San Polo. In questa situazione, ove correva un rivo, interrato nel 1761, eravi nel principio del secolo presente una bottega da libraio e da cartolajo.

Licini (Ramo Corte, Corte) alla Fava. Da un fabbricato, che apparteneva alla cittadinesca famiglia Licini, d'origine bergamasca, sotto il quale scorgesi tuttora scritto sul pavimento: Confin Licini. Sembra che questa famiglia ne divenisse proprietaria verso la metà del secolo trascorso, trovandosi che, con istrumento di permuta 10 maggio 1741, in atti F. Biondi, «Bon Licini q. Alessandro» cesse ad Andrea Massarini alcuni suoi stabili alla Giudecca, a S. Apollinare, a S. Geminiano, e ne ebbe in ricambio una «casa in due soleri in contrà di S. Leon Papa, dietro la Madonna della Fava, in Corte detta del Piombo». La famiglia Licini aveva tomba in chiesa di S. Leone, «vulgo S. Lio» coll'anno 1713. Bon Licini soprannominato aveva un negozio di tele in «Calle della Bissa», piantato dal genitore Alessandro. Arricchitosi, disseccò l'azienda, e morì il 16 aprile 1768.

Limante (Corte) a S. Girolamo. Leggasi «Alimante», come in tutti i catasti. Un Angelo Alimante notificò nel 1566 di possedere «una casa posta in contrà di S. Marcuola a S. Hieronimo», ove abitava, con altre dodici casette vicine. E circa un secolo prima trovasi un Giacomo Alimante da «San Marcuola» confratello della Scuola Grande di San Marco, il quale morì nel 1484. Degli Alimanti così parla il Codice 939, Classe VII della Marciana: «Questi vennero di Grecia; erano homeni de grosso intelletto, ma leal mercadanti; sono antiqui venetiani, et hano fatto de bellissime fabbriche in Venetia». Un'altra cronaca però li fa provenire da Marsiglia. E veramente quel «Ruggiero Alimante q. Ruggero, fontegher», che ottenne la cittadinanza veneziana il 30 ottobre 1391, è detto, nel relativo privilegio, da Marsiglia. E' probabile che gli Alimanti, partiti dalla Grecia approdassero, per ragioni di commercio, a Marsiglia, e di là passassero a Venezia. Narra il Sanudo nei «Diari» che questa famiglia, specialmente dopo la perdita di Negroponte, ove aveva un castello, decadde assai dal suo pristino splendore. Andò estinta nella prima metà del secolo XVII, e gli stabili che possedeva a S. Girolamo passarono per eredità nella famiglia Donini.

Lion (Calle, Ponte) a S. Lorenzo. Antica in Venezia era la famiglia Lion, donde, per ragioni di commercio, trasportossi in Acri di Soria, ma quando nel 1291 quella città cadde in potere del Soldano d'Egitto, Domenico, o Domenzone, Lion ritornò fra noi con grandi ricchezze, e, come è fama, volle, prima d'entrare nel porto, l'assicurazione che sarebbe stato eletto del Consiglio. Nicolò Lion, figliuolo di Domenico, procuratore di S. Marco, fu quello che scoprì la congiura di Marin Faliero, e che, guarito per virtù della miracolosa lattuga trovata nell'orto dei Minori Conventuali, che offiziavano la chiesa di S. Maria Gloriosa dei Frari, fabbricò la chiesa ed il convento attigui, detti di «San Nicoletto della Lattuga», costituendoli nel 1332 jus patronato dei Procuratori di S. Marco «de Ultra», ed accordandone poscia, con testamento 13 febbraio 1353, M. V. l'assoluto dominio ai Minori Conventuali. Vedi S. Nicoletto (Calle). Un «Vido», nipote del procuratore Nicolò, contrasse matrimonio con Franceschina Morosini, ma poscia cacciolla di casa, e tolse per nuova compagna nel 1364 Agnesina Coco, il qual fatto fu cagione che la sua discendenza venisse esclusa, come illegittima, dal Maggior Consiglio. Racconta il Barbaro che i dissidii fra Vido Leoni e Franceschina Morosini originarono dal comando che la prima sera degli sponsali fece il marito alla moglie di cavargli le calze, a cui questa rispose: «Li Morosini non discalzano Leoni». Esisteva in Venezia un'altra linea dei Leoni, che riconosceva per suo capostipite un Simeone, eletto del Maggior Consiglio nel 1315, e creduto fratello di Domenico, o Domenzone. A questa apparteneva quel «m. Thoma Lion fo del cl.mo Simon», che, collo istrumento 30 luglio 1570, in atti di Giovanni Figolino N. V., tolse a pigione dalle monache di San Lorenzo una casa «posta sull'horto di detto mon.rio nella contrà di S. Severo». Qui pure, secondo la Descrizione della contrada di S. Severo, abitavano nel 1661 i «NN. UU. Paolo e fratelli Lion», nipoti di Tomaso. Ecco l'origine del nome attribuito al «Ponte Lion», giù del quale leggevasi pochi anni fa sul pavimento: Fondo di Propria Ragione delle Venerabili Monache di S. Lorenzo. Ambedue le linee dei Lioni furono chiare per uomini benemeriti della patria, se si voglia eccettuare quel Maffeo, figliuolo di Lodovico, «Avogador di Comun», e nel 1540 Savio di Terra ferma, il quale, essendo stato scoperto reo di ricevere provvigione dal re di Francia per rivelargli i secreti della Repubblica, fuggì da Venezia, ed ebbe il bando da tutto il dominio con taglia di mille scudi, e con decreto che i suoi discendenti fino alla quarta generazione rimanessero privi della nobiltà. Egli rifugiossi alla corte di Francia, ma non vi trovò alcun appoggio, per cui fu costretto a mercarsi il vitto col dare lezioni di grammatica, avverandosi, dice il Capellari, anche in questa occasione, la sentenza che i prìncipi amano il tradimento, ma non i traditori.

La famiglia Lion, di cui abbiamo parlato, si estinse nel principio del secolo trascorso. Quindi le monache affittarono il palazzo ad un ramo della famiglia Diedo, il che avveniva anche nel 1802, secondo le Notifiche di quell'anno.

Lipoli. Vedi Gallipoli.

Locande (Ramo delle) a S. Paterniano. In questa, e nella contigua «Calle della Vida», pur detta «delle Locande», esistevano parecchie albergherie, una delle quali all'insegna delle «Tre Chiavi», un'altra all'insegna delle «Tre Rose», ed una terza all'insegna dei «Tre Visi» (Descrizione della contrada di S. Paterniano pel 1740). I «Cameranti», o Locandieri, non avevano alcuna figura d'arte, a riserva d'essere un corpo contribuente, sotto il quale aspetto dipendevano dal Collegio della Milizia da Mar. Nel 1773 contavansi in Venezia 48 locande. E' nota l'antica scostumatezza delle medesime, nelle quali trovavansi fantesche, e persino «giovinotti di bell'aspetto» a comodo dei frequentatori. Esiste una legge con cui si venne a proibire che i locandieri tenessero fantesche d'una età minore dei trenta anni.

Francesco Panizzi, napoletano, d'anni 60, avendo libidinosa pratica con Angela Gagiola, meretrice, domiciliata in «Calle delle Locande» a S. Paterniano, la condusse in maschera una notte al Ridotto, e di là, a cena, all'osteria del «Salvadego». Poscia in quella notte medesima trucidolla unitamente alla di lei fantesca, involandole di casa varii effetti preziosi, ed allontanandosi in tutta fretta dalle Lagune. Condannato in contumacia, fu colto poco dopo a Pisa, ricondotto a Venezia, ed il 22 aprile 1751 decapitato e squartato, ottenuta in grazia la dispensa dai tormenti anteriori.

Locatelli (Corte) a S. Stefano. Dalla «Nota degli Avvocati del foro Veneto», che è inserita nello «Specchio d'Ordine per tutto il mese d'Aprile 1761», si rileva che l'«Ecc. Gio. Francesco Locatello» era domiciliato a S. Stefano. Varie famiglie cittadinesche Lucadello, Lucatello, o Locatelli, avevamo ed abbiamo tuttora in Venezia. Vedi Lucatella (Sottoportico e Corte ecc.).

Lombardo (Fondamenta) ai SS. Gervasio e Protasio. Eravi qui nel 1713 la «casa propria del N. U. Lorenzo Lombardo fo de S. Gerol. da lui habitata». Egli l'aveva fatta passare in proprio nome, con altre due casette nella medesima contrada, il 2 giugno 1706, dietro testamento di «Camilla Colonna consorte Piero Bonamico», di cui nel 1675 aveva sposato una figlia.

Chi fa provenire i Lombardo dalla Lombardia, e chi da Jesolo nel 907. Furono sempre del Consiglio, e, se vogliam credere al Capellari, produssero circa il 1290 quel Marco, cognominato Soldano, introdotto da Dante nella sua «Divina Commedia», del quale il Faroldo fa il seguente elogio: «Marco Lombardo, cioè della casa dei Lombardi, praticò gloriosamente, come il Greco Solone, per le corti dei gran prìncipi di Ponente, e fu tale che li scrittori Toscani a quei tempi hanno ne' poemi et historie fatto immortale memoria di lui». Seguendo sempre le vestigia del Capellari, nomineremo pure un Pietro Lombardo, capitano valoroso della Repubblica, che fiorì circa il 1295; un Almorò, detto dall'Aquila, che nel 1380 pugnò vittoriosamente, come sopraccomito di galera, contro i Genovesi, e nel 1403 fu potissima causa che si riportasse vittoria sopra i medesimi; un Giovanni eletto vescovo di Parenzo nel 1388; un Luigi, finalmente, prode campione contro i Turchi nel 1472. I Lombardo, che talvolta negli antichi tempi si confusero coi Lambardo, diedero pure il nome ad una «Corte» nella medesima parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio, e si estinsero nella prima metà del secolo trascorso.

Quanto alla «Calle» ed al «Campiello Lombardo» in parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato, presso l'Anconetta, facciamo osservare che queste vie vengono denominate negli Estimi «del Lionpardo». E così deve leggersi, poiché il 7 marzo 1680, per testimonianza dei Necrologi Sanitari, mancò ai vivi in parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato «Antonio fio de Franc. Lionpardo d'anni 5, da feb., mesi 3».

Longo (Calle) ai Servi. Fiancheggia un palazzo archiacuto, il quale apparteneva alla patrizia famiglia Longo, venuta, come si scrive, da Rimini nel 1043, e discesa dai signori di quella città. Questa famiglia fu ammessa al Maggior Consiglio nel 1381 per le benemerenze acquistate nella guerra di Chioggia da un Nicolò, che teneva spezieria a Rialto, ed era da «S. Marzilian». A lui probabilmente si deve la fabbrica del palazzo posto ai Servi, in parrocchia di S. Marziale, o «S. Marzilian», sebbene i Longo possedessero casa in quella situazione anche prima. In effetto, nel registro delle «caxe de rebeli della congiura Tiepolo che furono vendute, et messa sopra una imagine de S. Marco de piera» trovasi: «in S. Marcial, per mezo i Servi, cha Longo». I Longo si gloriano principalmente di quel Girolamo che, dopo aver combattuto impavidamente contro i Turchi sopra una galeazza, restò prigione, e rigettando l'esortazioni dei barbari acciocché rinnegasse la fede cristiana, venne posto, circa l'anno 1463, fra due tavole, e segato per mezzo. Della famiglia medesima fu quell'Antonio Longo, intorno al quale leggiamo nel Codice 183, Classe VII della Marciana, altre volte citato: «16... Antonio Longo, detto s. Franc.o q. s. Lor.o q. s. Ant.o q. s. Lor.o hebbe una stilettata da s. Piero Donà, fo de S. Polo, in parlatorio a San Zaccaria, trovato a fenestra de d. Maria Donà q. Zuane dalle Torreselle, monaca sua morosa, tradito dal Longo», Anche un Gaspare Longo venne ucciso nel 1697 in «Campo di S. Stefano», per causa di giuoco, da Michele Corner.

Lotto (Calle del) a S. Barnaba. Vedi Pistor o del Lotto.

Lovisella (Corte) a S. Moisè. Fino dal 29 aprile 1624 un «Z. Antonio Lovisello q. Zuane» comperò dai «Governatori delle Intrade un pezzo di terren, sive corte», ed un magazzino, situati in parrocchia di S. Moisè. Fabbricò poscia una casa destinata a sua abitazione, che notificò ai X Savii il 16 decembre 1627. Anche i di lui discendenti continuarono ad abitare nella casa medesima. Perciò la Descrizione della contrada di S. Moisè pel 1740 pone in «Corte Lovisella» la «casa propria» del «sig.r Lazzaro et Anzolo frat. Loviselli». Questa famiglia, del ceto dei Ragionati, possedeva beni a Curtarolo, e presso Campo S. Piero.

Lovo (Corte del) a S. Caterina. Crede il Dezan che questa Corte soggetta un tempo alla parrocchia di S. Felice, debba il suo nome alla famiglia di quel «Lorenzo Lovo», il quale nella sunnominata parrocchia contribuì nel 1379 prestiti allo Stato.

Anche a San Salvatore esistono un «Ponte», ed una «Calle al Ponte del Lovo», denominati da una famiglia dello stesso cognome. Nelle Condizioni del 1566 troviamo un «Antonio Lovo» domiciliato a San Salvatore in uno stabile dei Gabrieli, e nei Necrologi Sanitarii un «Bortolo Lovo», pur esso da San Salvatore, morto il 4 giugno 1570. Sappiamo poi che un «Luigi Lovo» mandò all'asta nel 1675, per debiti di Pasqualin Pizzoni, l'altare di San Lorenzo, che i Pizzoni possedevano in chiesa di S. Salvatore.

Lucatella (Sottoportico e Corte, Corte) a San Giuliano. Un Francesco «Lucadello», o «Lucatello», merciaio al «S. Cristoforo», comperò nel gennaio 1539 M. V. con istrumento in atti di G. Maria de Cavaneis N. V. una casa in parrocchia di San Giuliano da Francesco Venezia, e la traslatò in propria ditta il 6 marzo 1540. Questa casa «in due soleri et habitationi», situata «sopra il ponte dei Baretteri», giù del quale apresi la «Corte Lucatella», dopo la morte di Francesco Lucadello passò nel figlio Alessandro, e quindi nelle figlie di quest'ultimo, insieme a varii campi nel Trivigiano. La famiglia Lucadello, di cui parliamo, venuta, come tutte le altre del cognome medesimo, dal territorio bergamasco, fu approvata nel 1636 cittadina originaria in un Andrea figlio di Tommaso.

Altra «Corte Lucatella» havvi a San Giovanni Nuovo dietro la chiesa, e nel 1740 un «Vido e fratelli Lucatello q. Francesco» notificarono di possedere varie case, «in contrà de S. Zuane nuovo dietro la chiesa». Essi le avevano comperate da «Diana Rusconi r.ta Carlo Maria Bettinelli» cogli istrumenti d'acquisto 27 e 28 marzo, 4 e 5 aprile 1730, in atti di Giuseppe Uccelli N. V. Perciò la «Corte Lucatella» a San Giovanni Nuovo chiamavasi anticamente «Bettinella». Anche il parroco di San Giovanni Nuovo, Francesco Domenico Borin, nell'occasione che un Giovanni Antonio Lucatello, nipote del citato Vido, richiese nel 1786 di far entrare nel Collegio dei Ragionati un altro Vido suo figlio, depose in tal forma: «Fin da ragazzo ho conosciuto detto Gio. Ant. che è mio parrocchiano, et ha molti suoi stabili proprii in mia contrada di S. Gio. Novo».

Lunga (Calle) a S. Maria Formosa. E' chiamata lunga, o «longa», per la sua estensione, al pari d'alcune altre strade di Venezia, e la si trova con questo nome fino dal secolo XIII in una sentenza dei Signori di Notte al Criminal, in data 21 gennaio 1280 M.V.

In capo alla «Calle Lunga» di S. Maria Formosa si ritrasse combattendo il prode Almorò Morosini dal «Pestrin» che, durante una caccia di tori datasi sul principio del secolo trascorso nel campo vicino, era stato assalito da quattro sgherri mascherati. Egli non solo si difese bravamente fino all'accorrere de' suoi, ma con uno stocco uccise un cane da vita aizzatogli contro, laonde le donnicciuole, ed il basso popolo della «Calle Lunga» solevano fino agli ultimi tempi della Repubblica, quando trattavasi di cosa straordinaria, usare la frase: «Gnanca el stoco del Morosini che à tagià el can per mezo». Il principe Eugenio di Savoia, che dalle finestre del palazzo Ruzzini, poscia Priuli, fu spettatore di tale gagliardia, volle, come abbiamo altrove narrato, stringere amicizia col Morosini, e donargli la Beata Vergine del Correggio. Vedi Campo.

In «Calle Lunga» a S. Maria Formosa s'apprese fuoco il 6 novembre 1765 coll'esterminio di più botteghe, e colla morte di tre persone.

Lungo (Ponte, Rio del Ponte, Campiello del Ponte, Fondamenta del Ponte, Fondamenta a fianco del Ponte) alla Giudecca. Questo ponte, che è in legno, venne così detto per essere più lungo degli altri. Fabbricossi nel 1340 per unire l'antica alla nuova Giudecca; questa frutto degli imbonimenti da San Giovanni in giù; quella composta coll'unione delle antiche barene fino a San Biagio. Il libro «Spiritus» ha le seguenti parole: «1340, die XVI Januarii. Quod ad petitionem vicinorum utriusque Iudechae, scilicet novae et veteris, ordinetur quod fiat unus pons per quem possit transiri de Sancta Cruce per totam Iudecham» ecc. E nell'indice questo ponte è chiamato «Pons magnus Iudechae». Anche il Caroldo: «Nel 1340 fu statuido far il Ponte Lungo alla Zueca». Il ponte medesimo, secondo la cronaca Agostini, venne distrutto da un fiero uragano il 5 febbraio 1543 M. V., ma dopo rifabbricossi.

Un altro «Ponte Lungo» vi è sulle «Zattere». Sopra questo, Giuseppe II imperatore, cogli arciduchi fratelli, ammirò mascherato il «fresco», che davasi il dopo pranzo del 25 maggio 1775, giorno dell'Ascensione, nel canale della Giudecca. Vedi la «Relazione della venuta in Venezia di S. M. I. R. A. Giuseppe II» negli «Annali Urbani» di Fabio Mutinelli.

Lustraferri (Ponte dei) sulla «Fondamenta degli Ormesini», presso il «Ponte dell'Aseo». Qui, come in altri punti di Venezia, esisteva una bottega da «lustraferri», i quali erano certi artieri che occupavansi nel dare il lucido ai ferri, e specialmente a quelli delle gondole.

Dice il Gradenigo ne' suoi «Notatori» che il fabbro più bravo nel 1760 in lavorare i ferri delle gondole era quello al «Ponte dell'Aseo» a S. Marziale.

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