Ca' Balà (Fondamenta). Vedi Baccalà.

Ca' d'Oro (Calle, Traghetto della) a S. Sofia. Dopo le interessanti scoperte del comm. Cecchetti, pubblicate nell'«Archivio Veneto», resta indubitato che il palazzo a S. Sofia, detto «la Ca' d'Oro», prese il nome, non dalla patrizia famiglia Doro, ma dalle dorature esterne della facciata, come noi avevamo detto nei nostri «Alcuni Palazzi» ecc. Questa facciata venne eretta, dietro ordine dei Contarini, per opera di Giovanni e Bartolomeo Bon, padre e figlio, fra il 1424 ed il 1430. Nel 1431 essa fu in parte dipinta, ed in parte dorata da «Zuane de Franza pentor da S. Aponal». In seguito, avendo nel 1484 una figlia di Pietro Contarini sposato Pietro Marcello, gli portò in dote il palazzo. Perciò il genealogista Priuli, parlando di Pietro Marcello, dice: «Questo Pietro era detto dalla Ca' d'Oro perchè acquistò, per la moglie, la casa dorata al di fuori di ca' Contarini a S. Sofia, posseduta hoggi» (1630 circa) «parte da s. Alvise Loredan uxorio nomine, e parte da s. Pietro Marcello fu de s. Zuane in primogenitura, palazzo fra belli della città bellissimo sopra Canal Grande». E l'abate Teodoro Damaden così scrive: «Petrus Marcellus de domo aurea nuncupabatur quod tunc domum exterius olim inauratam, ad S. Sophiam sitam, uxorio nomine possideret, et inhabitaret». La ragione poi perché i Loredan erano all'epoca del Priuli comproprietarii del palazzo, si trova nel matrimonio, avvenuto nel 1620, fra Elisabetta Marcello, figlia di Federico, nipote d'esso Pietro, con Alvise Loredan. Dopo la metà del secolo XVII la «Ca' d'Oro» passò nelle mani dell'altra famiglia Bressa, a cui successero i più moderni proprietarii, uno de' quali la ristaurò nel 1865.

Nella «Ca' d'Oro» alloggiò il 25 febbraio 1500 M. V., ma per un giorno soltanto, Gio. Caracciolo capitano delle fanterie della Repubblica, venuto a dolersi pel ratto della moglie, attribuito a Cesare Borgia.

Nella «Ca' d'Oro» venne l'anno 1780 fondata un'accademia di declamazione teatrale col titolo di «Accademia degli Ardenti», e col motto: «Flamma nos ardet», a cura del marchese Francesco Albergati Capacelli, del conte Alessandro Ercole Pepoli, e d'altri valentuomini, i quali facevano gustare di quando in quando al fiore degli abitanti di Venezia, ed ai forestieri colti eziandio, commedie di pregio, parte composte da loro, e parte trascelte da quelle dei migliori autori. Questa accademia, che aveasi eletto per protettore Nicolò Erizzo, Procuratore di S. Marco, durò soltanto per lo spazio di circa quattro anni.

Ca' di Dio (Fondamenta, Ponte, Rio della) sulla «Riva degli Schiavoni». Gli ospizii che ricettavano pellegrini chiamavansi «Case di Dio», nome tuttora vivo in Francia. Uno di questi esisteva anticamente in Venezia, retto da un frate Lorenzo, e benché non se ne sappia la situazione, pure è probabile che sorgesse in parrocchia di S. Martino, e precisamente accanto quel sito ove il suddetto frate Lorenzo, mercé la donazione fatta nel 1272 di alcuni stabili da Maggio Trevisan pellicciaio, fondò la «Casa di Dio» oggidì esistente. Vuolsi che in essa nel 1360 albergassero alcuni frati genovesi col tristo disegno di incendiare il vicino Arsenale. Dopo quell'epoca il pio luogo venne posto sotto la direzione di un priore, non più frate, ma secolare, destinato ad accogliere non più pellegrini, ma alcune donne cadute in povertà, ed assoggettato al juspatronato ducale. La «Casa di Dio» ebbe una rifabbrica nel 1570, e nel 1623 comandossi che le ricoverate dovessero essere patrizie, od almeno appartenere alla cittadinanza originaria. L'istituto, che abbraccia nel suo mezzo una chiesetta col titolo di «S. Maria della Ca' di Dio», la quale fu ristaurata nel 1884, si mantiene tuttora aperto per un buon numero di donne, le quali godono l'alloggio, l'assistenza medica, ed i medicinali. Per estesi ragguagli sullo stato e le discipline della «Ca' di Dio» vedi Pier Luigi Bembo, «Delle Instituzioni di beneficenza nella città e provincia di Venezia».

Ca' Gritti. Vedi Gritti.

Ca' Lipoli (Calle). Vedi Gallipoli.

Ca' Matta (Calle detta) a S. Nicolò. Nel 1566 un «Ferigo Franceschi» notificò di possedere due terzi di casa, posta a S. Nicolò, «sotto un coperto nominato la Cha Matta». Questo stabile era forse così detto per la sua solidità e robustezza, come trovasi che negli antichi tempi, pel motivo medesimo, chiamavasi «Ca' Matta» il palazzo «Querini della Ca' Grande» a «Rialto». E forse da ciò provenne la denominazione di «case matte» alle costruzioni a prova di bomba nelle moderne fortezze. Senonché la calle di cui parliamo potrebbe invece ricordare una famiglia Camatta, trovandosi un «Iseppo Camatta», o «Chamatta», che venne ammesso il 30 giugno 1565 nell'arte dei «Compravendi Pesce».

Ca' Memo (Campiello dietro) a S. Marcuola.

Ca' Pozzo. Vedi Pozzetto.

Ca' Rampani. Vedi Carampane.

Callegheri (Ramo dei) a S. Tomà. Dalla Scuola dei «Calegheri» (calzolai), dedicata a S. Aniano, ed ora convertita ad uso privato. L'iscrizione scolpita sul pilastro al lato sinistro, dimostra che essa venne comperata dall'arte nel 1446. Sopra la porta vi è un bassorilievo, diligente lavoro della scuola lombardesca, rappresentante S. Aniano risanato da S. Marco, colla data del 1479. Finalmente sul pilastro al lato destro è detto che la Scuola medesima fu ristaurata nel 1580. Si suppone che i «Calegheri» antecedentemente si raccogliessero in chiesa della Carità, ove veneravasi il corpo di S. Aniano. Il Pivoto («Vetera ac nova ecclesiae S. Thomae Apostoli Monumenta») cita il presente paragrafo, inserito nella loro «Mariegola» sotto l'anno 1447: «Ancora volemo e dichiaremo come li signori frati de la Charità han conventione con nui fradeli de la Scuola de Calegheri che debino continue dì e notte mantegnir una lampada acexa in Chiesa de la Charità davanti a lo altar di quello beato Sancto Aniano, ove riposa el so sanctissimo corpo». E nel 1455 il capitolo di «S. Tomà» prescriveva che i «calegheri» non potessero «ullo tempore in futurum celebrare facere missas in alio loco tam magnas vel parvas, excepta illa quam solent dicere et celebrare in ecclesia S. Mariae Charitatis ex antiqua consuetudine». Questa arte aveva in chiesa di «S. Tomà» il proprio altare con pala dipinta da Palma «il giovine», ed unitamente ai «zavateri» (ciabattini) contava nel 1773 trecento e quaranta botteghe, ventidue posti chiusi, e centosessantacinque inviamenti, impiegando, in cifra, mille cento e settantadue individui. Essa doveva offrire ogni anno alla dogaressa un paio di zoccoli del valore di lire venete ventidue.

Callegheri (Ramo primo, Ramo secondo, Ramo terzo, Ramo quarto dei) a S. Maria Zobenigo. Leggiamo col Paganuzzi «Callegari». Verso la fine del secolo scorso, e sul principio del presente, trovasi questo cognome non solo in parrocchia di S. Maria Zobenigo, ma in quelle ancora di S. Angelo, e di S. Maurizio. E le strade indicate erano appunto il centro ove per lo passato i confini delle tre parrocchie si toccavano fra loro.

Il «Ponte dei Callegheri» è detto anche «Storto». V. Storto (Ponte). Il «Ramo terzo dei Callegheri» ha poi l'aggiunto «della Malvasia» perché prossimo ad un ponte così denominato. V. Malvasia (Calle della).

Campanile (Calle del) a S. Maria Zobenigo. Dal distrutto campanile della chiesa di S. Maria Zobenigo. Di esso parla Nicandro Jasseo dicendo:

.......... et prope turris

Inflexa cervice adstat.

colla nota: «In templo S. Mariae, ut vocant, Zobenigo facies pulchra ex marmore, turris studiose inclinata». Avendosi però sospettato che questa inclinazione minacciasse pericolo, s'interpellarono gli uomini dell'arte, e si venne a conoscere, secondo la perizia dell'Alberti, fatta nel 1773, che il campanile era inclinato d'un piede e mezzo, e secondo quella del Maccaruzzi, fatta nel 1774, di due piedi e mezzo, laonde nel 1775, per decreto del Senato, venne demolito. Allora si pensò a ricostruirlo, ma l'opera non procedette oltre la grossa base, che oggidì, fornita di coperto, forma un piccolo magazzino, addetto alla chiesa, la quale ha in sito diverso un semplice campanile alla Romana.

Anche il «Ramo» e la «Calle del Campanile» a San Canciano trassero il nome dal campanile dell'ex chiesa di S. Maria Nuova, attualmente distrutto. La maggior parte però dei campanili, onde sono appellate alcune vie di Venezia, esistono tuttora.

Oltre a novanta sono le torri a campanile, e circa venti i campanili alla Romana sparsi per la città. Il più antico è il campanile di S. Marco solido e grandioso edificio, che cominciò a sorgere nell'888, ossia, come altri vogliono, nel 902. In una gabbia di legno con armatura di ferro, sporgente dal medesimo, solevansi in antico rinchiudere specialmente gli ecclesiastici rei di gravi delitti, e colà essi dovevano rimanere esposti ai solleoni, ed all'intemperie per un tempo fissato, o per tutta la vita, ricevendo il cibo per mezzo d'una funicella che calavano al basso. Il campanile di S. Polo è di stile archiacuto, e venne innalzato nel 1362. Varie sono le opinioni circa i due leoni scolpiti sopra la sua porta, questione che toccheremo di volo anche noi parlando della prossima chiesa. Archiacuto del pari è il campanile di S. Maria Gloriosa de Frari, che ebbe compimento nel 1396, sopra disegno di Giacomo Celega, ingegnere della Signoria, donde davasi il segno della convocazione del Maggior Consiglio, come praticavasi dall'altre torri di S. Marco, di S. Francesco della Vigna, e di S. Geremia. Merita attenzione eziandio il campanile di S. Pietro di Castello, tutto incrostato di marmo, opera del secolo XV. Il più stimabile poi dei campanili di Venezia, per singolarità di disegno, e regolarità di costruzione, si deve riputare quello della Madonna dell'Orto, finito nel 1503, anno segnato sopra una cassetta di piombo scopertasi con varie reliquie nella cupola vecchia, ed ora riposta nella nuova. Tra i campanili antichi annovereremo per ultimo quello di S. Sebastiano, che riconosce per autore lo Scarpagnino, e che ha sul basamento l'anno 1544, epoca della sua costruzione, e quello dei Carmini, che, inclinato, raddrizzossi dal Sardi nel 1688. Tra i moderni sono da citarsi quello con colonne di S. Pantaleone, attribuito allo Scalfarotto, e quello di S. Bartolomeo, eretto nel 1754.

Campanile (Calle del) a S. Mattio.

Campanile (Calle del) detta Civran a S. Tomà. Al principio di questa calle sorgeva il campanile della chiesa di San Tommaso Apostolo, volgarmente «S. Tomà», di cui resta la sola base, ora sormontata da un campanile alla Romana.

La calle medesima conduce ad un palazzo respiciente il «Canal Grande», che apparteneva alla patrizia famiglia Civran, e che scorgesi inciso nella raccolta del Coronelli. Vedi Civran (Calle).

Campanile (Calle del) detta dei Preti, a S. Eustacchio. Dipende la prima denominazione dal campanile di S. Eustacchio, e la seconda da case che appartenevano al capitolo di quella chiesa un tempo parrocchiale.

Campo di Marte. Vedi Marte.

Canal (Fondamenta, Ramo, Ponte) a S. Barnaba. Sulla porta d'un prossimo palazzo scorgesi tuttora scolpito un palo con tre gigli per parte, stemma d'un ramo della famiglia Canal, o da Canal, ascritta al veneto patriziato nel secolo XIII.

I cronisti dividono questa famiglia in due rami, l'uno venuto da Altino, dal palo e dai gigli, l'altro venuto da Ravenna, dallo scaglione nello scudo gentilizio. Rammenta la storia un Andrea da Canal che ruppe nel 1272 i Bolognesi; un Marco che nel 1277 ricuperò Capodistria ribellata; un Pietro che nel 1345 costrinse Zara alla resa, e fece prigioniero un capitano nemico, impadronendosi del suo stemma in cui figuravano i gigli, un Nicolò prima vescovo di Bergamo, poi nel 1342 arcivescovo di Ravenna, e finalmente nel 1347 di Patrasso; un altro Nicolò che sostenne molte ambascierie, e riportò varie vittorie, ma che nel 1479, avendo ricusato il cimento coi Turchi, onde Negroponte fu preso, venne condotto in ferri a Venezia, e relegato a Portogruaro nelle sue terre; un Girolamo, che essendo capitano in golfo nel 1527, segnalossi in molte fazioni, e nel 1533 catturò il Moro d'Alessandria, terribile corsaro; un Antonio di lui figlio, che pugnò valorosamente alle Curzolari; un Cristoforo che, combattendo pur egli contro i corsari, restò ferito mortalmente da freccia nel 1564, nè ritirandosi per questo dall'agone, fu coperto collo scudo dal figlio Girolamo, finché s'ottenne piena vittoria. Altri della famiglia Canal si distinsero in epoca posteriore contro i Turchi. A riscontro però di tante glorie, trascriviamo dal Codice 183, Classe VII, della Marciana, la narrazione seguente che si riferisce al secolo XVII, e che riguarda un individuo della stessa famiglia, degenere dai propri antenati: «S. Girolamo Canal q. Pietro q. Antonio Proc.» (da San Barnaba), «per sospetto che haveva della moglie d'adulterio, la condusse a Padova, che era graveda, che era D. Marina Vendramin q. Zaccaria» (sposata nel 1677) «et havendogli dato fuoco al letto con quantità di polvere da schioppo, fingendolo caso, si abrugiò, havendola chiusa nel fuggir lui con un figlio, havendo pubblicato che ella era caduta sopra la polvere accesa che aveva sotto il letto, che adoperava per trarre, con alquanta stoppa, ma si servì di polvere che col solo fetore avvelenava, onde fatta dissotterrare dal Consiglio di X, et aperta due volte, si ritrovò graveda, morta quasi... abbenché nel volto fumata e nera; et formatosi processo, non potendosi rilevar di più, non fu preso il proceder. Questo fu bandito con fisco per prepotenze e tiranie in Conegliano e quei villaggi, per rapimenti di beni e morti violente fatte dare a miserabili, ma fu liberato poco tempo dopo da la madre ricca assae, et è sempre vissuto dopo la morte della moglie con licentia, e nella sua casa con tripudio inhonesto, tenendo insieme coi figli la meretrice sempre a tavola con molti nobili del suo genio e cubicularii», ecc.

Mediante l'interramento del «Rio di S. Margarita», successo nell'anno 1862, il «Ponte Canal» venne distrutto, e la «Fondamenta Canal», insieme all'opposta «Fondamenta Soranzo», divenne «Rio Terrà».

Alcune altre vie dividono il nome con quella di cui abbiamo parlato.

Canal (Volta di) a S. Pantaleone. E' così chiamato un punto del «Canal Grande» presso i palazzi dei Foscari e dei Balbi, ove esso volge direzione. Qui era la meta delle «regate», e qui costruivasi la così detta «macchina», ove sedevano tre personaggi destinati a giudicare dei premi, ed a distribuirli ai vincitori. E poiché abbiamo toccato delle «regate», ci sia lecito di farne seguire i cenni seguenti. Alcuni derivano il nome «regata» da «riga», ponendosi in riga, od in linea, le barchette prima d'accingersi al corso; altri da «remigata»; altri finalmente, con minor probabilità, da «auriga». Sembra che la prima istituzione di questo spettacolo abbia avuto per iscopo d'esercitare la gioventù al remo sopra le galee, ed altre barche inservienti alla guerra. La più antica memoria delle «regate» risale al secolo XIV, e si sa che allora eseguivansi per mezzo di galee. Le più celebri «regate» sotto la Repubblica furono le seguenti: I. Per Federico III, imperatore (1451). II. Per Beatrice d'Este, moglie di Lodovico Sforza duca di Milano (1493). III. Per Enrico III re di Francia (1574). IV. Per Ernesto Augusto duca di Brunswick (1686). V. Per Federico Cristiano, figlio di Federico Augusto III re di Polonia ed elettore di Sassonia (1740). VI. Per Edoardo Augusto duca di York (1764). VII. Pell'imperatore Giuseppe II e gli arciduchi suoi fratelli (1775). VIII. Per Paolo, figliuolo di Caterina Czarina delle Russie (poi Paolo I imperatore), e per la di lui moglie Maria Sofia Dorotea, principessa di Württemberg, che visitarono Venezia sotto il nome di «Conti del Nord» (1782).

Canal (Fondamenta) a S. Fosca. Vedi Daniele Canal.

Canal Morto (Fondamenta del) alla Giudecca. Vedi Morto (Canale ecc.) alla Giudecca.

Canonica (Sottoportico, Corte, Calle, Ramo, Calle, Ponte, Rio di) a S. Marco. Dalle case ove, col restante del clero addetto alla Basilica, risiedevano i canonici di S. Marco. Essi anticamente dicevansi cappellani, e la loro istituzione rimonta all'829 in cui, come dice Pier Giustiniani nella sua storia, il doge Giovanni Partecipazio «primicerium et cappellanos instituit, qui diurnum nocturnumque officium divinis laudibus celebrarent». Variò il numero di questi canonici, leggendosi che nel 1393, allorquando il doge Antonio Venier ne investiva alquanti, si ritrovavano in numero di 26, e che negli ultimi secoli si restrinsero a 12 soltanto. Le case di loro residenza vennero ad essi destinate dal doge Ziani. Nel 1210 furono rifatte da Angelo Falier, unico allora Procuratore di S. Marco, e ridotte di pietra nel 1346. Lo Stringa nelle sue Aggiunte alla «Venezia» del Sansovino, pubblicate nel 1604, riferisce che a' suoi tempi erano 24, disposte nel modo seguente: 12 pei canonici residenti, 2 pei sacrestani, 5 pei sottocanonici, 2 pei sottosacrestani, 1 pel maestro di cappella, e le altre 2 pei guardiani di chiesa. Il sesto dei sottocanonici aveva anch'egli anticamente la propria casa, ma essa era stata demolita perché, essendo troppo vicina alla basilica, potea cagionarle pericolo di fuoco, ed in cambio il sottocanonico suddetto riceveva dalla Procuratia un corrispondente compenso in danaro. Per attestato del medesimo Stringa, queste case presentavano allora l'aspetto d'un convento con cortile nel mezzo, fornito di pozzo, ed attorniato da sottoportici al piano, e da un corridoio superiore. L'ingresso poi, come attesta l'opera manoscritta del Todeschini, altrove citata, col titolo: «Della dignità dei Procuratori di S. Marco», era dalla parte della piazzetta di S. Basso. Fino dal 1597 i Procuratori avevano divisato di rifabbricare la Canonica, ma, per varii impedimenti che vi si frapposero, ciò non ebbe effetto prima del 1618, terminandosi l'opera nel 1635.

Un fiero caso nasceva l'anno 1456 nella Canonica di San Marco. Eravi in Venezia un prete Vittore, uomo di pessima natura, e, secondo que' tempi superstiziosi, legato in amicizia col demonio, che teneva il sacco alle sue ribalderie «in forma canis albi». Costui, sapendo che nella Canonica di S. Marco abitava un Mauro d'Otranto canonico, uomo danaroso, salì sopra il tetto della di lui casa, e pel camino si calò nella stanza da lui abitata. Il canonico era allora in chiesa a cantar mattutino, sicché pre' Vittore andò frattanto esaminando ove tenesse il danaro, e poscia, per aspettar tempo opportuno, si nascose «in callicella lecti». Quando poi ritornò il canonico, se gli scagliò addosso, lottò lungamente col medesimo, e fu solo quando forse si vide inferiore di forze che desistette dalla lotta, e pregollo a lasciarlo partire. Accondiscese il canonico, e si accinse ad accompagnare pre' Vittore fuori della porta, ma questi, fingendo timore, volle che lo precedesse, e, giunto alla fine della scala, gli gettò una corda al collo, tentando eziandio di soffocarlo colle mani. Nacque allora lotta più fiera; pre' Vittore stringeva, pre' Mauro morsicava le mani di pre' Vittore, finché questi impugnò la spada, onde pre' Mauro era cinto, e gliela conficcò nella gola. Dopo ciò strascinò il cadavere nella strada, gli gettò sopra della legna, e mise a ruba la casa. Per tale delitto pre' Vittore venne posto alla tortura, ed, avendo innanzi il vicario patriarcale Nicolò dalle Croci, confessato il tutto, fu degradato, e consegnato all'autorità secolare, che il 19 marzo 1456 lo fece appendere alle forche.

Il «Ponte di Canonica» venne fatto erigere, secondo molti cronisti, dopo l'assassinio commesso sopra Vitale Michiel II nel 1172, e ciò perché i dogi il giorno di Pasqua si recassero, non più per la «Riva degli Schiavoni», ma per di dentro, a visitare la chiesa di S. Zaccaria. Vedi Rasse (Calle delle). Altri vogliono che il Ponte medesimo sia stato eretto alquanto prima, cioè nell'864, dopo la uccisione del doge Pietro Tradonico. La presente rifabbrica, sopra disegno d'Antonio Mazzoni, data dal 1755.

Presso il «Ponte», e sopra il «Rio di Canonica» sorge un magnifico palazzo lombardesco, che prima fu dei Trevisan, e poscia dei Cappello. Alcuni credettero che da queste soglie fuggisse nel 1563 la celebre Bianca Cappello. Ma i documenti scoperti provarono in quella vece che il palazzo, ove Bianca abitava, è quello situato al «Ponte Storto» a S. Apollinare. V. Storto (Ponte). Essa bensì, quando già era fuggita da Venezia, e si trovava in Firenze amante del Gran Duca, comperò il palazzo di «Canonica» dal N. U. Domenico Trevisan q. Angelo, con istrumento 4 ottobre 1577, in atti di Antonio Callegarini, e donollo al proprio fratello Vittore coll'altro istrumento 12 maggio 1578, in atti del notaio medesimo.

Canonica (Calle) a S. Girolamo. E' così detta, secondo la Descrizione della contrada dei SS. Ermagora e Fortunato pel 1661, da varie case e botteghe, possedute allora dal patriarca di Venezia Francesco Morosini.

Cappello (Sottoportico e Calle del) a S. Marco. L'osteria che qui esiste, all'insegna del «Cappello», data dal secolo XIV poiché se ne trova menzione fino dal febbraio 1341 M. V. e nel 1379 un «Francesco dal Cappello» in parrocchia di S. Basso era allibrato all'estimo del comune. Si fa ricordo di essa osteria, che apparteneva alla basilica di S. Marco, ed era amministrata dai «Procuratori de Supra», anche in una deposizione di un Giacomo servitore, fatta negli atti della Curia Castellana, il 20 luglio 1453. Abitava costui col suo padrone Zanini da Crema in casa di un Lazzaro Tedesco, il quale teneva ospiti a settimana in contrada di S. Luca, e colà eravi pure certa Chiara. Costei un bel dì chiamollo a testimonio delle nozze che contraeva con un certo Giovanni dicendo: «Io vuò che sia presente ancho ti a queste nozze», ed in quella ricevette da Giovanni l'anello nuziale, accompagnato dalle parole: «Chiara io te tojo per mia mujer»; dopo di che, sopraggiunta la notte, gli sposi novelli «se n'andà tutti do a dormir insieme». Senonché Giacomo confessò d'aver saputo che Chiara erasi antecedentemente maritata all'albergo del Cappello con un giovane Rigo, e d'essere stato pregato da lei di tacere tale circostanza al momento del suo nuovo matrimonio.

L'osteria del «Cappello», in «Piazza di S. Marco», è nominata pure in una sentenza criminale del 27 settembre 1483 colla quale venne condannato in vita nella carcere Catolda un capitano turco per nome Iusuph, che in detta osteria aveva sodomitato un ragazzo. Il reo però nell'anno seguente, richiesto in grazia dal Sultano, gli venne rimandato.

E' nominata in una legge del 1490 per cui estendevasi anche a questa osteria l'altra legge del 1489 che vietava il tenersi meretrici nelle osterie situate in «Piazzetta», presso la «Panateria».

Anche il Sanudo nei «Diarii» parla della medesima osteria, raccontando come il 5 maggio 1515 si espose al pubblico in essa un garzone, d'anni 14, nato in Piccardia, dal petto del quale usciva il busto d'un'altra creatura. Questo mostro venne fatto la sera medesima partire per ordine del Consiglio dei X.

Presso al «Sottoportico del Cappello» fu posta nel 1841 una scultura, rappresentante una vecchia che, affacciandosi alla finestra, urta e fa cadere sulla strada un mortaio. E' il sito ove abitava quella Giustina, o Lucia Rossi, la quale affacciandosi appunto alla finestra il 15 giugno 1310, al rumore prodotto dai congiurati di Boemondo, o Bajamonte Tiepolo, lasciò cadere un mortaio sulla testa al vessillifero dei ribelli. Vuolsi che egli morisse colà ove scorgesi tuttora un pezzo di bianco marmo innestato nel pavimento. Il Doge e la Signoria fecero chiamare la Rossi per premiarla, ed essa, dopo aversi a lungo schermito, chiese di poter esporre nei giorni festivi da quella finestra donde precipitò il mortaio, uno stendardo o bandiera, con lo stemma di S. Marco. Chiese inoltre che i Procuratori di S. Marco, proprietari della casa ove abitava, e della sottoposta bottega, non ne potessero crescere l'annua pigione di ducati 15 né a lei, né alle sue figlie. A ciò acconsentì il Doge, anzi estese il beneficio a tutti i di lei discendenti. Per la storia successiva di questa casa e bottega, le quali da quel momento in poi si chiamarono «della Grazia del Mortèr», vedi l'opuscolo: «Storia della Casa e Bottega in Venezia di ragione della Grazia del Morter», e «Cenni sulla Congiura di Boemondo Tiepolo. Venezia, Milesi, 1842».

Cappello (Calle, Ponte) a S. Giovanni Laterano. Dalla città di Capua, dicono i cronisti, molte famiglie passarono a Roma, e tra queste i Capuelli, detti poscia Cappello, i quali furono ammessi alla cittadinanza Romana, ma in seguito, essendo stati proscritti dai Triumviri, si trasportarono a Padova, e di là ai tempi d'Attila, a Venezia, ove furono aggregati al patriziato nel 1297. Sebbene questa famiglia possa contare nella carriera ecclesiastica un Pietro vescovo di Cremona nel 1362, ed un Benedetto arcivescovo di Zara nel 1639; nella letteraria un Bernardo, buon poeta, che trovasi nominato nel «Furioso» dell'Ariosto; e nella civile parecchi magistrati distinti, tuttavia rifulse maggiormente nelle belliche imprese. Tra molti valorosi guerrieri ricorderemo quel Vittore che nel 1462 e 1465 fu Generalissimo dei Veneziani contro i Turchi, riportando segnalate vittorie e che, morto nel 1466 di cordoglio, a cagione d'essere stato battuto dai nemici, ebbe per cura dei parenti, un'onorevole monumento sulla porta della chiesa di S. Elena in isola. Anche un Nicolò Cappello sconfisse i Turchi in varii incontri, preservò Cipro nel 1487 dalle ostili ingiurie, e nel 1490 ridusse Paros con altri luoghi alla Veneta obbedienza. Non dimenticheremo per ultimo quel Vincenzo Cappello, per ben cinque volte generale di mare, a cui spese sorse nel 1541 la facciata della chiesa di S. Maria Formosa, riguardante il «Ponte delle Bande». Colà si scorgono tuttora l'urna e la statua dell'eroe, mentre sulla facciata risguardante il Campo, eretta per testamento d'un altro Vincenzo Cappello nel 1604, ammiransi i busti d'altri cospicui soggetti della famiglia. Essa produsse eziandio la celebre Bianca, morta Granduchessa di Toscana, e diede il nome a più d'un sentiero di Venezia. Un ramo della medesima abitava a S. Giovanni Laterano in un palazzo fregiato del di lei stemma gentilizio, e nominato dal Sansovino nella sua «Venezia», nonché dal Boschini nelle «Ricche Minere della Pittura Veneziana». Scrive quest'ultimo autore che dopo la chiesa di San Giovanni Laterano «si trova Casa Capella, il di cui cortile è tutto dipinto dalla scuola del Zilotti».

Cappello (Calle) a S. Apollinare. Vedi Storto (Ponte).

Cappello o dei Garzoti (Ponte) a S. Simeon Grande, in «Rio Marin». Dipende la prima denominazione da un prossimo palazzo, che anticamente era, secondo le genealogie del Priuli, dei Bragadin, e poscia dei Soranzo. Così dice il Martinioni nell'appendice ai palazzi descritti dal Sansovino e dallo Stringa: «In Rio Marin è degno di memoria quello dei Soranzo, per costruttura, per marmi, per magnifiche stanze, per ampie sale e per gli ornamenti specialmente di eccellenti pitture». Questo palazzo, coll'andar del tempo, passò in mano della famiglia Cappello, della quale dicemmo più sopra.

Rammenta il Quadri, nella sua «Descrizione topografica di Venezia», aver appartenuto al ramo dei Cappello qui domiciliato quel cav. Antonio, ambasciatore presso Luigi XVI di Francia, che fino dal 1788 avvisò il proprio Governo delle turbolenze di quel regno, ed esortollo indarno a prendere caute misure onde resistere agli sconvolgimenti derivati perciò a tutta l'Europa. Per la seconda denominazione vedi Rio Marin (Fondamenta) o dei Garzoti.

Cappuccine (Fondamenta delle, Ponte alle) a S. Girolamo. Sullo scorcio del secolo XVI Angela Crasso, avendo in animo di darsi alla vita claustrale, si ritirò con una compagna in una casa attigua all'oratorio della Fava. Di là le due donne passarono in un'altra casa presso «l'Ospedaletto» ai SS. Giovanni e Paolo, la quale riuscendo angusta pel numero crescente delle loro seguaci, si trasferirono in più capace albergo a S. Ternita. In seguito, ridotte a dodici, eressero in «Quintavalle» a Castello un formale convento, ove nel 1609 vestirono l'abito dei Cappuccini. Ma poscia, non contente della situazione, ne fecero sorgere un altro nel 1612 sulla Fondamenta che stendesi in faccia la chiesa di S. Girolamo, e nel 1614 vi aggiunsero una chiesa, che si consecrò nel 1623 sotto i titoli di S. Maria Madre del Redentore, di S. Francesco, e di S. Chiara. Questo convento fu soppresso nel 1818, e ridotto ad uso di ospizio per maniache. Nel 1827 però venne restituito, insieme colla chiesa alle Cappuccine, che tuttora vi dimorano.

Cappuccine (Calle delle) a S. Maria del Pianto. E' così nominata da un convento di monache Servite, dette le Cappuccine, che era congiunto alla chiesa di S. Maria del Pianto. Questi edifici si presero ad architettare nel 1647 da Baldassare Longhena per voto fatto dal Senato nella crudel guerra contro il Turco, e dietro l'esortazione di Maria Benedetta Rossi, monaca Servita del convento di Burano, che fino dal 1630, epoca della pestilenza, aveva suggerito questo mezzo come atto a placare l'ira celeste. Nel 1658 Maria Innocenza Contarini, successa alla Rossi, condusse da Burano alcune monache per popolare il nuovo convento, il quale nel 1810 venne, come tanti altri, soppresso, chiudendosene anche la chiesa. Nel 1814 ambi gli edifici vennero acquistati dall'abate Antonio de Martiis, e volti ad uso d'educazione maschile, e di speculazione privata. Finalmente l'ab. Daniele Canal (poscia canonico) v'istituì altro collegio, ove si educano povere fanciulle, e, dopo un breve spazio di tempo, giunse a riaprire la chiesa, riconsacrata il 21 agosto 1851. Vedi l'opuscolo intitolato: «La Chiesa di S. Maria del Pianto in Venezia. Venezia, Antonelli, 1851».

Gravissimo incendio sviluppossi la sera del 5 gennaio 1748 M. V. in «Calle delle Cappuccine», in un magazzino di merci d'una compagnia di mercadanti, a causa d'un garzone che vi entrò colla pipa accesa. Durò fino a giorno, ed in tale circostanza morì soffocato dal fumo, e sepolto fra le macerie, un servo di Biagio Alpegher negoziante. Andarono consunti 145 colli di cotone, ed altre merci con rilevantissimo danno. S'abbruciarono inoltre quattro case di proprietà Morosini.

Carità (Rio terrà, Campo, Ponte della). La chiesa di Santa Maria della Carità, una fra le più antiche di Venezia, era nei primi tempi di legno. L'anno 1120 il patrizio Marco Zulian offrì tutto il suo avere nelle mani del legato pontificio per erigerla in pietra, insieme ad un convento che nel 1134 accolse alcuni canonici regolari di S. Maria in Porto di Ravenna, perciò detti Portuensi. Papa Alessandro III nel 1177 consecrò questa chiesa, e la arricchì d'indulgenze, laonde sorse il costume che ogni anno il Doge e la Signoria si recassero il giorno 5 aprile a fruire delle medesime. Essendo stato eletto nel 1409 a priore della Carità Francesco Cappello, e vedendo il suo convento quasi disabitato, v'introdusse una colonia di canonici regolari di S. Maria Frisionaria di Lucca, dei quali in seguito, col resto dei suoi, abbracciò l'istituto. Il cardinale Gabriele Condulmer, poscia Eugenio IV, diede da abitare ai canonici suddetti il convento di S. Salvatore, ma essi, scusandosi col dire, non essere confacente al loro vivere ritirato un'abitazione posta in mezzo ai tumulti della città, l'abbandonarono, ritornando nel loro pristino asilo. La chiesa della Carità fu ricostruita nel 1446, e nel secolo successivo abbellita. Quanto al convento, il Palladio lo riedificò circa il 1560, senonché l'opera del celebre architetto bruciò in gran parte il 16 novembre 1630. La religiosa famiglia dei canonici regolari restò soppressa in virtù della legge 7 settembre 1768, affidandosi in quella circostanza la uffiziatura della chiesa ad un cappellano. Anche questa però venne chiusa nel 1807 dal Governo Italico, e destinata, unitamente al locale in cui raccoglievasi la Confraternita della Carità, di cui parleremo nell'articolo seguente, a formare l'«Accademia di Belle Arti».

Racconta la tradizione popolare che, essendo venuto travestito a Venezia papa Alessandro III nel 1177, ed avendo dormito la prima notte sulla nuda terra presso la «Calle del Perdon» a S. Apollinare, oppure, come altri dicono, sotto il portico della chiesa di S. Salvatore, capitò la mattina seguente al monastero di S. Maria della Carità, ottenne d'esservi accolto come semplice cappellano, o, secondo un'altra versione, come guattero, e vi restò circa sei mesi, finché, riconosciuto da un francese per nome Comodo, venne accompagnato dal doge con tutta pompa al palazzo ducale, e quindi ospitato nel palazzo del patriarca di Grado a S. Silvestro. Ma il Romanin nella sua «Storia Documentata di Venezia» dimostra l'insussistenza di tale favoletta. Anche noi torneremo a discorrerne in altra occasione. Vedi Perdon (Calle ecc. del).

Il campanile della Carità precipitò il 27 marzo 1744 nel «Canal Grande» fracassando due case vicine, e commovendo l'acqua in modo da far balzare sulla strada le gondole del prossimo traghetto.

Il «Campo della Carità» fu ai nostri giorni messo in comunicazione col «Campo di S. Vitale» mediante un ponte di ferro, gettato attraverso il Canal Grande, che venne costrutto dall'ingegnere Neville nelle officine inglesi. Questo ponte si aprì al pubblico nel giorno 20 novembre 1854. Un ponte da S. Vitale alla Carità era stato proposto fino dal secolo XV. Scrive il Magno nella sua cronaca: «Del 1488, a dì 10 avosto, in consegio per S. Luca Trun prov. de Comun fu messa parte de far dui ponti sopra il Canal grando, zoè uno a Santa Sofia, et l'altro a la Charità, ma tutto el consegio ridendose de questo, non fu balotà».

Carità (Ramo, Corte della) in «Birri», a S. Canciano. Lo stemma della confraternita della Carità, scolpito sul muro, è indizio che qui essa possedeva alcune case. Queste erano in numero di sedici, derivanti dal testamento di Tommaso Trevisan 26 febbraio 1489 M. V. in atti di Ulisse Pallestrina N. V.

La confraternita della Carità ebbe origine nel 1260 in chiesa di S. Leonardo. Poscia trasferissi alla Giudecca, ove fondò un oratorio sacro a S. Jacopo, più tardi atterrato per dar luogo alla chiesa dei pp. Serviti. Quindi, ritornata a Venezia, eresse nel 1344, presso il convento dei canonici regolari di S. Maria della Carità, una Scuola, che circa il 1760 fu decorata d'esterno prospetto eseguito da Bernardino Maccaruzzi sul disegno di Giorgio Massari. La confraternita della Carità venne disciolta nel 1807 per opera dell'Italico Governo. Apparteneva alle sei Scuole Grandi, ed ebbe fra i suoi confratelli molti illustri personaggi, fra i quali il cardinale Bessarione, celebre per dottrina, e pel dono fatto nel 1468 alla Repubblica della sua biblioteca fornita di codici insigni.

Carlo Coletti (Fondamenta). Vedi Moro.

Case Nuove (Sottoportico e Corte delle) ai Tolentini. Sono chiamate negli Estimi le «Case Niove de chà Ventura». Questa denominazione, l'origine della quale è chiarissima, trovasi anche altrove riportata.

Case Nuove (Calle delle) detta Boldù a S. Pantaleone. Pel primo nome vedi l'articolo precedente. Pel secondo basterà rammentare che qui possedeva varii stabili nel 1661 la «N. D. Maria Molin r.ta del N. U. Ger.o Boldù».

Della famiglia Boldù abbiamo detto più indietro.

Castel Cimesin (Calleselle, Sottoportico, Corte del) a S. Marco. Vogliono alcuni scrittori, fra i quali il Cappelletti («Storia della Repubblica di Venezia») che qui sorgesse un castello, fondato all'incirca nei medesimi tempi di quello d'Olivolo. Del resto «Cimesin» sembra cognome di famiglia. Un «Ramo Cimesin» vi è anche presso le «Chiovere» di S. Rocco.

Castel Forte (Ramo, Calle dietro, Sottoportico, Calle di) a S. Rocco. Riporta il Sabellico («De situ Urbis») aver udito dire a' suoi giorni che in questa situazione esisteva anticamente un forte castello, di cui ancora apparivano gli avanzi. Egli, dopo aver parlato della chiesa di S. Rocco, così si esprime: «Locum cum herbido campo, qui, humilibus ac paucis interjectis domibus, a tergo patet, Castellum vulgo appellari audio, sed causam adhuc requiro, nisi forte proximis inquilinis fidem habendam putamus, qui mihi dicebant accepisse se a majoribus in propinquis hortis, ubi nunc infectorum fullonumque tentoria visuntur, locum olim munitissimum fuisse, cujus vetusta operis aliqua hodie appareant vestigia». Altri invece lasciarono scritto che il nome di «Castel Forte» provenne dall'aversi qui nel 1261, ovvero 1264, fabbricato una nave, chiamata la «Rocca Forte», sopra la quale montarono 500 uomini per la sicurezza d'una carovana guidata da Michele Doro, spedito in Acri. E' memoria che questa sola nave fuggì dai Genovesi e ritornò a Venezia.

A proposito d'una fornace, che nel secolo XV esisteva in «Castel Forte S. Rocco», osserva il Temanza nella sua «Dissertazione» sopra l'«Antica Pianta di Venezia» da lui pubblicata, che il luogo così denominato era «una delle più antiche tombe di Rialto».

Il Trevisano pubblicò nella sua «Laguna» due lapidi antiche trovate nelle vicinanze di «Castel Forte», scavando un pozzo alla profondità di circa tredici piedi.

La «Calle di Castel Forte» è detta anche «Calle di Castel Forte S. Rocco», per essere vicina alla chiesa ed alla scuola di questo Santo.

Cavalletto (Sottoportico, Ponte, Rio, Calle del) a San Marco. Queste strade, soggette un tempo alla parrocchia di San Geminiano, presero il nome da un'osteria, tuttora aperta all'insegna del «Cavalletto». Abbiamo molti dati per crederla una delle più antiche di Venezia. In quella «Mariegola» della Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, che principia coll'anno 1308, ed arriva al 1499, trovasi ascritto come confratello un «Giacomello De Gratia dal Cavalletto» da San Geminiano, il quale probabilmente è quel medesimo «Giacomo del Cavaleto», che nella suddetta parrocchia fece prestiti alla Repubblica nel 1379. Nel 1398 un «Zaninus dal Cavaleto tabernarius ad Cavaletum in S. Marco» ebbe una condanna per usare nella propria osteria vasi di vino di minor tenuta del prescritto. Un «Armanus de Alemania q. Petri hospes ad hospitium Cabaleti in S.to Marco», avendo ricettato Catterina da Ferrara, fanciulla di circa 10 anni, che, per timore di percosse, era fuggita di casa, ed era stata ritrovata piangente di sera presso la chiesa di S. Marco da un Nicolò tedesco, prestinaio, le tolse quella notte medesima il fiore virginale. Egli perciò, con sentenza 25 settembre 1413, venne condannato ad un anno di carcere, ed alla multa di 100 ducati, da depositarsi alla «Camera dei Imprestidi», per maritare a suo tempo la fanciulla. Essendo questa passata ad altra vita, la multa si devolse al Comune, ma l'oste ebbe grazia di pagarla in rate da 10 ducati per anno. L'osteria del «Cavalletto» trovavasi aperta anche nel secolo XVI, e precisamente nel 1566 veniva condotta da un certo «Brunetto», che in prossimità conduceva un'altra osteria all'insegna del «Leon Bianco».

La «Calle del Cavalletto» chiamasi anche «Calle di Fianco la Chiesa» perché costeggia l'oratorio di S. Gallo.

Avendo messer Bernardo Giustinian q. Lorenzo q. Bernardo, da S. Moisè, confabulato a lungo, appoggiato al «Ponte del Cavalletto», detto anche «Ponte di Campo Rùsolo», con una donna colà presso domiciliata, già fantesca di Nicolò Aurelio, secretario dei X, ed allora maritata con uno scrivano al «Magistrato del Forestier», ed essendo per entrare in casa colla medesima, venne ferito mortalmente, per gelosia, da messer Angelo Bragadin, q. Pietro, il 6 luglio 1515, a tre ore di notte. Strascinatosi il misero fino in «Campo Rusolo», colà cadde, e la mattina fu ritrovato freddo cadavere. Dice il Sanudo: «E' stà acerbissimo e miserando caxo, tanto più quanto» (il Giustinian) «governava la famegia soa e havia optima fama fra tutti. Era bello e savio, ma la faza» (avea) «manzata da varuole; in reliquis ben proportionato. Era in zipon co la scufia in testa, et senza arme». Per tale delitto il Bragadin, citato a comparire e resosi contumace, venne capitalmente bandito il 14 agosto dell'anno medesimo.

Cavalletto (Ramo del) a S. Canciano. Un «Tomio Cavalletto» abitava in parrocchia di S. Canciano nella seconda metà del secolo XVII, ed una «Lodovica fia de Stefano Cavalletto» morì nella medesima parrocchia il 17 ottobre 1750.

Cavallo (Ponte, Calle del) ai SS. Giovanni e Paolo. E' così detto questo Ponte perché chi ne sale i gradini andando verso la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, scorge tosto la statua equestre eretta in onore di Bartolammeo Colleoni bergamasco. Fu questi per 21 anno generale dei Veneziani, e venuto a morte (an. 1475) nel suo castello di Malpaga, lasciò erede di gran parte delle sue sostanze la Repubblica col patto che gli fosse innalzato un monumento in «Piazza S. Marco». Ma essendo ciò proibito dagli statuti, si pensò d'innalzarglielo nel luogo in cui ora si ammira, cioè in «Campo dei SS. Giovanni e Paolo» in faccia alla Scuola Grande di S. Marco. Il suddetto monumento venne modellato da Andrea Verrocchio fiorentino, il quale nel 1488 supplicò il Senato nel suo testamento (scoperto nella Riccardiana di Firenze) a permettere che Lorenzo di Credi suo discepolo conducesse a fine il lavoro. Il Senato, per lo contrario, affidò la fusione del colosso ad Alessandro Leopardi, che lo scoperse al pubblico il 21 marzo 1496, e di suo disegno v'aggiunse il marmoreo piedestallo, fiancheggiato da sei colonne corinzie, e ricco di magnifici ornamenti. Il monumento ebbe un ristauro nel 1831.

Sopra la porta d'una casa al «Ponte del Cavallo» ai SS. Giovanni e Paolo ammirasi un basso rilievo rappresentante l'«Annunziazione». Dice il Moschini ch'egli crede questo lavoro di Giusto Le Court, quantunque altri l'attribuiscano a Melchiorre Barthel.

Parte del «Ponte del Cavallo» cadde nel 1772 in occasione della gran folla accorsa all'esequie del Cancelliere Grande Giovanni Colombo, che si fecero nel prossimo tempio dei SS. Gio. e Paolo.

Cavallo (Corte del) alla Madonna dell'Orto. Il Temanza («Vite dei più celebri Architetti e Scultori Veneziani del secolo XVI») dopo aver parlato della statua equestre del Colleoni, fusa da Alessandro Leopardi, così continua: «Da quel tempo in poi egli si è sempre denominato Alessandro dal Cavallo, e Corte del Cavallo si denomina anche oggidì certa domestica piazzuola presso la Madonna dell'Orto, adiacente alla sua casa di abitazione dove fece quel getto. Anzi nella pietra del pozzo, che rilieva nel mezzo di essa, si vede scolpita l'arma Leopardo, similissima a quella che si vede sul di lui sepolcro nel primo chiostro del vicino monistero della Madonna dell'Orto» ecc. Ora questo pozzo più non esiste.

In «Corte del Cavallo», alla Madonna dell'Orto, nelle case dei Roberti, abitò posteriormente il celebre pittore Paris Bordone («Notifiche del 1566»). Ed è assai probabile che nel medesimo sito «cessasse» di vivere, poiché registrano i Necrologi Sanitarii, sotto il 19 gennaio 1570. M. V.: «M. Paris Bordon d'anni 70 da febre un mese. Visità dal Longhi. S. Marzilian». A questa parrocchia il circondario della Madonna dell'Orto era anche anticamente soggetto.

Cedrera detta Masquadra (Calle) a San Gregorio. Ambidue sono cognomi di famiglia. Un «Antonio Cedrera», ed un «Iseppo Masquadro» abitavano in parrocchia di San Gregorio nel 1740. Della famiglia Masquadro nella stessa parrocchia abbiamo pure memorie posteriori. Un «Antonio Masquadro q. Antonio, nato in Venezia, fruttariol e biavarol, di casa e bottega a S. Gregorio», comparve il 28 decembre 1777 all'uffizio dell'«Avogaria» qual testimonio di Giovanni Zorzi, che chiedeva d'essere approvato cittadino originario. Questo Antonio Masquadro cessò di vivere il 7 agosto 1794, poiché sotto tale data leggiamo nei Necrologi Sanitari: «Antonio Masquadro d'anni 85, infermo e decombente da giorni 27 per una febbre putrido biliosa con disenteria, morì ieri ad ore 24. Med. Boncio. Si sepelirà ad ore 22. Cap. — S. Gregorio».

Cento Pietre (Campiello, Calle delle) ai SS. Gervasio e Protasio. La Descrizione della contrada dei SS. Gervasio e Protasio fatta nel 1713, chiama queste località non «delle Cento Pietre», ma «del Centopiere». Qui, come è chiaro, si tratta d'un individuo così cognominato. Quandunque poi la famiglia Centopiere più non abitasse in quell'anno nell'indicata situazione, pure continuava ad aver stanza in parrocchia, sapendosi dalle Notifiche presentate allora ai X Savii, che un Nicolò Passalacqua appigionava una casa ai SS. Gervasio e Protasio, e precisamente in «Calle di Ca' Lombardo», a «Lunardo Centopiere».

Cesare Battisti (Campo). Vedi Bella Vienna.

Cicogna Emmanuele (Calle). Vedi Trevisana.

Coco detta del Remer (Calle) a S. Maria Formosa. La famiglia Cauca, poscia detta Coco, o Cocco, originaria di Costantinopoli, partì da Durazzo, andò a Mantova, poi venne a Venezia nel secolo X, ove, per aver condotto in tempo di carestia grande quantità di grano, si rese benemerita della Repubblica, e poté formar parte del Consiglio. Un Marin Cocco nel 1172 sottoscrisse il privilegio concesso alla comunità di Bari. Un Nicolò, lasciando l'antico stemma che era una sbarra gialla in campo bianco con quell'uccello nel mezzo volgarmente chiamato «cocal», levò nel 1260 l'altro stemma, delle tre sbarre azzurre in campo bianco, che è simile in parte a quello dei Fieschi di Genova, e ciò fece perché, combattendo, s'impadronì dello stendardo d'un Fieschi, capitano dei Genovesi. Un Giacomo Cocco fu eletto nel 1531 arcivescovo di Corfù, e nel 1565, fondò con testamento il «collegio Cocco» in Padova, nel borgo «Vignali», lasciando cinquemila zecchini affinché col reddito loro si educassero quattro o più giovani. Egli morì nell'anno medesimo, ed ebbe per successore nell'arcivescovato il proprio nipote Antonio. D'altri Cocco, ecclesiastici, militari, e letterati, parla il Cicogna nel volume V delle sue «Inscrizioni Veneziane». Un ramo di questa famiglia, la quale venne ad estinguersi nel 1839, possedeva un piccolo palazzo che ha l'ingresso in «Calle Coco», a S. Maria Formosa, e la facciata sopra il «Rio del Pestrin». Fino dal 1316 trovasi un Daniele Cocco da S. Maria Formosa «Capo di Quaranta». Pell'altra denominazione del «Remer», vedi Remer (Campiello del). Vedi anche Coppo.

Contarini (Calle e Ramo, Corte) a S. Benedetto. Mettono ad un palazzo, che ha un ornatissimo prospetto sul «Rio di S. Luca», di stile lombardesco, e forse opera di Sante Lombardo. Questo palazzo che, come si scorge da alcuni avanzi, era anticamente di stile archiacuto, apparteneva in origine ai Corner. Col progresso del tempo l'ebbero i Contarini, dai quali passò per eredità nei Mocenigo.

Vuolsi che gli Aurelii Cotta di Roma, spediti come prefetti del Reno, dessero origine ai Contarini, così detti quasi «Cotta Rheni», oppure quasi «Conti del Reno». E' indubitato che questa famiglia ritrovossi fino dai primi tempi in Venezia, ove produsse non meno di otto dogi. Domenico, eletto nel 1043, acquistò la Dalmazia, espugnando Zara ribelle, ritolse Grado al patriarca d'Aquileia, e fabbricò la chiesa ed il monastero di S. Nicolò del Lido. Andrea è lodato nelle cronache per la continenza dimostrata nel fatto seguente. Aveva egli ottenuto in gioventù un amoroso abboccamento con una monaca della Celestia, ed era là per venire agli attenti suoi, quand'ecco, vistole brillare in dito un anello, gli venne capriccio di chiederle perché ella, insieme coll'altre monache, costumasse di portarlo. E sentendosi rispondere, essere quello un simbolo delle loro nozze con Cristo, tosto pentissi dell'azione che stava per intraprendere, laonde, colto il pretesto d'aver dimenticato in gondola il portafoglio, s'involò dal convento, e nel corritoio (trascriviamo ciò che dicono le cronache) vide un Crocefisso abbassare il capo in atto di ringraziarlo, ed in visione gli fu predetto il soglio ducale, a cui salì nel 1367, e che illustrò col ricupero di Chioggia, e colla disfatta della flotta genovese nel 1380. Altri dogi Contarini sono celebri, come Nicolò per l'erezione sotto di lui avvenuta nel 1631 del magnifico tempio della Salute, e Carlo per la vittoria riportata nel 1655 dai Veneziani ai Dardanelli. La famiglia Contarini, che si divise in 18 rami, diede il nome a parecchie strade di Venezia. Lo splendore che essa acquistò pegli uomini illustri citati, e per tanti altri, che, sebbene non cinsero il capo del berretto ducale, pure si distinsero nella carriera ecclesiastica, civile, e militare, venne in parte oscurato da quell'Andrea, da altri chiamato Giacomo, decapitato il 21 marzo 1430 fra le due colonne della «Piazzetta», perché, avendo chiesto il capitanato del Golfo, ed avendone riportato un rifiuto, aspettò che il doge Foscari calasse alla chiesa di S. Marco, e lo ferì gravemente sul naso. Da ciò il ramo a cui esso apparteneva venne chiamato «Contarini dal naso».

Contarini (Fondamenta). Vedi Gasparo Contarini.

Contarini Corfù (Calle) ai SS. Gervasio e Protasio. Un altro ramo della famiglia Contarini, della quale dicemmo più sopra, possedeva in questo sito due palazzi uniti, il primo archiacuto, eretto nel secolo XIV, che anticamente apparteneva alla cittadinesca famiglia Ragazzoni, ed il secondo architettato dallo Scamozzi nel 1609. Questo ramo era soprannominato «dai Scrigni» pei varii scrigni che, secondo il Fontana, aveva nel suo palazzo posto nel villaggio di Piazzola. Il palazzo di Piazzola venne fondato dai Carraresi, ma passò nei Contarini in virtù del matrimonio, successo nel secolo XV, fra Nicolò Contarini da S. Cassiano, celebre giureconsulto, e Maria figlia di Giacomo da Carrara, che, collo strumento 24 febbraio 1418, in atti «Giacomo q. Mistro Clemente di Padova», portò in dote al marito i villaggi di Piazzola, S. Angelo, e Sala.

Celebrandosi nel 1524 le nozze di Vienna, nipote al doge Andrea Gritti, con Paolo Contarini, gli sposi, dopo la cerimonia ecclesiastica nella basilica di S. Marco, e dopo solenne banchetto in Palazzo Ducale, montarono, con numerosa comitiva di dame e cavalieri, sul bucintoro, ove s'intrecciarono liete danze, e fra il suono delle musiche, e lo sparo delle artiglierie, arrivarono al palazzo dai Scrigni ai SS. Gervasio e Protasio, adorno dall'alto al basso da tappeti ed arazzi, nelle sale del quale, splendenti per molti lumi, si diede principio ad una splendida festa di ballo.

Quanto all'aggiunto «Corfù», esso potrebbe derivare da una famiglia così cognominata, trovandosi che negli antichi catasti la Calle è semplicemente detta «del Corfù». Nondimeno il defunto cav. Cicogna volle avvisarci per iscritto, essere sua opinione che questo aggiunto invece dipenda da uno dei patrizii Contarini, il quale sostenne la carica di «General d'Armi» nell'isola di Corfù.

Contarini del Bovolo (Calle ecc.). Vedi Maltese.

Contarini o del Botter (Fondamenta) a S. Stin. Dalla Descrizione della contrada di S. Stefano Confessore, o di «San Stin», pel 1713, è qui posta la «casa dominical del N. U. Piero Contarini», e d«el N. U. Abate Camillo Contarini».

Per la seconda denominazione vedi Botter (Sottoportico del).

Coppo (Corte del) o del Forno a S. Luca. Si chiama negli Estimi «Corte di cha Coppo», ed era sottoposta alla parrocchia di S. Paterniano. Fino dal secolo XIII vivevano un «Malgherito Coppo», ed un «Marco» suo figlio «da S. Paternian». Anche nel 1514 i Coppo notificarono ai X Savii di possedere una «casa da statio» in parrocchia di S. Paterniano. Fortunato Olmo scrisse un breve, ma favoloso trattato, ancora inedito, sopra l'indicata famiglia, facendola derivare da Coppeo re della Grecia, i cui discendenti, dopo la guerra Troiana, passarono in Calabria, di là a Roma, quindi a Caorle, ed a Venezia, ove nei primi tempi esercitarono il tribunato, e poscia si resero illustri per un Pasquale nel 1150 abbate di S. Giorgio Maggiore, nel 1156 vescovo di Jesolo, e nel 1171 ambasciatore ad Emmanuele imperatore di Costantinopoli. I Coppo restarono del Consiglio nel 1297, e si estinsero nel 1708.

Pell'altra appellazione «del Forno» vedi Forno (Calle del).

Anche a Castello havvi una «Calle Coppo», detta negli Estimi «di cha Coppo». Una Catterina, vedova di Bartolammeo Coppo dal confin di S. Pietro di Castello, fece il proprio testamento l'ultimo di luglio 1329, in atti di Pietro Foscolo, prete di S. Martino, lasciando la sua casa dominicale di Castello ad un Nicolò Miglioranza, e beneficando il prossimo convento di S. Domenico. Un Antonio Coppo da S. Pietro di Castello era poi confratello della Scuola Grande di S. Maria della Misericordia («Mariegola» dal 1308 al 1499). Questi probabilmente è quell'«Antonius Copo q. Marini de confinio S. Petri de Castello», il quale, con sentenza 5 maggio 1406, venne condannato a 300 lire di multa per aver ferito nella faccia al «Traghetto di S. Gregorio» Albertino di Verga, Priore dell'ospitale di S. Vito.

I Coppo da Castello non erano di sangue patrizio.

Coppo (Corte) a S. Antonino. Leggasi «Coco», o «Cocco» essendoché le Descrizioni della contrada di S. Antonino chiamano questa località «Corte di Cà Coco», e dimostrano che non la famiglia Coppo, ma la Cocco, qui possedeva varie case.

Per tal famiglia vedi Coco detta del Remer (Calle).

Racconta il Sanudo ne' suoi «Diari» un atroce misfatto commesso nelle case dei Cocco a S. Antonino. Una Bernardina colà domiciliata, moglie già da 22 anni di un «Luca da Montenegro, dito zudio», lo stese morto a terra il dopo pranzo del 1° maggio 1521 con replicate ferite sulla testa, e, minacciata la figlia primogenita, piangente pell'avvenuto, seppellì il cadavere sotto una scala coll'aiuto d'un Tommaso suo cugino. Poscia, per dileguare i sospetti, fece capo da un parente dell'ucciso, fingendo d'aver ricevuto da Loreto una lettera che avvisavala, essersi colà recato il marito in pellegrinaggio. Il parente, avendo scritto a Loreto, e conosciuta la falsa lettera, corse a partecipare i proprii sospetti alla giustizia. Tosto dopo Vincenzo Zarla, ospite in casa di Bernardina, a cui essa aveva svelato il proponimento di disotterrare il cadavere del morto per riseppellirlo in luogo più sicuro, denunziò il fatto, che venne confermato dalla figlia, e confessato in seguito dalla donna, la quale ai 3 agosto dell'anno medesimo 1521, fu condotta sopra una «peata» pel «Canal Grande» a S. Croce, gridando un banditore il di lei delitto, tratta poscia a S. Antonino, ove patì il taglio della mano destra, e quella appiccata al collo, posta frammezzo le due colonne della «Piazzetta», ove venne uccisa, e messa a quarti, destinati ad affiggersi nei soliti luoghi. Nota il Sanudo che essa morì «con stento, datoli del cortello nel cuor e nella gola, et tamen si moveva». Nota pure che questo fu il primo esempio di donna squartata in Venezia.

Coralli e Bollani (Calle) a S. Apollinare, presso la «Calle del Perdon». Sospettiamo che qui si lavorassero, o si vendessero coralli, trovandosi nei Necrologi Sanitarii decessa il 5 decembre 1630 in parrocchia di S. Apollinare un'«Ottavia dai Coralli».

Quanto alla seconda denominazione, essa proviene, senza dubbio, dalla patrizia famiglia Bollani, un «Zuane», ed un «Zambatta» della quale notificarono nel 1740 di possedere in «contrà di S. Aponal, in Calle del Perdon», una casa e bottega, appigionata agli «eredi di Simon Bernardo».

Per la famiglia Bollani, vedi Bollani (Fondamenta).

Corner (Calle) a S. Polo. Sorgeva in questa situazione un antico palazzo, che era soprannominato, secondo il Gallicciolli, «del Cagnon», e che, come scrive il Cappellari, venne donato dalla Repubblica nel 1349 a Giacomo da Carrara, signore di Padova. Sorta inimicizia fra Francesco il Vecchio, figliuolo di Giacomo, e fra i Veneziani, questi gli confiscarono il palazzo medesimo, e ne fecero regalo nel 1388 al generale Giacomo dal Verme. Un decreto di quest'anno ha le seguenti parole: «Pro majori honore ipsius domini Jacobi donetur ei domus nostri communis posita in S. Paulo quae fuit quondam d.ni Francisci de Carraria». Morto Giacomo dal Verme, l'edificio passò in mano di Luigi, od Alvise di lui figlio, quindi nel 1439 in quella dell'altro generale della Repubblica Erasmo, o Stefano, da Narni, detto Gattamelata. L'ebbe finalmente nel 1454 Francesco Sforza duca di Milano, dal quale passò in un ramo della famiglia Corner. Una cronaca di famiglie patrizie Veneziane (Classe VII, Cod. 721 della Marciana), scritta nel 1490, parlando del Gattamelata, così si esprime: «Foli donato la casa fo del conte Alvise dal Vermo sul campo de San Polo, et dappoi fo data al conte Francesco Sforza duca de Milan, et hora è in casa de m. Zorzi Corner el cavalier». Questo Giorgio Corner era fratello della celebre Catterina regina di Cipro, ed egli ebbe il palazzo per un cambio successo fra Marco di lui padre, e lo Sforza. Vedi Duca (Corte, Rio del). E' da supporsi che fabbrica così antica dovesse risentirsi frattanto delle ingiurie del tempo, per cui Giovanni Corner, figlio del predetto Giorgio, dopo essere stato nel 1509 ambasciatore all'imperatore Massimiliano, pensò a rialzarla di pianta, commettendo l'opera all'architetto Sanmicheli. Il ramo dei Corner onde si fa parola venne ad estinguersi nel 1799 in un altro Giovanni q. Francesco, che nel 1787 aveva maritato la figlia Laura con Alvise Mocenigo, ragione per la quale il palazzo venne posteriormente dai Mocenigo posseduto. A questo Giovanni Corner si attribuisce la bizzarra idea d'aver convertito l'unico ingresso sul «Campo» nei due attuali uniformi, acciocché per uno passassero i vivi, e pell'altro gli estinti della famiglia si conducessero alla sepoltura.

I Corner, o Cornaro, autori del nome che portano varie delle nostre vie, discendono, come si crede, dai Cornelii di Roma, donde trasmigrarono a Rimini, e quindi a Venezia in epoca rimota. Di essi così parla il Capellari nel «Campidoglio Veneto»: «Fu questa nobilissima casa una delle prime dodici, delle quali venne anticamente composto il corpo della Nobiltà Patritia di Venetia, et così in ogni tempo ha prodotto larga copia di Cardinali, Prelati, Dogi, Procuratori di San Marco, Generali, Senatori, et altri soggetti insigni, che fra tant'altre la rendono chiara e distinta; né mancarono alla stessa gli honori regii, mentre Catterina, figlia di Marco Cornaro, fu coronata Regina di Cipro. Furono poi nella famiglia Cornaro le Signorie e Dominii d'Argo, di Napoli, e altri luoghi della Morea. Hebbe feudo sopra Negroponte, e fu signora dell'isola di Scarpanto, d'Arbe, et della Piscopia, castello nel regno di Cipro, o, come altri vogliono, isola dell'Arcipelago, et in oltre, essendo, per opera di Giorgio Cornaro, pervenuto il regno di Cipro in potere della Repubblica, furono allo stesso donati 14 Casali in quell'isola, chiamati la Commenda Piccola; indi, vacata la Commenda Grande, fu parimenti donata a questa casa con obbligo di conoscere li cavalieri di Rodi» ecc.

Per Caterina Corner, regina di Cipro, vedi Regina (Calle della), e per Elena Corner, donna celebre per dottrina ed innocenza di vita, vedi Memmo o Loredan (Calle).

Corner (Calle) o del Magazen a S. Samuele. La descrizione della contrada di S. Samuele, fatta nel 1713, pone in «calle di Ca' Corner» la «casa propria del N. U. Ger.o Corner fu de ser Gerolamo», aggiungendovi un «bastion da vin, Capo Zuane Martinelli», proprietà del medesimo Corner. Il palazzo Corner guarda colla facciata il «Canal Grande». In esso prese alloggio il 30 gennaio 1484 Leonetto, figlio naturale del duca di Bari, giunto a Venezia con 300 persone di seguito. E nel 1503 vi aveva sede Angelo Leonini, vescovo di Tivoli, e legato apostolico presso i Veneziani.

Nella corte esterna di detto palazzo ammirasi una bella «vera» di pozzo di stile moresco.

Corner Flaminio (Campiello). Vedi Flaminio Corner.

Corner Zaguri (Ponte e Fondamenta) a S. Maurizio. Ebbero il nome dal palazzo Corner, detto per la sua magnificenza la «Ca' Granda», il quale è al termine della Fondamenta, e dal Palazzo Zaguri che è più prossimo al Ponte. Venne il primo fondato da un Bartolammeo Malombra, ricchissimo cittadino Veneziano, che viveva nel 1450, e che perciò era detto «il Malombra da la bella casa». Poscia fu comperato per 22 mila ducati da Giorgio Corner fratello della regina di Cipro. Ma il 16 agosto 1532, mentre n'erano proprietari i figliuoli di esso Giorgio, soggiacque a grave incendio, appiccatosi ad alcune casse di zucchero, presso cui, ad effetto d'asciugarlo, tenevasi nottetempo del carbone acceso. Marin Sanudo, testimonio di veduta, lasciò scritto ne' suoi «Diari» che allora restò in piedi «solum la riva con le colonne». Poco dopo il suddetto palazzo venne rifabbricato sul disegno del Sansovino. Altro incendio patì nel 1817, dopo il quale ebbe novelli ristauri.

Della famiglia Corner, o Cornaro, dicemmo più sopra.

Il secondo palazzo, di stile archiacuto, venne fondato nel secolo XIV dalla cittadinesca famiglia Pasqualini. Ciò viene testificato, oltreché dalle cronache, dallo scudo gentilizio recante la lettera P con tre sbarre sottoposte, visibile tuttora sopra la facciata, e più distintamente sopra l'anello del pozzo nell'interno cortile. Questa famiglia, venuta da Milano, accumulò col traffico di panni di seta molte ricchezze, e mostrandosi appassionata pell'Arti Belle, raccolse nella propria abitazione varii preziosi ritratti di celebri autori, fra cui spiccava quello d'Alvise Pasqualini in vesta di scarlatto, e con nero cappuccio sulle spalle, dipinto nel 1475 da Antonello da Messina. Il palazzo Pasqualini ospitò nel 1496 il principe Giorgio Cernovich, privato de' suoi stati da un suo fratello coll'ajuto dei Turchi, e la di lui moglie, che era figlia di Antonio Erizzo. I Pasqualini ritennero in loro proprietà questo palazzo fino al 1521, 13 luglio, in cui Antonio Pasqualini q.m. Alvise volle alienarlo per 5400 ducati ad Alvise e fratelli Priuli, come dimostra la quietanza fatta da Nicolò Pasqualini procuratore di Antonio, sotto il 13 febbraio 1527 M. V. in atti del veneto notaio Sebastiano Pilotto. Giunto l'anno 1565, parte del palazzo medesimo venne venduto da Giacomo Priuli, nipote di Alvise, a Vincenzo Pellegrini celebre giureconsulto, e fratello di Marina, sposa di Girolamo Zaguri, la qual parte, per disposizione testamentaria di Pietro Pellegrini, secretario dei X, figliuolo di Vincenzo, passò più tardi nella famiglia Zaguri.

L'altra parte nel 1661 era tuttora posseduta da Girolamo Priuli q.m. Francesco, il genealogista, che vi abitava, finché anche essa venne in proprietà dei Zaguri, che nel 1740 poterono dichiarare ai X Savii sopra le Decime di possedere l'intero palazzo.

I Zaguri, nobili di Cattaro, ove anticamente chiamavansi Saraceni, avendo trasmigrato a Venezia, vi furono creati cittadini nel 1504, e nel 1646 salirono agli onori del patriziato. Vantarono alcuni militari di vaglia contro i Turchi, e negli ultimi tempi i due fratelli Pietro I Antonio, e Pietro II Marco. Il primo di essi, nato nel 1733, e morto nel 1806, coltivò con amore gli studi della poesia, ma più quelli delle belle arti, e sopra i disegni di lui rifabbricossi la chiesa di S. Maurizio, ove ebbe sepolcro. L'altro, cioè Pietro II Marco, esperto nelle filosofiche e letterarie discipline, fu assunto nel 1777 alla cattedra vescovile di Ceneda, donde nel 1783 passò a quella di Vicenza. Dopo aver lasciato imperitura memoria delle sue virtù, e specialmente della sua carità verso gli indigenti, morì nel 1810, estinguendosi in lui la famiglia.

Corpus Domini (Campo, Fondamenta del). Lucia Tiepolo, abbadessa del convento dei SS. Filippo e Giacomo in Ammiana, comperato un fondo in questo estremo angolo della città, fabbricò nel 1366 una chiesa di tavole, sacra al Corpus Domini, aiutata in ciò dal mercatante di lana Francesco Rabia, il quale v'aggiunse alcune celle ad uso di convento. Lucia, vestito l'abito di S. Benedetto, con una compagna e due donne secolari, visse in questo ritiro per lo spazio di 28 anni. In seguito, col mezzo del beato Giovanni De Dominici, e le largizioni delle sorelle Elisabetta ed Andriola Tommasini, poté fondare una chiesa più ampia, ed un monastero di religiose Domenicane. La fabbrica incominciata nel 1393, in un anno ebbe compimento. Nei primordi del secolo XV tanto la chiesa, quanto il monastero del «Corpus Domini», restarono mezzo distrutti, per cui nel 1427 Martino V concesse spirituali indulgenze a chi con elemosine concorresse a riattarli. Nel 1440 Fantino Dandolo, poscia vescovo di Padova, fatta demolire la vecchia, eresse una chiesa nuova, che nel 1444 fu consecrata da S. Lorenzo Giustiniani. Sino al 1534 stette il monastero sotto la direzione dei pp. Domenicani, ma da papa Clemente VII fu assoggettato immediatamente alla Sede Apostolica, e nel 1560 da Pio IV sottoposto ai patriarchi di Venezia. Nel 1810 i sacri edifici vennero secolarizzati, e più tardi distrutti.

Decretata da Urbano IV la festa del Corpus Domini nel 1264, adottolla la Repubblica pe' suoi stati con terminazione 31 maggio 1295. Ordinò pure il 22 maggio 1407 che si dovesse fare in quel giorno una solenne processione per la «Piazza di S. Marco», nella qual circostanza ciascun patrizio camminava appaiato ad un pellegrino, e più tardi ad uno dei poveri della città. Anche anticamente la processione sfilava protetta da una tenda, ad ogni palo della quale solevasi innalzare due candele accese. Nelle ore pomeridiane del giorno del Corpus Domini affollatissima ne era la chiesa di gente per assistere all'apertura del solenne ottavario, ed alla esposizione dell'Ostia consecrata, che a tal effetto la Confraternita del Sacramento, detta «Scuola dei Nobili», trasferiva con pompa dalla parrocchiale di S. Geremia. Terminata la funzione, avea luogo sul «Canal Grande» uno di quei corsi di barche, appellati «Freschi», perché in essi si gode l'aura fresca, solita nell'estiva stagione a spirare sull'imbrunire della sera. La processione in Piazza, ed in parte anche il «fresco», conservaronsi fino a questi ultimi tempi.

Abitò nel monastero del Corpus Domini, guardata gelosamente a vista dai bracchi del governo, Zurla, o Carlotta, figliuola naturale di Giacomo re di Cipro. Essa dippoi venne condotta a Padova, ove, circa il 1480, morì, non si sa bene se di peste, o di veleno. Dispiacquero alla Repubblica i regii onori del funerale, e la corona, con cui la povera donna venne sepolta, dovette andar mutata in una ghirlanda d'erbe e di fiori.

Nei magazzini di legne delle monache del Corpus Domini avvenne, secondo il Sanudo, nella notte del 26 decembre 1511 un grave incendio a cagione d'un razzo gettato dall'opposta «Fondamenta della Croce».

Correr (Ponte e Calle, Calle) a S. Fosca. Da Torcello, sullo spuntare del secolo IX, venne in Rialto la famiglia Correr, o Corraro, annoverata nel 1297 dal doge Pietro Gradenigo fra quelle cui spettava l'ereditario diritto d'appartenere al Maggior Consiglio. Rifulse principalmente questa famiglia per le dignità della chiesa. Un Pietro Correr, che fiorì nel 1270, fu arcivescovo di Candia, e patriarca di Costantinopoli. Un Angelo, videsi il primo dicembre 1406, innalzato al soglio pontificio, sotto il nome di Gregorio XII. Beriola di lui sorella, sposatasi ad Angelo Condulmer, fu madre di Gabriele, divenuto anch'egli pontefice sotto il nome d'Eugenio IV, ed ava dell'altro pontefice Paolo II Barbo. Antonio Correr, nipote di papa Gregorio XIII, morì nel 1445 in concetto di santo, essendo cardinale e vescovo di Porto, Ostia, e Velletri. Egli istituì i canonici regolari di S. Giorgio in Alga di Venezia, e nella loro chiesa ebbe sepolcro. Un altro Antonio, dell'ordine dei Predicatori, venne insignito del vescovato di Ceneda nel 1406. Gregorio, nipote del cardinale Antonio, fu eletto nel 1459 vescovo di Vicenza e quindi nel 1464 trasferito al patriarcato di Venezia, ma morì nell'anno medesimo prima di prendere il possesso della sua nuova dignità. Ciò avvenne anche ad un altro Gregorio, destinato nel 1460 da Papa Pio II al vescovado di Padova. Finalmente Antonio Francesco Correr, dopo aver percorso tutti i gradi della milizia marittima, fattosi Cappuccino, restò eletto pur egli patriarca di Venezia nel 1734. Uscirono inoltre da questa casa varii Procuratori di S. Marco, Capitani di mare, Provveditori di Campo, e Rettori di Provincie. Né vuol essere pretermesso quel Teodoro Correr, il quale, morendo nel 1830 legò alla nostra città un suo casamento posto a S. Giovanni Decollato, sopra il Canal Grande, adorno d'una doviziosa raccolta di quadri, statue, libri a stampa, manoscritti, medaglie ecc., e fissò nel tempo istesso buone rendite pel mantenimento di tali oggetti preziosi, costituenti oggi, con altre aggiunte, il patrio Museo. Il palazzo di S. Fosca, che dà il nome alle strade per noi illustrate, venne in proprietà dei Correr soltanto dopo la metà del secolo XVII. Da essi si denominarono varie strade di Venezia.

Correr (Ramo) a S. Marcuola. Vedi Soranzo.

Cristo (Rio terrà, Ramo, Calle, Calle Seconda del) ai SS. Ermagora e Fortunato. Traggono il nome queste località dalla Scuola del Cristo, sorgente quasi in faccia la chiesa dei SS. Ermagora e Fortunato, ed uffiziata un tempo da una confraternita, la quale, fra le altre opere di pietà, esercitava quella di portarsi a raccogliere i corpi degli annegati non conosciuti, per dar loro onorevole sepoltura. Così ne parla il Martinioni nelle sue Aggiunte alla «Venezia» del Sansovino: «L'anno 1635 fu eretta una confraternita del Cristo, e fabbricatovi una cappella chiusa di muri con bellissime ferrate, posta sotto il portico della chiesa» (dei SS. Ermagora e Fortunato), «alla quale sono state concesse molte indulgenze per l'anime dei morti, ed aggregata a quella della Morte di Roma. Poco discosto da detta cappella l'anno 1644 fu dai confrati edificata la scuola in bellissima forma, dove si radunano a' suoi tempi per creare gli officiali di detta confraternita, et per altre occorrenze, e dove conservano le cere, i libri, aste, doppieri, parature, argenterie, et altro. Sopra la porta di questa fabbrica sta scritto: D. O. M. Scuola Del Santissimo Crocefisso Aggregata A Quella Della Morte di Roma Fondata L'Anno 1644».

Cristo (Corte del) alle Terese. Da un'altra confraternita del Cristo, che soleva raccogliersi nel prossimo stabile al N. A. 2220, ora rifabbricato, e che aveva il compito di dispensare elemosine e soccorsi ai poveri della contrada. Il «N. U. Francesco Priuli fo de s. Lunardo» appigionò questo stabile alla confraternita con istrumento 15 luglio 1707, in atti G. Antonio Mora N. V., e poscia nel 1733 glielo concesse a livello coll'obbligo di corrispondergli annui ducati 18.

Cristo (Calle del) a S. Sofia. Vedi Carmini (Ponte dei). Da imagini del Crocefisso presero il nome altre vie della città.

Cristo (Calle del) a S. Cassiano. Leggasi invece «Calle dei Cristi», come negli Estimi, e nel Gallicciolli, il quale scrive in tal forma: «Ivi stava un fabbricatore di Cristi da cui prese la denominazione. Nel libro dei Riceveri della Scuola del SS. 1658 si trova — Ricevo io Iseppo Lion fà Cristi a San Cassan. — Ed in una carta del 1703 nel nostro catastico — Domino Antonio filio D. Josep. Lioni artifice Cristorum in confinio S. Cassiani. —» Anche fra i testimoni che il 26 aprile 1700 furono citati alla «Avogaria» per deporre sul conto d'un Francesco Pedrinelli, che voleva provare la propria civiltà per essere ascritto alla cittadinanza originaria, entra un «Iseppo Leoni dai Cristi a S. Cassan, in Calle di Cristi».

Croce (Sestiere, Fondamenta, Rio, Ponte della). Agli abitanti del vicino continente, che, all'invasione dei Longobardi, si rifuggirono in queste isolette, s'attribuisce la fondazione della chiesa di S. Croce. Alcuni ne danno il merito in ispecie ai Mastropiero, poscia Malipiero; altri, più fondatamente, ai Badoaro. Obelalto Massimo, primo vescovo d'Olivolo, eletto nel 774, consecrò questa chiesa, e la eresse in parrocchia. I Badoaro ne conservarono il juspatronato fino al 1109, in cui la cessero alla celebre congregazione Cluniacense di S. Benedetto, che vi fabbricò accanto un monastero, e lo possedette pello spazio di oltre due secoli. Essendosi frattanto dati questi monaci ad una vita alquanto rilassata e scandalosa, talmente s'attirarono addosso lo sprezzo e la malevolenza del popolo che giudicarono opportuno di ritirarsi dal chiostro verso la metà del secolo XIV. Allora il collegio capitolare dei preti, il quale, anche durante il soggiorno dei monaci, aveva la cura delle anime, assunse l'amministrazione della chiesa, che fece rifabbricare, e nuovamente consecrare il 28 settembre 1342. In seguito il priorato, lasciato in abbandono dai Benedettini, si ridusse a commenda, di cui papa Urbano VI investì nel 1378 il cardinale di S. Angelo. Eugenio Memmo, uno dei susseguenti priori commendatarii, permise nel 1460 a due eremite, Sofia Veneziana, ed Agnese Ungara, d'erigere presso la chiesa della Croce due povere cellette, dal qual principio venne a formarsi nel 1470 una nuova religiosa comunità, che professò da prima il terzo ordine Serafico, e poscia il secondo, detto di S. Chiara, ed alla morte del priore Memmo ottenne, per disposizione di Sisto IV, la chiesa della Croce coll'annesso monastero. Scorsi alquanti anni, questa chiesa, corrosa dal tempo, minacciava rovina, sicché fu rinnovata sul finire del secolo XVI, e riconsecrata il 10 luglio 1600 da Ottavio Abioso vescovo di Pistoja. Nel frattempo si tolse il monastero alla soggezione dei Minori Osservanti, a cui era stato sottoposto nel 1477, ed affidossi nel 1594 alla cura dei patriarchi. Nel 1806 esso venne dichiarato di prima classe, e nel 1807 vi si concentrarono le monache di S. Chiara. Nel 1810 chiesa e monastero furono soppressi, e convertiti ad uso di magazzino. Finalmente ai nostri giorni si demolirono, e sopra quell'area ora stendesi il vago giardino Papadopoli, che innestata al suo muro di cinta ha un'antica colonna di granito orientale, cui sta sovrapposto un capitello di marmo greco, avente scolpito un monogramma, consimile a quelli che veggonsi scolpiti sopra i due stipiti isolati presso la porta del battisterio della basilica di S. Marco. Siccome poi questi due stipiti furono recati nel 1256 da Tolemaide, così attribuirebbe il Cicogna una medesima provenienza sebbene in tempo diverso, alla colonna in discorso, ed accennerebbe alla possibilità che essa fosse un avanzo del monumento di Domenico Morosini, che nel 1124 battagliava in Soria col doge Michiel, e che in chiesa della Croce venne sepolto, oppure del monumento del doge Orio Mastropiero, tumulato nella chiesa medesima, sotto cui i Veneziani s'impadronirono di Tolemaide (anni 1188-1190). Crede il Mutinelli che precisamente innanzi a questa colonna si traessero sotto la Repubblica i rei di gravi delitti prima di subire l'estremo supplizio, per essere col taglio della mano, od in altra maniera, pubblicamente tormentati.

Croce (Fondamenta, Calle e Ramo, Ponte, Rio, Campo, Ramo e Campiello al Rio, Fondamenta Rio, Campiello della) alla Giudecca. Affatto ignoti ci sono i principii del monastero di Benedettine che sorgeva alla Giudecca sotto il titolo di Santa Croce. La prima menzione che di esso troviamo è un documento del 1328 in cui dal Maggior Consiglio concedevasi ai privati parte delle paludi adiacenti per renderle abitabili. A questo monastero, con bolle speciali e delegazioni pontificie d'Eugenio IV nel 1439, e di Sisto IV nel 1471 e 1474, unironsi la chiesa di San Cipriano di Sarzan, di S. Felicita di Romano e di S. Giorgio di Calstelfranco, nonché il convento di S. Domenico di Tuscolano, e quello di S. Angelo di Contorta. Nel 1508 la chiesa di S. Croce incominciossi a rifabbricare, e, compiuta in un settennio, consecrossi nel 1515 da Antonio Contarini patriarca di Venezia. Soppresse le monache nei primordii di questo secolo, il monastero venne convertito in Casa di Correzione, e la chiesa destinata al privato uso dei delinquenti in quello stabilimento rinchiusi.

Abadessa in S. Croce della Giudecca fu Suor Eufemia Giustiniani, che morì il 6 decembre 1486. Sotto la sua reggenza la peste, che nel 1464 infierì in Venezia, entrò pure nel monastero della Croce, e, spente quattro monache, stava già per condurne al sepolcro una quinta, quando suor Scolastica, portinaia, vide un bel dì comparire alle grate un cavaliere, il quale le domandò una tazza di acqua e, confortandola nella fede in Dio e lodando i meriti dell'abadessa, assicurolla che d'allora in poi nessun'altra monaca sarebbe soggiaciuta al morbo fatale. Non si sa il perché, il cavaliere fu battezzato per S. Sebastiano, e pozzo di S. Sebastiano chiamossi quello donde fu attinta l'acqua per porgergli da bere. L'acqua di questo pozzo venne riputata poi miracolosa e, come corse fama, produsse numerose guarigioni anche nella peste del 1576.

Croce (Calle della) a San Simeon Grande. Le venne il nome da una croce, scolpita sopra l'arco d'ingresso, alla quale è aggiunta un'iscrizione indicante che questa via, formata da case già possedute dalle nove Congregazioni del Veneto clero, si aprì al pubblico passaggio il 13 agosto 1578. Perciò in qualche antica pianta di Venezia la troviamo denominata «Calle del Clero».

Croce (Calle della) in «Birri», a S. Canciano. E' chiamata nella Descrizione della Contrada di S. Canciano pel 1661 «Calle delle Croci», e nelle notifiche del 1797 «Calle delle Tre Croci». Dipendono queste denominazioni dall'aspetto che rende la calle medesima intersecandosi con altre vicine.

Cadena (Calle) ai Gesuiti.

Cadonici. Vedi De Cadonici.

Caffettier (Corte del) a S. Marco. Eravi qui presso una caffetteria, ora ridotta a spaccio da vino, frequentata negli ultimi tempi della Repubblica da varii patrizii, i quali, reduci in gondola dal Maggior Consiglio, andavano, come suona la fama, a deporre la vesta d'uffizio, ed a reficiarsi in una camera sovrapposta. Fortissime erano le partite di giuoco che si facevano in questo Caffè, laonde il Ballerini, nelle sue «Lettere» manoscritte al Civico Museo, così si esprime: «Il Caffè al Ponte dell'Anzolo è ridotto per metà casino privato, e colà si gioca tutta notte». Tenendosi nel Caffè medesimo una sera certa riunione di patrizii Barnaboti, malcontenti del governo, ed infetti da giacobinismo, presieduta dal famoso procuratore Pisani, presentossi d'un tratto colà Cristofolo dei Cristofoli, terribile fante dei Cai, e parlò al Pisani, che la notte andò a dormire alla Giudecca, e la mattina dietro era in viaggio pel castello di Verona.

Il Caffè al «Ponte dell'Angelo» va celebre eziandio per esservi morto nel 1792 il così detto «Cane Tabacchino». Vedi l'opuscolo intitolato: «Elogio del Cane Tabacchino morto al Caffè del Ponte dell'Angelo il dì 27 Aprile 1792. Opera di Onocefalo Cinoglosa» (Vincenzo Formaleoni) «adorna del ritratto dell'eroe. Venezia MDCCXCII». Il suddetto opuscolo è rarissimo, poiché, essendo una parodia dell'orazione funebre di Ubaldo Bregolini in morte di Angelo Emo, vennero, per ordine supremo, il 12 maggio 1792, confiscate quante copie se ne poterono rinvenire nella tipografia Zatta.

Si trova che il primo scrittore italiano che abbia nominato il caffè fu G. Francesco Morosini, bailo a Costantinopoli dal 1582 al 1585, e che il caffè vendevasi a Venezia nel 1638 a prezzo altissimo come pianta medicinale importata dall'Egitto. Trentotto anni più tardi, cioè nel 1676, il Senato incaricava i Savii alla Mercanzia di occuparsi della maggior rendita che si avesse potuto ritrarre, non per via d'appalto, ma in altra maniera, sulla «abbondante vendita introdotta del caffè, giacci, et acque aggiacciate che sono inventate dall'allettamento del senso». Si ha memoria che nel 1683 si beveva il caffè in una sola bottega sotto le «Procuratie Nuove». Ma ben presto siffatte botteghe, a merito specialmente dei Grigioni, si moltiplicarono in modo da dar il nome a varii sentieri della nostra città. Leggiamo nei «Notatori» del Gradenigo che Antonio Bresciani, caffettiere in «Campo della Guerra», fu il primo nel 1720 ad ingrandire le tazze da caffè facendole pagare non più due soldi, ma cinque. Vi concorrevano in copia i gentiluomini, e vi furono invitati anche principi, come Federico Augusto elettore di Sassonia, poi re di Polonia, e Carlo elettore di Baviera. Nel 1723 Giuseppe Boduzzi aprì la bottega dell'«Aurora» sotto le «Procuratie Nuove», ove i vasellami, i piatti e piattelli erano d'argento massiccio, e servivasi il caffè in bella porcellana.

Quantunque le nostre caffetterie fossero da principio basse, disadorne, malissimo illuminate, e perfino mancanti di vetri a schermo delle intemperie, riboccavano, specialmente quelle situate sul S. Marco, di gente e di maschere. Alcune di esse poi avevano certi camerini appartati, nei quali talvolta, oltre che al Dio del Giuoco, sacrificavasi a Volupia e Citerea, camerini, che a più riprese vennero proibiti dalla Repubblica.

Tra i nostri Caffè (che per legge 4 ottobre 1759 non dovevano sorpassare il numero di 206) andava celebre quello in «Merceria di San Giuliano», che alquanti anni fa trovavasi riaperto alla insegna del «Trovatore», il quale, per essere condotto da un Menico, uomo grande e grasso, chiamavasi di «Menegazzo». In esso frequentavano il pungente Baretti, ed il suo avversario prete Biagio Schiavo da Este. In esso il patrizio Daniele Farsetti con varii allegri amici, dopo avere ascoltato nel 1745 fra le risa e le beffe i versi scipiti dell'altro prete Giuseppe Sacchellari, statuiva di fondare l'accademia dei «Granelleschi», eleggendone a principe, col titolo di «Arcigranellone», il Sacchellari medesimo. Oltre il Caffè di «Menegazzo», avevano pure una parte di rinomanza i due Caffè non lontani d'«Ancillotto» e dei «Secretarii», il primo per essere stato anch'esso frequentato dal Baretti, ed il secondo, tuttora aperto, come ritrovo dei celebri secretarii Milledonne, Gratarol e Gabriel, ultimo Cancellier Grande. Aggiungi il «Caffè delle Rive» in «Campo S. Moisè», ora occupato dalla ditta Tropeani, ed il «Caffè Florian», aperto fino dal 1720 coll'insegna della «Venezia Trionfante», ove concorreva, anche per lo passato, quanto aveavi di più eletto fra nostrali ed estranei. Né vuolsi tralasciare, per ultimo, il Caffè che chiamavasi del «Gobbo», ora «Caffè Dante», posto in «Calle dei Fuseri», nel quale si raccoglieva all'epoca democratica un drappello di colte persone, scherzando sulla «falopa», o bugia, del promesso tempo felice, onde ne sorse, a merito dell'abate Giuseppe Comici, il Faloppiano collegio, esistente ancora in «Calle Bembo» a S. Salvatore.

Cagnoletto (Calle del) a S. Giovanni in Bragora. La Descrizione della contrada di S. Giovanni in Bragora pel 1661 chiama questa strada «Calle arente il spizier del Cagnoletto», ed insegna che all'imboccatura di essa, sopra la «Riva degli Schiavoni» esisteva la «casa e bottega propria della Sig.ra Franceschina relita del Sig.r Girolamo Lunardi spicier dal Cagnoletto».

Una «Calle Larga del Cagnoletto» (nel Paganuzzi: «Calle Cagnoletta detta Larga») abbiamo anche a S. Giovanni Grisostomo, ma questa, come sembra, porta il nome d'una famiglia che qui più modernamente abitava.

Calbo (Campiello) alla Carità. Dalla patrizia famiglia Calbo che notificò nel 1711 e 1740 d'abitare in casa propria alla Carità, e di possedere alcune altre casette vicine. Da Padova la famiglia Calbo passò fra noi nell'891, dando antichi tribuni, e rimanendo del Consiglio nel 1297. Un Luigi Calbo, capitano di Negroponte nel 1470, rimase ucciso combattendo contro i Turchi. Un Antonio, consigliere in Candia nel 1539, dimostrò grande valore nel respingere i Turchi medesimi colà sbarcati. Anche ai nostri tempi questa famiglia si rese chiara per un Francesco, figlio di Giovanni Marco Calbo, e della N. D. Lucrezia Crotta. Egli, che, per disposizione testamentaria di suo zio materno, aggiunse al proprio il cognome Crotta, sostenne sotto la Repubblica l'ufficio di Savio Cassiere, e poscia fu quarto Podestà di Venezia. Morì nel 1827 lasciandoci un lavoro per servire alla storia degli ultimi otto anni della Veneziana Repubblica.

Calcina (Ponte, Campiello della) sulle Zattere. E' chiara la origine di queste denominazioni qualora si consideri che il Ponte di cui parliamo attraversa il Rivo di S. Vito, e che nella collezione fatta dal Rompiasi delle leggi appartenenti al Magistrato delle Acque trovasi la seguente: «Sia trasportata la stazione delle pietre cotte e della calcina, che era in faccia gli Incurabili, appresso il rio di S. Vito. 1690, 12 maggio». Inoltre, dice il Sagredo nel libro intitolato: «Sulle Consorterie delle Arti edificative in Venezia», che qui presso esistevano i magazzini dei «Calcineri» (venditori di calce).

L'arte dei «Calcineri» raccoglievasi nella chiesa dei Ss. Vito e Modesto sotto l'invocazione dei Ss. Antonio e Liberale. Quantunque di detta arte abbiansi memorie più antiche, egli è certo che diede principio alla propria scuola nella chiesa indicata soltanto nel 1597, come appare dalla seguente annotazione tratta dai registri della sacrestia: «1597. Adì 17 Zener. A laude de Iddio e Missier Santo Antonio, e Missier S. Liberal, che ne libera da mal, fu principiada questa nostra Scuola nel giorno di santo Antonio Abbate, nostro gonfalon fo primo eletto». La surriferita annotazione si può leggere nel «Sommario» unito al «Memoriale di Monsignor Patriarca di Venezia e Vescovi Suffraganei per la conferma ed Augmento del culto della Beata Contessa Tagliapietra» ecc. diretto a papa Clemente XIII, ed impresso in Venezia da Modesto Fenzo nel 1765. Ciò a proposito della pretesa accampata nel 1661 dall'arte dei «Calcineri» di custodire essi soli il corpo della Beata, che giaceva sotto la mensa del loro altare, pretesa che diede luogo ad una controversia col parroco, finita col temperamento che si ponessero due chiavi alla cassa, una delle quali si custodisse dal parroco, e l'altra dal gastaldo della scuola.

Presso il «Ponte della Calcina», come appare da lapide, abitava Apostolo Zeno, poeta cesareo e precursore del Metastasio. Egli morì in questa sua casa nel 1750. Abbiamo nei Necrologi Sanitari: «A dì 11 novembre 1750: Ill.mo Sig.r Apostolo Zen fu del Ill.mo Sig.r Pietro, d'anni 83, da replicati colpi di paralisia in molti mesi, morto a ore 15, med.co Soardi - S. Agnese». Lo Zeno venne sepolto con onorevole epitaffio in chiesa di S. Maria del Rosario, ai padri Domenicani della quale aveva donato, essendo ancora in vita, la sua ricca biblioteca.

Calderer (Calle del) a S. Marziale. La Descrizione della contrada di S. Marziale fatta nel 1713 nota in questo punto la «bottega da calderer e casa della N. D. Andrianna Gozzi: habita che sono 12 anni Ercole Ongania calderer».

I Calderai, uniti in corpo nel 1294, erano un colonnello dei Fabbri, e raccoglievansi in chiesa di S. Luca, sotto l'invocazione di S. Giovanni Decollato, ove aveano tomba, comprendendo nell'arte loro l'altra minore dei «Lavezzeri», o «Conzalavezzi». Quattro calderai dovevano andare in Piazza a vendere le loro mercatanzie al tempo della fiera dell'Ascensione, ma chi ricusava n'era dispensato, pagando tre ducati alla Scuola. Il rame provvedevasi dal Magistrato delle Miniere; gli stagni, i piombi, e generalmente i minerali, dai negozianti.

La denominazione è altrove ripetuta.

Calegheri. Vedi Callegheri.

Calergi (Calle). Vedi Caliari.

Caliari (Calle) sulla «Fondamenta degli Ormesini». Non «Caliàri», ma «Calèri», corruzione del cognome Calergi, viene denominata questa calle negli Estimi, e si ritrova che in essa nel 1661 possedeva varie case il «N. U. Abate Vittore Grimani Calergi». Egli era figlio di Vincenzo Grimani, della cui famiglia parleremo a suo luogo, e di Marina Calergi, discendente da ricca famiglia di Candia, la quale lottò lungamente colla Repubblica pell'indipendenza della patria, finché nel 1258 assoggettossi al Veneto dominio. Alessio Calergi si vide perciò ammesso coi discendenti al Maggior Consiglio, e giunto a morte, prescrisse solennemente ai propri figli obbedienza al vessillo di S. Marco. Tre di essi si attennero al comando paterno, ma non il quarto di nome Leone, che ribellatosi, fu nel 1300 cucito in un sacco, e gettato in mare. Per lo stesso titolo venne ucciso un Evagora Calergi nel 1330, gettato dall'alto del palazzo un Carlo nel 1364, mentre i soldati stavano pronti a riceverlo sulla punta delle spade, e decapitato un Giovanni coi fratelli Alessio e Giorgio. Avendo tuttavia un altro Giorgio soccorso poco tempo dopo la Repubblica nella guerra contro i Genovesi, ebbe anch'egli nel 1381 coi posteri l'onore del patriziato. Questa famiglia, la quale, secondo alcuni, avrebbe avuto fra i suoi ascendenti un Michele eletto nel 1332, vescovo di Venezia, e la quale operò belle prove di valore contro i Turchi alle Curzolari, a Paros, ed ai Dardanelli, andò estinta nella seconda metà del secolo XVIII. Vincenzo Grimani, pel suo matrimonio con Marina Calergi, avvenuto nel 1608, ne ereditò i beni, e fu causa che tutta la sua linea assumesse il cognome di Grimani Calergi. Vittore di lui figlio nominato nel principio del presente articolo, fu investito nel 1629 dell'abazia di Moggio, quindi nel 1639 di quella di Rosazzo, e nello anno istesso di quella di S. Zeno in Verona. Avendo costui, d'accordo coi fratelli Giovanni e Pietro, fatto uccidere nel 1658 Francesco Querini, venne colpito coi fratelli medesimi da sentenza capitale di bando, perdita della nobiltà, e confisca di beni. Senonché nel 1660, mediante preghiere ed offerte, ottennero tutti piena grazia dalla Repubblica. Vedi Vendramin (Calle larga ecc.).

Raccontano i «Diarii» manoscritti del Benigna che il 20 maggio 1737, di notte, fu ritenuto un frate dei Minori Osservanti, il quale, vestito da barcajuolo, aveva levato di casa in «Calle Calergi», e condotto in gondola a S. Andrea, la Sig.ra Bisi dai «conzieri», ove voleva derubarla degli oggetti d'oro che portava addosso.

Calice (Calle, Sottoportico e Corte del) a S. Salvatore, presso la «Calle dei Stagneri». Da una bottega all'insegna del «Calice», la quale colla parte anteriore guardava la «Merceria», ove s'addrizza alla «Calle delle Acque», e colla posteriore corrispondeva alla Corte che tuttora ne porta il nome. Fino dal 1537 noi troviamo che «Zuan Andrea Venier» dava a pigione casa e bottega poste a S. Salvatore, presso la «Calle dei Stagneri», a «M. Jacopo marcer al Calese». E nel 1582 «Bartolomeo de Batista Bontempelli, marcer al Calese», notificava d'abitar coi figliuoli «in contrà di S. Salvator in le case» del M.co Jeronimo Venier. Anche adesso all'imboccatura della Calle del Calice scorgesi l'arma dei Venier scolpita sul muro. Questo Bartolommeo Bontempelli bresciano, a cui fu concesso un privilegio di cittadinanza Veneziana il 31 marzo 1579, tiene un posto distinto nelle patrie memorie non tanto perché le di lui manifatture venivano ricercate dai principi, e ne usava lo stesso Sultano, quanto perché, insieme al fratello Grazioso, edificò in chiesa di S. Salvatore, nella crociera verso il battistero, un altare con tavola del Peranda, la quale rappresenta Gesù Cristo morto, sostenuto dalla Beata Vergine, e al disotto i ritratti dei due pietosi fondatori. Inoltre ristaurò a proprie spese la chiesa delle Convertite alla Giudecca, e poscia sborsò 30 mila ducati per la fabbrica dello Spedale di S. Lazzaro dei Mendicanti in Venezia, lasciandone 100 mila al medesimo scopo con testamento 12 febbraio 1613 M. V. in atti Fabrizio Beaziano. Egli morì pochi anni dopo, come rilevasi dalla seguente annotazione, tratta dal necrologio della chiesa di S. Salvatore: «A dì 8 novembre 1616. Bortolomio dal Calice d'anni 78 circa da febre per giorni 44 continui. Visitato dallo ecc. Gadaldino». Il Bontempelli fino dal 1568 si aveva costrutto in chiesa di S. Salvatore la tomba colla modesta epigrafe: Bartholamei Bontempelli A Calice Et Haeredum Mdlxviii. Collo scorrere del tempo, la di lui bottega divenne da speziale, ritenendo però la vecchia insegna, poiché scorgesi nella Descrizione della Contrada di S. Salvatore pel 1661 che in «Marzaria», non lungi dalla «Calle dei Stagneri», e precisamente «appo cha Zustinian» (quindi palazzo Faccanon), «Marchiò Brochini spicier al Calese» aveva casa e bottega appartenenti al «N. U. Nicolò Venier».

Una bottega da speziale all'insegna del «Calice» diede pure il nome alla «Calle», ed al «Ramo Calle del Calice» a S. Agostino, le quali strade, per mezzo d'un ponte egualmente cognominato, avevano comunicazione, prima dell'interramento del rivo, colla «Calle del Scaleter». Quando nel 1684 «Paolina Airoldi Marchesini» chiese d'essere abilitata a «collocarsi in persona nobile, et a procrear figli capaci del Ser. Consiglio», venne citato all'ufficio dell'«Avogaria di Comun», qual testimonio, «Ant. Sarcinelli spicier al Calice a S. Agostino». E si vede nella Descrizione della contrada del 1713 che la bottega del Sarcinelli era situata precisamente appiedi del «Ponte del Calice», all'imboccatura della «Calle del Scaleter».

Calle. «Calle», dice il Berlan, «è voce italiana, usata da Brunetto e da Guittone, fra gli altri, anche nel genere femminino, come usasi nel dialetto veneziano: e appo noi si dà a quelle strade interne che sono più lunghe che larghe».

Ove in uno stesso punto vi sono due Calli del medesimo nome troviamo «Calle Prima, Calle Seconda», ecc. Troviamo pure «Calle a fianco, Calle dietro», ecc. Tutto ciò si verifica anche riguardo a «Corte, Ramo», ecc.

Callesella. E' una calle più angusta e ristretta delle altre.

Calleselle (Strada nuova delle) in «Ghetto Novissimo». Qui si stendevano alcune callicciuole, ma negli anni andati formossi una strada novella coll'atterramento di alcune casipole, possedute da un Fano Israelita. Ecco perché sotto la denominazione di «Strada delle Calleselle» havvi l'altra di «Via Fanese».

Un «Sottoportico Calleselle» trovasi pure a «Castello», presso il «Secco Marina».

Camerale (Sottoportico del) a Rialto. Nel soprastante palazzo, facente parte delle «Fabbriche vecchie», ebbe sede fino all'agosto 1849 il Magistrato Camerale. Ora v'hanno sede altri pubblici Uffizi.

Camerini (Calle) a S. Nicolò. Una casa posta qui presso, posseduta da un «Zuane Guerra», era abitata nel 1712 da un «Gregorio Camerin».

Campanati (Ramo) a Castello. Non «Campanati», ma «delle Campane», trovasi appellata questa strada nella Descrizione della parrocchia di S. Pietro di Castello pel 1661. Si deve credere adunque che qui ci fosse altre volte una fonderia di campane. Siccome poi alcuni fonditori di campane assumevano, pell'arte esercitata, il cognome di «Campanati», e questo restava ai loro posteri, benché di professione diversa, così potrebbe essere che dagli antichi proprietari dell'anzidetta fonderia discendessero quel «Daniel Campanato marangon dell'Arsenal», e quel «Piero fio de Stefano Campanato calafà», decessi in parrocchia di S. Pietro di Castello, il primo l'11 febbraio 1612, M. V. ed il secondo il 25 agosto 1621. Troviamo anche che il 25 giugno 1771 un «Lorenzo Campanato marangon dell'Arsenal», appiccossi nella sua casa d'abitazione posta a Castello.

Pell'arte dei «Campaneri» vedi l'articolo susseguente.

Campane (Corte delle) a S. Luca. Un «Vittore campaner» da S. Luca era allibrato all'Estimo del Comune nel 1379. Nel 1514 un «Zuane Campanato» notificò di possedere «una casa cum una bottega dove si lavora di campane» in parrocchia di S. Luca. Questi fu il padre di Pietro, che pur egli fondeva campane in questa situazione, e che si rese celebre eziandio per aver operato in bronzo nella cappella del cardinale Zeno in chiesa di S. Marco una B. Vergine seduta col putto in mano, e due Santi laterali, nonché per aver avuto parte nel lavoro del deposito del cardinale medesimo. G.B. Campanato figlio di Pietro (sepolto nel 1542, con epigrafe in chiesa di San Sebastiano) prese in moglie Elisabetta figlia di Ruzier di Gambelli, e nipote del celebre Vittore, dalla quale ebbe Marina, che sposò Francesco Arzentini, portando in questa cittadinesca famiglia i beni dei Campanato. Vediamo perciò che nel 1582 un «Francesco Arzentini» appigionava a «Francesco de Lazaro campaner», in parrocchia di S. Luca, «una casa con il luogo dove si gettano le campane, e con la botega davanti di dete campane».

Fino dal nono secolo esistevano fonderie di tal genere nelle nostre lagune, sapendosi che il doge Orso Partecipazio nell'866 donò dodici campane all'imperatore Basilio il Macedone. Questi mandò un suo apocrisario a riceverle, e d'allora soltanto cominciò ad introdursi l'uso delle stesse fra i Greci Bisantini. I Veneziani amarono sempre un eccedente scampanìo. Domenico Tino, presente all'elezione del doge Domenico Selvo (anno 1071), scrive che in quell'occasione vi fu un indicibile fracasso di campane: «Quam magnus etiam campanarum tum fuerit sonitus nullius dicti vel scripti expositione animadverti potest». Si rileva poi che in tempi posteriori, sotto il pretesto di feste, messe novelle, ed altre solennità, si costumava di dar nelle campane non solo di giorno, ma anche di notte inoltrata, laonde un decreto del Consiglio dei X, 7 febbraio 1424, M. V., proibì di suonarle «a prima hora noctis usque ad matutinum sancti Marci». Che un simile decreto potesse convenire anche ai nostri tempi?

I «Campaneri» erano uno dei varii colonnelli in cui dividevasi l'arte dei Fabbri.

Nel secolo XV un Luigi Barletta incontrò in «curia a Campanis» a S. Luca pre' Filippo, vicario del vescovo di Concordia, e gli disse: «che vastu digando de mi?» A ciò il prete: «Va cum Dio che non ho a far con ti». Ma il Barletta, sguainata la spada, uccise il prete, e resosi contumace, venne bandito, mediante sentenza 27 marzo 1487, colla comminatoria che, qualora fosse colto, gli fosse tagliata la mano sul luogo del delitto, e con essa appesa al collo, avesse ad essere decapitato fra le colonne della Piazzetta di S. Marco.

Campaniel. Vedi Campanile.

Campazzo. La «parola campazzo», dice il Berlan, «non è, come di leggieri si può vedere, che corruzione dell'italiana campaccio», usata a significare, più che l'ampiezza d'un terreno, la sua «spiacevole disadornezza».

Alla Giudecca havvi il «Campazzo di Dentro», sì detto per essere alquanto internato nell'isola.

Campiello. E' corruzione di «campicello» cioè piccolo campo.

Campo. Era ben naturale che i nostri padri lasciassero innanzi le chiese uno spazio vuoto per la concorrenza del popolo che frequentava le sacre funzioni. Queste piazze, eccettuata quella di S. Marco, si dissero «Campi», perché, essendo nei primi tempi piantate d'alberi, e lasciandosi in esse crescere l'erba per pasturare i cavalli, le mulette, ed il gregge minuto, ai campi rassomigliavansi. Il «Campo di S. Andrea» si conserva ancora nel suo stato primitivo, meno il canale che gli correva per mezzo, interrato fino dal secolo XVI. Molti poi dei nostri campi sono celebri per istoriche rimembranze. In «Campo di S. Severo», presso la chiesa, ritirossi colla moglie nell'814 Giustiniano figlio del doge Angelo Partecipazio, sdegnato col padre che aveasi associato al solio il figlio minore Giovanni. In quello di S. Pietro di Castello nell'837 la famiglia Mastelizia, poscia Basegio, assalì il suddetto Giovanni Partecipazio, successo nel principato a Giustiniano, e rasigli i capelli e la barba, lo condusse vestito da monaco a Grado. In «Campo di S. Zaccaria» venne ucciso nell'864 il doge Pietro Tradonico. In «Campo di S. Luca» dai fratelli della Carità, e dalla Scuola dei Pittori, terminavasi di sgominare nel 1310 i congiurati di Baiamonte Tiepolo. In «Campo dei SS. Giovanni e Paolo», nell'atrio della cappella della Pace, fu sepolto il doge Marino Faliero, giustiziato nel 1355, e nel 1782 il pontefice Pio VI, dall'alto di maestosa loggia, benedì le turbe. In «Campo di S. Geremia» davasi lo spettacolo delle caccie dei tori, come praticavasi pure nei campi di S. Giovanni in Bragora, S. Maria Formosa, S. Giacomo dall'Orio, S. Margherita, S. Polo, e S. Stefano. In «Campo di S. Polo» abitarono pure varii illustri personaggi in un palazzo del Comune, posseduto poscia dai Corner, ed eravi anticamente un bersaglio rimosso dopo che i nobili colà domiciliati concessero nel 1452 le loro case per albergare Alberto duca d'Austria colla sua corte. Più tardi, cioè nel 1548, vi fu ucciso Lorenzino dei Medici collo zio Alessandro Soderini. Leggesi poi che il «Campo di S. Stefano», oltre che delle caccie dei tori, era teatro di giostre, e che vi si faceva l'antico «listone».

Di queste, ed altre particolarità, riguardanti i Campi di Venezia, diremo più diffusamente a suo luogo.

Canalazzo. Vedi Grande (Canal).

Canale. E' nome applicato soltanto ad alcuni rivi maggiori. Abbiamo quindi il «Canal Grande», il «Canal della Giudecca», e qualche altro.

Candele (Sottoportico, Corte delle) ai Gesuiti. E' probabile che in questa Corte, soggetta anticamente, come adesso, alla parrocchia dei SS. Apostoli, ci fosse una fabbrica di candele, poiché nei Registri Sanitarii troviamo decessa il 16 settembre 1579 «Paolina nassente fia de Antonio dalle candele - S. Apostolo».

Cannaregio (Sestiere, Fondamenta, Ponte, Canale, Chiovere di). Vogliono alcuni che «Cannaregio» sia corruzione di «Canal Regio», titolo attribuito, per la sua ampiezza, a quel braccio di canale che, partendosi da S. Geremia, sbocca per S. Giobbe in laguna. Ma, bene riguardando, si vede che meglio tal titolo s'addirebbe al prossimo «Canal Grande», oppure al «Canal della Giudecca». Altri con più ragione sostengono che questo luogo venisse anticamente chiamato «Cannarecium», e quindi «Cannaregio», dalle molte canne che vi allignavano. Infatti, una cronaca, citata dal Gallicciolli, che arriva al 1410, dice: «Cannaregio, imperciocchè era chanedo e paludo con chanelle». Anzi, secondo alcuni, i Malipiero, venuti da Altino, qui si stanziarono per fabbricare navigli, e furono i primi ad usare di queste canne per ispalmarli. Né vale l'opporre che le canne poco allignino nell'acque salse, poiché, come nota il Filiasi («Memorie Storiche dei Veneti Primi e Secondi»), quelle della nostra laguna erano salmastre pei molti fiumi che vi sboccavano, ed appunto pel canale di Cannaregio vuolsi che nell'ore di bassa marea corresse il fiumicello Osellino, o Marzanego.

Il circondario di cui parliamo denominavasi pure nei primi tempi «Paluello», e contava allora pochissimi fabbricati.

Il «Ponte di Cannaregio» fu fatto per la prima volta in legno nel 1285, leggendosi in un antico cronista che il doge Giovanni Dandolo, l'anno suddetto, fece fabbricare il «ponte di Cannaregio dalla banda di S. Geremia dove avanti se passava con una zattara». Dalle iscrizioni poi poste sul medesimo si ricava che sorse in pietra soltanto nel 1580, e che venne restaurato negli anni 1641 e 1777. Nel 1580, come scrive il Temanza, vi lavorò il proto Marchesin Marchesini. Chiamasi eziandio «Ponte delle Guglie» dalle quattro aguglie onde è fregiato.

Presso il «Ponte di Cannaregio», sulla Fondamenta, verso il «Ghetto», scorgesi un palazzotto archiacuto con sopra un'arma gentilizia, e la seguente iscrizione:

Exigui Durate Lares Virtute Parati

Et Meus Et Serae Posteritatis Honor.

Valerius Superchius P.

L'edificio apparteneva appunto a Valerio Superchio, celebre medico, poeta, ed oratore, venuto nel 1480 da Pesaro ad abitare Venezia, ove morì nel 1540, e fu sepolto ai Servi con iscrizione dettata dal Bembo suo compare. Anche l'arma è quella del Superchio, inquadrata però coll'arma di Pellegrina Avanzo sua moglie.

Sulla medesima «Fondamenta di Cannaregio» altra lapide, posta recentemente, ricorda il prete veneziano Carlo Coletti, che fondò in questa situazione un istituto per «giovani correggendi» (ora trasportato a S. Girolamo), e che in questa casa venne a morte nel 1873.

Scavandosi circa il 1680 il «Canale di Cannaregio», si ritrovò un getto di acqua dolce, sorgente da certo serraglio quadro, fatto di pali, e grossi tavoloni, che arrivavano colle loro teste un piede sotto al fondo del canale medesimo. Vedi Zendrini («Memorie, Lib. 8»). Il Gallicciolli la crede opera romana. Ma il Gradenigo nei suoi «Casi Memorabili Veneziani» dice in quella vece che, per mezzo di tale artificio, solevasi introdurre l'acqua in una fontana del celebre giardino appartenente al medico Maffei, di cui parla il Sansovino nella sua «Venetia», 1581, c. 137 v.

Canne (Calle delle) a S. Giobbe. Mette ad un piccolo Campo, che anticamente chiamavasi «Campo delle Canne», perché colà vi era un deposito di canne delle quali servivansi nello spalmare i navigli. Vedi l'articolo antecedente. Dice il Sabellico («De Situ Urbis»), parlando di Cannaregio, che «in extrema regione, ubi olim naves construi consueverant», si esponevano «cannarum palustrium fasces ad navalis fabricae usum comparati». Leggesi nel Cicogna («Inscr. Ven. vol., VI») che «Zuane Dolfin» lasciò, mediante testamento 19 ottobre 1458, all'ospitale di S. Giobbe il «Campo delle Canne» colle seguenti parole: «Item volo ac dimitto sopradicto Hospitali S. Job terrenum vacuum super quo ponunt harundines, quod tenent Saraxa et alii; illud sit dicti hospitalis». Saraxa è cognome di famiglia che abitava in Cannaregio, trovandosi nella «Mariegola» della Scuola di S. Girolamo (sec. XV) già posseduta dal cav. Cicogna, un «ser Francesco Saraxa da S. Jeremia». In una «Mariegola» poi della Scuola della Misericordia (an. 1308-1484) sono registrati quali confratelli un «Marco», ed un «Zorzi dalle canne» da S. Geremia.

Canossiane (Ramo delle) a S. Alvise. Vedi S. Alvise.

Caotorta (Calle) a S. Angelo. Se volessimo credere allo Zabarella, Antifone, figliuolo di Pilemene re della Paflagonia, venuto con Antenore in Italia dopo la rovina di Troja, ed approdato alla isola di Olivòlo, propagò la famiglia dei Stivacali, o Samacali, detti poscia Capotorto, e più volgarmente Caotorta. Quel che possiamo dire di più certo si è che abbiamo memoria di questa famiglia sino dai primi anni della fondazione di Venezia, che essa anticamente esercitò il tribunato, e fabbricò a «Castello» la chiesa dei SS. Sergio e Bacco, e che, al chiudersi del M. C., ne restò esclusa, ma poscia vi fu riassunta nel 1317. Un ramo della medesima abitava alla Madonna dell'Orto, nella calle perciò denominata «Caotorta», oggidì più non esistente. Un altro ramo, che apparteneva alla cittadinanza originaria, pel matrimonio non approvato del N. U. Alvise Caotorta q. Michele con Caterina Avastago dell'isola di Zante, abitava in quella vece a S. Angelo nella Calle di cui facciamo parola, in una casa già posseduta dalla patrizia famiglia Cappello, ma poscia comperata da Alvise Caotorta q. Alessandro, coll'istrumento 5 ottobre 1759, in atti Giuseppe Cominciolli N. V. Questo ramo, il quale aveva in chiesa di S. Angelo le sue tombe con epigrafi illustrate dal Cicogna, venne aggregata nel 1802 al Consiglio Nobile di Treviso, ed ebbe la conferma della propria nobiltà dal governo austriaco il 9 decembre 1819.

Capara (Fossa) a S. Nicolò. Scrive il Gallicciolli: «Quella parte di Mendigola, che fa la punta estrema a ponente tra il Rio dell'Angelo Raffaele, e l'imboccatura del Canale della Giudecca, si dice Fossa Capara, forse perché vi si pescassero cape» (cappe, o conchiglie marine). Il Gallicciolli però non coglie nel segno, perché proviene il nome dalla famiglia Caparo, che sappiamo aver abitato a S. Nicolò, e che era del ceto dei pescatori. Vedi il codice 1673 della Raccolta Cicogna (ora nel patrio Museo) ove vengono enumerate le famiglie pescatorie della contrada di S. Nicolò.

Caparozzolo (Ramo primo, Calle, Corte del) a Castello. Il N. U. Giovanni Sagredo notificò nel 1740 ai X Savii di possedere a «Castello», in «Corte Caparozzola», una casa appigionata a «Pietro Caparozzolo».

Capitello (Calle del) a S. Alvise. Avendosi nei primi tempi, per rendere più sicura la città dagli assassinamenti che succedevano, posto ad ardere per le strade mal sicure alcuni fanali, detti allora «cesendeli», perché mandavano un chiarore fioco, non dissimile da quello delle lucciole, «cicendelae» nominate, la pietà dei parroci poneva innanzi ad essi delle imagini di Santi, affinché al loro cospetto si rattenessero i ribaldi dal commettere azioni malvagie. Ecco l'origine di quegli altarini, o «capitelli», sì frequenti tuttora in Venezia. Il frate tedesco Faber, che nel 1489 pubblicò a Stuttgart il suo «Evagatorium», o Viaggio in Terra Santa, così scrive, parlando dei «capitelli» di Venezia: «In omnibus angulis, ubi arcti sunt vici et curvi, est suspensa una lampas, quae noctibus accenditur, et ne lumen gratis ardere videatur, ad parietem, retro lampadam, ponunt aliquam imaginem B. V., et lampas tam ad honorem B. V. accenditur, quam ad comoditatem transeuntium».

Cappellan (Corte del) a S. Giustina. La Descrizione della contrada di S. Giustina pel 1661 dimostra che in questa Corte, fin d'allora chiamata «del Cappellan», eravi una «casa delle monache data al loro Cappellano». E la «Cronaca Veneta Sacra e Profana», parlando della chiesa di S. Giustina, dice: «Alla cura di questa chiesa e parrocchia le Monache, che sono al numero di 46 circa, vi creano un Cappellano con un coro di Preti».

Cappellera (Corte) a S. Francesco della Vigna. Vedi Cappeller (Sottoportico e Calle ecc. del).

Cappellèr (Sottoportico e Calle, Ramo e Calle del) a S. Cassiano. Da un «capeler», o cappellaio, che qui esiste tuttora.

Il «Sottoportico» e la «Calle del Cappeller» a S. Cassiano chiamavansi un tempo «della Pigna», ed il «Ramo e Calle del Cappeller» dicevansi in quella vece «del Pero». Checché opini il Gallicciolli, ambidue sono cognomi di famiglie, che troviamo aver abitato in parrocchia di S. Cassiano. Anzi sul muro del «Sottoportico del Cappeller» scorgesi anche attualmente effigiata l'arma della famiglia Dalla Pigna.

Presso il «Sottoportico» e «Calle del Cappeller» a S. Cassiano nacque il 27 settembre 1786 un grave incendio in cui perirono abbruciate due sorelle.

La denominazione del «Cappeller» è altrove ripetuta. Quantunque l'uso dei cappelli di pelo feltrato abbia avuto generalmente principio intorno la metà del secolo XV, nulladimeno molto dopo s'introdusse in Venezia. Da una legge del secolo XVII si vede che i nostri padri distinguevano i cappelli in varie qualità, cioè «di castor, di mezzo castor, d'agnino di Spagna, di gambello, d'agnino di Padova», e di lana più o meno ordinaria. I Cappellai erano anticamente uniti ai Merciai, ma se ne staccarono nel 1676. Essi raccoglievansi in chiesa di San Leone all'altare di S. Jacopo, e colà pure avevano tomba coll'iscrizione: D. O. M. Arte de Cappelleri 1678. Ristaurata 1736.

Cappellis (Calle) a S. Maria Nuova. Nella Descrizione della contrada di S. Maria Nuova pel 1740 trovasi che l'«illustrissimo sig. Piero Cappellis, mercante di seta», teneva a pigione due case qui poste, allora possedute dalla «commissaria Armano». Egli ebbe dalla moglie Giulia Prezzato, sposata nel 1736, cinque figli, cioè Gian Battista, Gian Domenico, Gian Agostino, Gian Francesco e Marcandrea, i primi quattro dei quali furono approvati cittadini originarii il 22 marzo 1749, ed il quinto il 16 agosto 1770. Erano tutti venuti alla luce in parrocchia di S. Maria Nuova. Un'epigrafe mortuaria di questa famiglia, che esisteva nella chiesa di S. Maria Nuova, è riportata dal Cicogna («Inscriz. Ven., vol. III»).

Capuzzi (Calle) a S. Vito. Benché prossima alla distrutta chiesa di S. Vito, era sotto la parrocchia di S. Agnese, e la Descrizione di questa contrada pel 1661, chiamandola «Calle del Capuzzo», ci fa sapere che allora vi abitava «Giacomo Capuzzi calafao dell'Arsenal» in «casa delli NN. UU. Agostin e Z. Donà Coreggi».

Carabba (Calle) a S. Marina. Vedi Brandolin o Carabba (Ramo).

Carampane (Calle, Fondamenta ora Rio Terrà, Rio Terrà, Calle dietro delle) a S. Cassiano. Fino dal 1358 si prescrisse che i Capi di Sestiere dovessero rintracciare un locale a Rialto per concentrarvi le meretrici. Esso venne ritrovato nel 1360, e fu un gruppo di case in parrocchia di S. Matteo, appellato il «Castelletto», che doveva stare sotto la sorveglianza di sei custodi, e rinchiudersi ogni sera al cessare della terza campana di S. Marco, né aprirsi giammai nelle feste principali della chiesa. Le meretrici obbedivano ad alcune «matrone», incaricate di far cassa dei guadagni, e quindi, alla fine d'ogni mese, dividerli tanto per testa. Le abitatrici del «Castelletto» si sparsero, col progredire del tempo, anche in altri luoghi della città, fra cui di preferenza nel quartiere detto «Carampane» da «ca'» (casa) e «Rampani», cognome d'antica famiglia patrizia, che colà possedeva alcuni stabili. Ciò venne loro proibito, laonde il Sabellico, che scrisse il suo opuscolo «De Situ Urbis» circa al 1490, ebbe a dire: «Carampanum vicum unde nuper sublatum lupanar». Ma esse vi ritornarono sempre, deludendo in tal guisa la legge, che avrebbe voluto vederle tutte rinchiuse nel «Castelletto».

Ad onta che molte di tali donne si trovassero un tempo in Venezia, v'infieriva il vizio della sodomia, laonde si dovette non solo tollerare, ma prescrivere, come accenneremo anche altrove, che esse stessero sulle porte ed alle finestre lascivamente scoperte, mentre una lucerna illuminava di sera il curioso spettacolo. Che se tanto prescrivevasi perché gli uomini, allettati ad un vizio minore, da un maggiore venissero distolti, severissime leggi, fatte in diversi tempi, e che si possono dire epilogate nel decreto 13 agosto 1644, raffrenavano le prostitute. Non potevano esse aver casa sopra il «Canal Grande», né pagar più di ducati 100 di affitto; non andar per «Canal Grande» all'ora del corso, e vagar per la città in barca a due remi; non entrare in chiesa nelle solennità, perdoni, od altri concorsi di devozione; non portare il «faziol bianco da fia» (manto, od accappatoio da donzella); non ornarsi di oro, gioie, e perle buone o false ecc. Erano escluse finalmente (e tale sorte avevano ancora i ruffiani) dal far testimonianza nei processi criminali, e non venivano ascoltate qualora avessero domandato in giudizio il pagamento pei servigi prestati.

La «Calle dietro le Carampane» è denominata anche «Rizzo». Vedi Rizzo (Calle ecc.) a S. Cassiano.

Carbon (Riva, Traghetto della Riva, Calle, Ramo e Sottoportico del) a S. Luca. Sulla «Riva del Carbon» tuttora si fa spaccio di questo combustibile. Esiste una legge del Magistrato alle Acque, 5 aprile 1537, con cui comandavasi che le zattere cariche di carbone «non possino fermarsi dinanzi le bocche de Rivi, e due solamente per tessera possino trattenersi per vender alla Riva del Carbon». Sul margine della medesima eranvi eziandio alcune botteghe di legname, ove vendevasi carbone; due delle quali appartenevano ai Bembo, ed una ai Donà. I Carbonai unironsi in corpo nel 1476, ed avevano scuola di devozione nella prossima chiesa di S. Salvatore, sotto il patrocinio di S. Lorenzo. Essi andavano esenti dalla milizia perché scaricavano senza mercede il carbone occorrente all'Arsenale ed alla Zecca. Erano poi 25, né tal numero poteva variarsi, perché la Repubblica aveva venduto le «corbe», cioè il diritto di portare in esse il carbone, e chi era proprietario di una di tali azioni poteva tanto da sé esercitare questo mestiere, quanto farlo esercitare da altri.

Leggesi nelle «Raspe» dell'«Avogaria di Comun», che l'8 settembre 1477, passando il N. U. «Daniele Soranzo q. Francesco», ed un certo «Giacomo da Crema», circa l'ore 24, per la «Calle del Carbon», vennero invitati a salire in casa da una meretrice cognominata Maria Scorzupi. Fermatisi a cena con essa, mangiarono «unam coradellam castrati ad suffritum, et unum fegatum unius leporis quem tunc praedictus Daniel interfecerat». Ritornati poscia alle loro case, ambidue sentironsi male a segno, che il Soranzo la mattina seguente morì, ed anche il compagno versò in grave pericolo di vita, recendo «nescio quid ad similitudinem verderame». La Scorzupi perciò venne posta in prigione e torturata, ma nulla confessando, e d'altra parte non trovandosi in lei pravità d'intenzione, fu assolta con sentenza 10 novembre dell'anno medesimo.

Sulla «Riva del Carbon» prese ad abitare sul principio del 1551 il celebre Pietro Aretino in una casa, la pigione della quale, ascendente a 60 scudi annui, venivagli generosamente pagata dal duca di Firenze. Vedi Mazzuchelli («Vita di Pietro Aretino»). Questa casa, come si scoprì da una fede rilasciata da Pietro Paolo Demetrio, pievano di S. Luca, notarilmente autenticata, ed esistente nel R. Archivio d'Arezzo, apparteneva a Leonardo Dandolo di ser Girolamo, ed era probabilmente sopra, od in vicinanza dello attuale Caffè detto «degli Omnibus». Qui continuò l'Aretino ad abitare fino all'epoca della sua morte, che, in mancanza dei registri mortuarii, venne dagli eruditi fissata, per congetture, all'anno 1557, ma che successe in quella vece il 21 ottobre del 1556. Salvatore Bongi infatti nella Vita d'Anton Francesco Doni, premessa alle «Novelle» di questo autore (Lucca, Fontana, 1852), trasse dall'«Archivio Mediceo» («Carteggio di Venezia, Filza 80»), un brano d'una lettera scritta da Venezia a Firenze dal Pero al Pagni nel 24 ottobre 1556, ove si legge: «Il mortal Pietro Aretino mercoledì sera, a hore tre di notte, fu portato all'altra vita da una cannonata d'apoplexia senza haver lassato desiderio e dolor a nissun huomo da bene. Dio li abbia perdonato!» Anche il pievano Demetrio nella fede sopra indicata dice ch'egli «morì da morte subitanea giù d'una cadrega da pozo», avendoci prima fatto sapere che il Giovedì Santo di quell'anno si era confessato e comunicato in chiesa di S. Luca, «piagnendo lui estremamente». Da ciò risultano favolose due circostanze inventate da alcuni scrittori circa gli ultimi momenti dell'Aretino. La prima consiste nel racconto che egli morisse accoppato, cadendo dalla seggiola, mentre tragittavasi sopra di essa, puntando i piedi al suolo, e ridendo sgangheratamente all'udire certe tresche delle proprie sorelle meretrici nel bordello d'Arezzo. Consiste la seconda nell'altro racconto che egli, avendo ricevuto la Sacra Unzione, dicesse beffardamente:

Guardatemi dai topi or che son unto!

E' poi singolare il caso (se pure la cattiva salute dell'Aretino non avesse potuto farlo presagire) che il Doni nel «Terremoto» indovinasse l'epoca della di lui morte colle parole: «In quest'anno del LVI tu morirai perché l'apparizione che fu della stella ai Magi nella nascita del Signore si tenne per gran segno, ed ora per piccolo io tengo la cometa di quest'anno venuta per conto tuo per essere tu contrario a Cristo» ecc.

Abbiamo notato una Scorzupi meretrice, domiciliata nel 1477 in «Calle del Carbon». Fin d'allora forse molte di tali femmine avevano sede nella calle così denominata, il che per certo verificavasi nel secolo passato, chiamandola Gasparo Gozzi la «via detta del Carbon dove abitano in certe casipole terrene le più sozze uccellatrici degli uomini».

Cariole (Sottoportico e Corte delle) a S. Giuliano, presso la «Calle dei Specchieri». Da un falegname che occupavasi di preferenza a costruire «cariole» (carriuole). Un «Messer Lorenzo dalle Cariole» teneva in questo sito a pigione nel 1564 una casa e una bottega della pieve di S. Giuliano, la quale possedeva in «Calle dei Specchieri», un tempo detta «Calle delle Acque», vari stabili. Vedi la «Raccolta d'Istrumenti, Testamenti» ecc. «che si conservano nella chiesa di S. Giuliano» (Codice Cicogna, N. 392).

Carminati (Ramo, Salizzada, Ramo secondo Salizzada, Ramo terzo Salizzada) a S. Eustachio. La famiglia Carminati ebbe la sua culla nel territorio di Bergamo. Fino dal 998 fu chiara per quel Pietro che combatté valorosamente contro i Saraceni, laonde coi discendenti ebbe il titolo di conte e cavaliere da Giovanni XVIII nel 1006. Il pontefice, nel breve speditogli, concede altresì facoltà a Giacomo di lui figlio, che era canonico, di poter succedere nel vescovato di Bergamo col titolo di vescovo pontificio, e si dichiara congiunto di sangue ai Carminati colle parole: «Concedimus et mandamus per praesentes ad hanc propaginem tuam quia ex ipsa originem traximus» ecc. I Carminati levarono bel grido di sé nella terra natale anche nei secoli XIV e XV, sostenendo parte Ghibellina, e possedendo fortilizi e castelli. Poscia si diffusero in Milano, Genova, Verona, e Venezia, nella qual ultima città vennero ascritti al patriziato nel 1687. Essi tuttora possiedono, ed abitano un palazzo a S. Eustachio, che ha l'arma loro sculta sul prospetto, ed imposero il nome alle prossime vie.

Una «Calle Carminati» eravi anche a S. Lio da un vasto casamento tuttora posseduto, ed abitato da un altro ramo della famiglia Carminati, ascritto alla cittadinanza originaria. Questa calle però ora è scomparsa, facendo parte del giardinetto aggiunto recentemente al fabbricato.

Carmine (Campo, Rio del). Poca credenza merita chi dice essere stati tradotti a Venezia i Carmelitani dalla Tracia nel 1125 da Giovanni Zancarolo. E' più probabile che vi ponessero piede nel secolo XIII, nel qual tempo eressero in questa situazione un monastero ed una chiesa dedicati a S. Maria Assunta, detti poscia comunemente di S. Maria del Carmine. La chiesa ebbe consacrazione nel 1348 da Marco Morello, vescovo Democedense, con l'intervento di altri sei vescovi. Più d'una volta in seguito fu ristaurata, e specialmente nel secolo XVII. Nel secolo trascorso si rialzò anche il monastero, ma nel 1810 venne soppresso. La chiesa allora divenne parrocchiale, componendosi il suo circondario con tutte le contrade della parrocchia soppressa di S. Barnaba, con massima parte di quelle della pure soppressa parrocchia di S. Margarita, e con alcune delle due conservate parrocchie di S. Pantaleone, e dell'Angelo Raffaele.

Essendosi il campanile di S. Maria del Carmine, col girare dei secoli, alcun poco inclinato, l'architetto Giuseppe Sardi lo ristabilì in giusta linea nel 1688, e di ciò, come di opera prodigiosa, si volle serbare memoria, mediante pomposa epigrafe, posta nel campanile medesimo.

Esso nel 21 settembre 1756 fu colto di sera da una saetta, la quale apportò danno non mediocre alla cupola ed alle colonne, che con fracasso rotolarono giù dalle scale. I frati, che in quel momento stavano suonando le campane, credettero che tutto il campanile dovesse precipitar loro sulla testa, per cui si diedero atterriti a fuggire, spingendosi l'uno coll'altro. In quel trambusto frate Belisario laico diede del capo nel muro, oppure in una trave, e per la ferita in breve morì (Cod. Cicogna 264).

Al lato destro del «Campo del Carmine» esiste una casa che credesi avanzo d'un antico palazzo già posseduto dalla famiglia Moro, e che è conosciuta sotto il nome di «casa dell'Otello». Imperciocché si suppone che Otello non sia altro che un Cristoforo Moro, figlio di Lorenzo, Veneto patrizio, e che Giraldi Cintio ne' suoi «Ecatommiti» (1565), e Shakespeare nella sua tragedia (1604), per un riguardo alla nostra aristocrazia, facessero figurare qual protagonista nelle loro finzioni un moro di colore, piuttostoché un Moro di cognome. Tale congettura esposta dall'erudito sig. Rawdon Brown («Ragguagli sulla Vita e sulle Opere di Marin Sanuto» ecc.), e seguita da altri, derivò dal leggersi che esso Cristoforo Moro venne spedito nel 1505 luogotenente in Cipro, e che nel 1508, eletto capitano di 14 galere in Candia, ritornò a Venezia per riferire sulle cose di Cipro, avendo perduto nel viaggio la consorte. Aggiungasi che nel 1515 egli si rimaritò con una figlia di Donato da Lezze, soprannominata Demonio Bianco, donde forse Desdemona. Checché sia di tutto questo, devesi dichiarare che il palazzo in «Campo del Carmine» non appartenne giammai ai Moro, ma bensì ai Guoro, i quali lo ebbero dai Civran, come appare dallo stemma Civran tenuto dalla figura d'un guerriero, scultura del secolo XV, che sta sull'angolo risguardante il Rivo. Inoltre, il diligentissimo Cicogna lesse un'iscrizione nell'interno di quella casa, da cui si ricava che essa venne incominciata a rifabbricarsi nel 1502 da un Pietro Guoro nell'anno secondo del consiglierato di Luca Civran, suo zio materno, ed ottenne compimento nel 1507. Si ponga mente, per ultimo, che Cristoforo Moro era della famiglia domiciliata in Campo di S. Giovanni Decollato. Si può adunque sospettare che volgarmente si venisse a confondere il cognome Guoro, o Goro, con Moro, e che, anche avuto riguardo alla figura del guerriero, posta sull'angolo del Rivo, si affibbiasse alla casa di cui parlammo una rinomanza che essa punto non meritava.

Del palazzo Guoro toccano i «Diari» del Sanudo colle parole: «22 Marzo 1519. Et preseno di retenir il R. D. Zuan Lando arzivescovo di Candia, incolpato di monede false, il qual sta ai Carmini in cha Zivran al Ponte di Guori, et cusì in questa sera, over note, dicto arzivescovo fo preso, et posto in caxa di Bernardin di Maschio capitano di le prexon». Si vede che allora chiamavasi «Ponte dei Guori» quello che ora diciamo «Ponte Foscarini». Il fatto dell'arcivescovo si ritrova pure nei «Diarii» di Marcantonio Michiel (Codice Cicogna 1022). Quantunque corresse fama che gli si fosse ritrovata in casa «una botte di monete false», non si diede luogo in Venezia ad ulteriore procedimento contro il medesimo «perché el cons. di X volse licenza dal Papa per spazzarlo, et parse che el Papa ghe la concedesse, come fu divulgato, et poi alla fine, ad istantia del cardinal Cornaro suo cugino, revocò la licenza, et volse che li fusse mandato a Roma».

In ca' Guoro esisteva pure un teatro che incominciossi ad aprire nel 1729, e che, secondo il Gallicciolli, durò tre anni soltanto. Altri però vogliono che ne abbia durato sei, tre dei quali destinati alle commedie, e tre ai melodrammi.

Carmini (Ponte dei) a S. Provolo. Nelle tavole topografiche del Paganuzzi e del Quadri è chiamato «Ponte della Madonna del Carmine», e ritrae appunto il nome da un altarino, ove, anche al presente, si venera sotto tal titolo la Madre di Dio. Questo ponte, come ricorda il Dezan, venne eretto per la prima volta circa l'anno 1791, e dell'altarino parla probabilmente Gasparo Gozzi in una delle sue lettere, ove, dopo aver descritto una terribile bufera che il 17 agosto 1756 imperversò specialmente a Padova, Mestre, ecc., così continua: «Con tutti questi fracassi qui in Venezia non s'è avuto altro male che una saetta, la quale toccò quel capitello ch'è a S. Provolo, per andare sulla Riva dell'Osmarin, e la chiesa di S. Giovanni e Paolo, ed un altro luogo che non ricordo».

In altri punti della città v'erano, ed in gran parte vi sono tuttora, delle imagini divote, dipinte o scolpite nei «capitelli», o sui muri. Di qua le seguenti denominazioni talora ripetute: «Sottoportico, Corte, Corte dell'Angelo; Corte, Sottoportico dell'Annunziata; Ponte di S. Antonio; Calle del Cristo; Ponte, Rio S. Cristoforo; Calle della Madonna; Calle, Ponte, Rio, Traghetto, Calle del Traghetto della Madonnetta».

Carnace (Fondamenta) a S. Alvise. Era appellata «Fondamenta di Calle Turlona» per essere situata dietro la Calle di questo nome. In seguito si disse «Fondamenta Carnace» per la famiglia Carnace, un Antonio della quale abitava nel 1713 una casa qui posta, di ragione del N. U. Francesco Labia. Dopo le disgrazie successe ai Turloni, i Labia, come altrove diremo, comperarono dal fisco gli stabili componenti la «Calle Turlona» con altri stabili nelle vicinanze.

Carro (Calle e Ramo, Campiello della Calle, Ramo della Calle del) a S. Marco, presso la «Frezzeria». Da una spezieria all'insegna del «Carro», che qui esisteva nel secolo XVI. Scorgesi nelle Condizioni del 1566 che una Bianca, vedova di Marin Giustinian, possedeva degli stabili presso la «Frezzeria, in la calle del spicier dal Carro». Ed una Condizione del 1582 così incomincia: «Io Iseppo Gardellin spicier alla insegna del Carro me attrovo nella casa et bottega del Claris.mo Antonio Morosini fo del Claris.mo Pietro, posta nella contrà de S. Moisè, in Frezzaria, Sestiere de S. Marco», ecc. Costui si raccomandava ai X Savii per non essere aggravato da forte imposta, attesoché non possedeva che tre livelli attivi, da uno dei quali non poteva ritrarre alcun frutto, faceva pochissimi affari, e doveva mantenere moglie e sei figli, fra maschi e femmine. Aveva dovuto ritogliere poi in casa una figlia maritata, levandola dalle mani del marito «sì per essere divenuto come matto, et anco per la cattiva e mala chompagnia che lui le faceva».

In «Calle del Carro» esiste tuttora un ospizio di 12 stanze per povere vedove, fondato dal medico Pietro Tommasi con disposizione testamentaria 10 novembre 1456, in atti Fantin Saracco pievano di S. Moisè.

Carrozze (Calle delle) a S. Samuele. La Descrizione della Contrada di S. Samuele pel 1661 pone in «Calle delle Carrozze» una casa del «N. U. Pietro Badoer fu de Sebastian, locata a m. Visin carozer». Benché in Venezia non ci fosse l'uso delle carrozze, se ne fabbricavano tuttavia per la Terra Ferma, laonde più d'una strada prese il nome da tale industria. Esiste tuttora un'incisione del Marieschi rappresentante la piazza dei «Frari» con una carrozza che vi si sta lavorando. I «Carozzeri» erano uniti ai «Seleri», colonnello pur essi dei «Tapezzieri», e dei «Bolzeri» (Valigiai). A proposito delle carrozze citiamo il seguente brano della legge 8 ottobre 1562: «Li cocchi, cocchiesse et carrette non si possino usar con oro, ovver argento, in alcuna parte, salvo che nelli pomoli, restando del tutto proibiti li stramazzi, coperte da carretta, collari, coperte da cavalli di seda, o di seda foderate, ovver ricamate, et medesimamente li pennacchi, et li cocchieri sieno alla medesima condition del suo vestir che sono li famegli de barca... sotto pena a quelli che contrafaranno in questo proposito de cocchi, cocchiesse, e carrette de ducati vinti per cadauna cosa... et cadauna volta che contrafaranno».

Casarìa, a Rialto. Così chiamavasi il luogo ove vendevansi cacio e «grassina». Altra «casaria» esisteva a S. Marco dal Ponte dietro la Zecca, lungo la bocca ove adesso si stendono i Giardinetti Reali. Egli è perciò che nella «Mariegola» dei «Casaroli», sotto la data 18 ottobre 1436, prescrivevasi «che nessuna persona, sì casarol come altra persona, non osi comperar caseo, né carne, né altra grassa per rivender per sé né per altri, se non ha botega del Comun di Venezia, cioè in Rialto, dentro la Ruga di Casaria, o in S. Marco; che in quella vender possino e non in altro luoco, sotto pena di L. 10 de piccoli per cadauna volta contrafaranno». L'arte dei «Casaroli», che venne eretta nel 1436, radunavasi in chiesa di S. Giacomo di Rialto, ove edificò l'altar maggiore con bella statua del Vittoria, rappresentante il proprio protettore S. Giacomo, e con adornamenti di angeli pur essi di marmo. Ad essa era unita quella dei «Salumieri», che però nel 1653 se ne staccarono. L'arte dei «Casaroli» appellavasi anche consorzio. Trenta inviamenti la formavano, i quali erano stati venduti dalla Repubblica per 62 mila ducati, laonde, successo il Governo democratico, e sciolte le corporazioni, inutili sforzi fecero i «casaroli» per essere compensati della perdita di tali inviamenti, e dei loro antichi privilegi.

Cascada (Corte) presso la «Fondamenta di Cannaregio». Leggasi «Corte Cà Scala», come negli Estimi, da una famiglia di tale cognome, la quale abitava in questa località, soggetta un tempo, come adesso, alla parrocchia di S. Geremia. Trovasi nei Necrologi Sanitari che morirono nella suddetta parrocchia, a dì 4 ottobre 1601, «il Mag.co S. Franc.co Scala d'anni 16»; a dì 5 marzo 1608 «M. Antonio Marchesi servitor del Sig.r Gabriel Scala» e finalmente a dì 23 aprile 1619 «Franc.co fio del Mag.co S. All.o Scala, de anni 2, da variole, giorni 8».

Sopra l'imboccatura di questa corte sorge un palazzo edificato dalla patrizia famiglia Surian, il quale più tardi passò in gran parte nell'altra famiglia Bellotto. Esso servì di residenza agli ambasciatori di varii principi, e qui, come secretario dell'ambasciatore francese de Montaigu, dimorò G. Giacomo Rousseau, che arrivò a Venezia nel 1743, e ne partì il 22 agosto 1744.

Casin (Sottoportico del) a S. Barnaba. Dal così detto «casino dei nobili», che qui esisteva nel secolo passato. Chiamavansi, e tuttora si chiamano, «casini» certe piccole case, o stanze, ove una determinata compagnia si raccoglie a passare col giuoco o con qualche altro trattenimento, specialmente l'ore notturne. Molti «casini» contava Venezia sotto la Repubblica, e molti abusi nascevano in essi fino dai tempi antichi. Perciò il Consiglio dei X con decreto 27 febbraio 1567 M. V. comandava «che li redutti de nobili et altre persone in questa città sieno del tutto proibiti». Un altro decreto del Consiglio medesimo, 18 settembre 1609, diceva che, servendo tali «casini» non più ad «honesta conversatione», ma invece a «secreti congressi per dar nell'estremo eccesso di giuoco», nonché ad «altre abominevoli maniere di vita troppo licentiosa», fosse proibito in avvenire a «cadauna persona, di che grado, stato, et conditione si voglia, tener alcuna casa, o pigliarne ad affitto da altri, solo, o accompagnato da chi si sia, se non per propria et ordinaria habitatione, sotto alcun immaginabile pretesto, ovvero nome supposto» ecc. Ad onta di tali decreti, i «casini» erano cresciuti più che mai verso la fine del secolo trascorso. «Era là» (come, sulle traccie dell'«Osservatore» del Gozzi, enfaticamente nei suoi «Annali Urbani» scrive il Mutinelli) «ove, cianciandosi, giuocandosi, e berteggiandosi, la dissolutezza si diceva galanteria, urbanità la sfrontatezza, e il vizio piacevolezza; ove il lusso delle femmine era raffinato dalla rivalità rabbiosa delle comparse; ove quasi tutti i vincitori in faccia ai vinti ridevano; ove i perdenti per dispetto ad ogni carta stridevano, chi un errore imputandosi, chi un altro, e con tanta altezza di voce, e con tanta forza da essere talvolta vicini ad azzuffarsi».

Oltre i casini pei nobili, v'erano quelli pei secretarii, e quelli pel solo popolo, non mancandone neppure gli artigiani, i camerieri, ed i cuochi. Quelli del popolo esistevano nelle parti lontane della città perché vi si potesse ritrovare l'orto da giuocare alle palle. In tali ritrovi facevasi di notte giorno, ed, oltre le partite di giuoco, davansi feste di ballo, e musicali accademie. Nelle sere di sabato, dopo la mezzanotte, s'imbandivano grasse cene sotto la moderata proposta di mangiar le frittelle, e splendida principalmente era la cena della prima sera di quaresima con abbondanza di pesci e di crostacei. Consunta la notte, si recavano talvolta le liete brigate, quando la stagione era propizia, a smaltire i cibi e le bevande, visitando, sul rompere dell'alba, l'«Erberia».

Casón (Campiello della) ai SS. Apostoli. «Cason», che talvolta trovasi di genere femminile, ma più spesso di maschile, significava anticamente «prigione», laonde leggesi nello Scomparin «incasonare» per «imprigionare». Ogni sestiere di Venezia aveva anticamente le proprie prigioni, ove si sostenevano i debitori, ed i rei di lievi delitti. Ne può far fede una deliberazione del Maggior Consiglio 19 marzo 1551, che comincia colle seguenti parole: «In cadauno sestiere di questa nostra città si ritrova un cason, ovvero carcere, nelle quali si pongono i debitori» ecc. In «Campiello della Cason» ai SS. Apostoli eranvi le prigioni del sestiere di Cannaregio. Ma più antiche memorie desta la località di cui parliamo, al qual proposito giova riferire quanto scrisse Nicolò Zeno nel suo libro «Dell'Origine dei Barbari» ecc. dato in luce nel 1557. «I Partecipatii» (dice l'autore citato), «come tribuni ressero centinaia d'anni Rivalta, tenendo ragione et il foro ai SS. Apostoli, nella qual contrada ancora vi si veggono i vestigii nel campo della Casone, dove sono le prigioni di quel Sestiere, et vi si veggono ancora due porte antiche regali, et i fondamenti del palagio antichissimo. Tenevansi le barche armate dietro quel cantone che salta fuori verso il ponte, e quella era la corte dove stanziava il tribuno, tenendosi al dirimpetto ragione. La riva comune, che riceveva le barche di Murano, Torcello, Mazzorbo et Istria, hora è il tragitto di Murano a S. Cantiano. Teneva questo palagio fino al rio che si dice del Barba, et si chiamava Rivo Baduario. Il campo di SS. Apostoli giungeva a questo palagio, et intorno la chiesa c'era vacuo. La porta principale con buone guardie e munitioni giaceva in campo della Calle Larga, et si teneva continuamente chiusa, né si apriva che nelle maggiori solennità, et per andare e venire si usava la callicella che viene da S. Cantiano, et in quella, nello sporto, vi stava la guardia, che con poca forza poteva tenere quel passo, perché in quel tempo il popolo molte volte rumoreggiava et tumultuava, et questi tumulti sollevati contro i potenti importavano molto» ecc. Tramandano le cronache che in questa situazione risiedette del pari il doge Angelo Partecipazio prima che fosse compiuta la fabbrica del Palazzo Ducale di S. Marco.

Pel medesimo motivo la prossima «Calle del Volto» è detta «della Cason».

Un «Sottoportico del Cason» esiste pure a S. Giovanni in Bragora, e nel 1582 la «commissaria» di Marin Morosini notificava di possedere «porcion del locho della Cason» a S. Giovanni in Bragora, appigionata al Consiglio dei X. Appare dai processi della Santa Inquisizione in Venezia, che in questo carcere venivano sostenuti gl'imputati di eresia.

Una «Calle» ed una «Corte del Cason» esistevano finalmente a S. Marco presso la «Frezzaria», le quali scomparvero quando nel 1869 si scavò il così detto «Bacino Orseolo», risultandone invece una fondamenta, che non dovrebbe essere privata dell'antica denominazione. Del «Cason» di «Frezzaria» fa ricordo Girolamo Priuli ne' suoi «Diarii» manoscritti (Codici 131-133, Classe VII della Marciana) raccontando come il 20 gennaio 1510 M. V. alcuni patrizii ne ruppero il muro per liberare Alvise Soranzo, che era colà dentro rinchiuso per debiti, facendo fuggire la guardia della Piazza accorsa dal rumore. Altro ricordo ne fa uno strumento del 3 decembre 1598, pel quale Paolo Flessio, in proprio nome, ed in nome della chiesa di S. Moisè, di cui era pievano, ottenne a livello perpetuo dai Grimani una parte d'uno stabile situato «in loco Frizzariae, super rivo domorum novarum illustrissimae Procuratiae de supra, in quo stabili reperiebatur casonus Frizzariae, et aliae habitationes particolarium personarum». (Vedi Coleti, «Monumenta ecclesiae Venetae S. Moysis»). Qui si deve osservare che con quella espressione di «domorum novarum illustrissimae Procuratiae de supra» voglionsi indicare le attuali «Procuratie Vecchie», le quali, non essendo ancora compiutamente rifabbricate quelle di fronte, allora si dicevano «Nuove».

Anche una Cronaca di Famiglie del secolo XVI (Codice Cicogna 2673), parlando dell'osteria del Salvadego, dice che essa era situata a mano sinistra di chi veniva dalla «Piazza di San Marco, andando al chaxon».

Casselleria (Calle di) a S. Maria Formosa. Qui stanziavano i «casselleri», laonde «Lauredana Cappello relita del q. M. Laurentio Cappello» notificò nel 1514 di possedere in «S. M. Formosa in Casselleria, case n. 4 cum le sue botege de casseller». Havvi tuttora scolpita sulle muraglie l'arma Cappello. Errarono poi il Gallicciolli ed il Mutinelli nel credere che per «casselleri» debbansi intendere i fabbricatori di case, secondo l'antico modo di scrivere «cassa» per «casa». I «casselleri» erano i fabbricatori di «casse», come chiaramente risulta da una legge del M. C. dell'anno 1322 («Neptunus»), ove è detto: «cum cassellarii de Venetia possint trahere de Venet: franchum lignum laboratum per cassellas pro suo laboratorio». Queste casse servivano alla spedizione delle mercanzie, oppure a contenere il corredo delle spose novelle. Rammenta il Quadri nella sua «Descrizione topografica» di Venezia che in molte antiche famiglie si conservano tuttora alcune casse destinate a questo ultimo scopo, riccamente intarsiate d'ebano, avorio e madreperla, con le traccie tuttora visibili dell'incastonatura di pietre preziose. Aggiunge che, anche al giorno d'oggi, esistono delle tavole da buoni maestri dipinte, le quali in origine formavano il coperchio e le sponde di alcune delle casse medesime. I «casselleri» avevano la loro scuola di divozione, sacra a S. Giuseppe, presso la chiesa di S. Maria Formosa. Essi nel secolo X ammontavano, secondo il De Monacis, a più che 400, e molto si distinsero nel debellare i pirati Triestini od Istriani, che fuggivano sopra una galea, traendo seco le spose Veneziane poco prima rapite. Il Gallicciolli riporta un brano della «Mariegola» dell'Arte così concepito: «Et i casselleri de la contrà de S. Maria Formosa se misseno in ponto, e ben in ordene, facendo pavexi de le tavole che loro feva le casse, e tutti andono adosso la galia, e quella investino, e fono essi casselleri che fono i primi che montassero sopra essa galia, e fono morti assai da tutte doi le parte, et tajono a pezzi tutti li Triestini, non ne facendo alcuno de loro prexon. Et questo volse el doxe aciò i non havesse sepoltura li corpi soi in terra, ma che el mar fosse il suo molimento per la luzuria granda et offexa che feceno ai Vinitiani». Dicesi che i «casselleri» riportassero vittoria il giorno della Purificazione di Maria Vergine, e ritornati ai propri lari, chiedessero al doge che annualmente, la vigilia ed il giorno di tale festività, visitasse colla Signoria la chiesa di S. Maria Formosa. Dicesi pure che il doge per ischerzo loro opponesse — E se fosse per piovere? E se avessimo sete? — al che essi rispondessero — Noi vi daremo cappelli da coprirvi. Noi vi daremo da bere. — Da ciò avrebbe avuto origine il dono dei due cappelli di carta, o di paglia dorata, e dei due fiaschi di malvagía con sopra due aranci, che il pievano di S. Maria Formosa soleva fare al principe in quella circostanza. Vedi S. Pietro (Parrocchia ecc. di).

Nota il Priuli nei «Diarii» che nel 1505 arse grandissimo incendio in «Casselleria».

Cassetti (Ramo) ai Frari. La cronaca cittadinesca del Ziliolo (esemplare Cicogna) parlando dei Cassetti, così si esprime: «La casa loro da statio è ai Frari». Questa casa, che era sotto la parrocchia di «S. Polo», guarda la «Fondamenta dei Frari», ed il «Ponte» e «Rio» di «S. Stin». Dietro alla medesima, in «Campiello Zen», apresi il «Ramo Cassetti». La famiglia Cassetti, venuta da Brescia, esercitava in Venezia l'arte della seta colla quale acquistò molte ricchezze. Un Giuseppe Cassetti, figlio di Angelo, morto nel 1598, ebbe tomba con epigrafe in chiesa di «S. Polo». Il di lui figlio Gaspare, insieme al fratello Girolamo, ed al nipote Giuseppe e discendenti, venne ammesso al patriziato nel 1662, avendo esborsato alla Repubblica 100 mila ducati. D'allora in poi i Cassetti coprirono con lustro le magistrature, e contrassero parentela con nobili famiglie.

Castagna (Calle) a S. Giovanni Nuovo. Secondo la Descrizione della contrada di S. Giovanni Nuovo pel 1740, giù del «Ponte Storto», nella «Calle per andar in Ruga Giuffa», abitava «Giacomo Castagna», il quale pagava pigione all'«Ecc.mo G. B. Grandi». Così i «Necrologi Sanitari» registrano la di lui morte: «17 april 1768. Giacomo Castagna q. Isepo d'anni 74 da reuma polmonare g.ni 15. Morì alle ore 15. Med.co Rimondi. C.lo S. Zuane Novo». Egli era ricco mercadante di tele, panni, cambellotti, ed altro. Beneficò morendo, oltre che la propria parrocchia, la Scuola di S. Maria del Rosario, a cui era ascritto, e di cui era stato Guardian Grande.

Castelli (Calle e Corte) ai Miracoli. D'antica origine Trivigiana, la famiglia Castelli trapiantossi a Bergamo, ove venne fatta nobile, onore compartitole in seguito anche dalla città di Como. Un Bartolammeo Castelli nel secolo XVI fu molto accetto ad Isabella, già moglie di Carlo IX re di Francia, quand'essa in istato vedovile abitava in Vienna. Egli in quella capitale prestò varii servigi all'imperatore Rodolfo, che lo elesse, con diploma dato in Praga il 10 giugno 1597, Gentiluomo di Camera. Venuti a Venezia i Castelli, attesero al negozio della seta, ed arricchirono, laonde poterono offerire 100 mila ducati alla Repubblica, in benemerenza del qual fatto vennero ammessi l'anno 1687 al Maggior Consiglio nelle persone di un Santo, e di un Giuseppe e Francesco, di lui nipoti. Con questi due fratelli, che nel 1713 abitavano ai Miracoli in un palazzo del «N. U. Almorò Pisani», venne ad estinguersi la famiglia.

Castello (Sestiere, Parrocchia di S. Pietro, Canale di). Castello era anticamente una delle isole maggiori sopra le quali sorse Venezia, ed ebbe tal nome o perché i primi abitatori vi ritrovassero i ruderi di quell'antico castello che, secondo lo storico Tito Livio, Antenore guidatore degli Eneti, costrusse in fondo al Golfo Adriatico, o, più probabilmente, perché un castello vi si eresse sopra nei tempi successivi a difesa dell'isole Realtine, ed a guardia del vicino porto di S. Nicolò. Da questo castello staccavasi, come opina il Filiasi («Memorie Storiche dei Veneti Primi e Secondi»), quella muraglia che, per timore dei Tartari Ungari, il doge Pietro Tribuno fece innalzare intorno al 906, e che giungeva fino a S. Maria Zobenigo, ove una grossa catena di ferro intercettava il passaggio ai legni nemici. L'isola di cui parliamo era chiamata anche nei primi tempi, «Olivòlo» o per la configurazione del terreno somigliante ad un'oliva, o per la abbondanza degli olivi, o per un grande olivo sorgente sulla piazza di S. Pietro, o perché il castello era piccolo, e quindi «pagos oligos», alla Greca, veniva chiamato. Olivolo, o Castello, ebbe fino dal 774 una cattedra vescovile che, soppresso il patriarcato di Grado, divenne nel 1451 patriarcale, e nel 1807 fu trasferita in S. Marco. In Olivolo tenevasi il sabato d'ogni settimana un celebre mercato, immune, per concessione dei tribuni, e dei primi dogi, da ogni balzello, e tale da poter gareggiare con quelli di Pavia e di Campalto, annoverati allora fra i principali d'Italia.

A «Castello» abitavano Giovanni e Sebastiano Caboto, arditi viaggiatori Veneziani del secolo XV, a ricordo dei quali fu posta recentemente una lapide all'ingresso della «Strada Garibaldi».

Catapàn (Corte) a Castello. Agiata e numerosa era un tempo la famiglia Catapan in parrocchia di S. Pietro di Castello. Ad un «Marco Catapan» da Castello, unitamente ad un Cristoforo Istrego, donossi dal Maggior Consiglio nel 1334 quel tratto di terreno paludoso, sopra il quale sorse la chiesa di S. Antonio, perché lo rassodassero, e lo rendessero abitabile. Il medesimo «Marco Catapan» cooperò alla fondazione della suddetta chiesa, ed il suo nome, con quello di altri benemeriti, leggevasi inciso sopra una lapide presso la sacristia. Un «Cristoforo Catapan» da Castello, «paron de nave», si costituì fidejussore per un Gregorio da Rimini, marinaio, collo strumento 13 ottobre 1388, in atti Andriolo Cristian. Un «Giovanni Catapan q. Giacomo», capitano delle carceri di Padova, testò il 22 maggio 1439 in atti Antonio Gambaro, lasciando, sotto fedecommesso, la propria casa a Castello, presso S. Anna, a Francesco e Tommaso di lui figli. Probabilmente il Tommaso di cui qui si parla è quel «Tommaso Catapan», figlio di Giovanni, che nel 1494 preparossi la tomba in chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, e quel «Tommaso Catapan da Castello» confratello della Scuola della Carità, che morì il 16 settembre 1499.

Catecumeni (Fondamenta a fianco li, Ramo a fianco la Fondamenta dei, Fondamenta di faccia ai) a S. Gregorio. Buon numero d'infedeli contossi sempre in Venezia. Vi primeggiavano gli Ottomani qui concorsi per ragione di traffico, oppure fatti schiavi dai nostri quando nel 1099 presero parte alla prima crociata, o quando nel 1122 ritornarono in Asia per dar aiuto a Baldovino II, nonché in altre occasioni di guerra colla Porta. Da principio però mancava un locale, ove si avessero potuto accogliere coloro, che, essendo fuori della chiesa di Cristo, bramavano di entrarvi, e frattanto la pietà delle private persone sopperiva al difetto, alloggiandoli or qua or là nelle proprie abitazioni. Solo nel 1557 si pensò d'aprire, come dicono le cronache, nella parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato un ospizio a tale scopo, sulle traccie di quello che alquanto prima aveva aperto in Roma S. Ignazio di Lojola. Convien dire però che il novello istituto poco dopo si trasportasse ai SS. Apostoli, o che almeno anche in quel circondario si ospitassero catecumeni, poiché un Giacomo Malipiero così si espresse nella Condizione dei proprii beni, presentata nel 1566 al Collegio dei X Savii: «Mi attrovo nella contrà di S. Apostolo qui in Venetia una casa da statio pro indiviso con M. Marchiò Mocenigo fo de M. Zuane, nella qual abitano li Catecumeni, e pagano di fitto all'anno duc. 52; tocca in mia parte duc. 26». E qualche tempo prima, cioè il 24 febbraio 1559 M. V., morì in parrocchia dei SS. Apostoli «el Rev.do m.r pre' P.ro prior de la casa cathacumena da popletico». Questa casa dovea sorgere senza dubbio dietro la chiesa dei SS. Apostoli, in quella Corte la quale, con un prossimo Sottoportico, ed un prossimo Ramo, tuttora chiamasi «dei Catecumeni». Avvenuta frattanto nel 1571 la celebre battaglia delle Curzolari, ed aumentatosi più che mai il numero degli schiavi, si ridussero i neofiti in uno stabile più ampio, situato a S. Gregorio, accanto le vie prese per tema del presente articolo, e fabbricossi una contigua chiesetta sacra al Precursore. Ambidue questi edifici si ristaurarono nel 1727 sopra disegno del Massari. La chiesa ebbe un altro ristauro ai nostri giorni, cioè nel 1855. Ad essa, nel 1857, per cura del sacerdote Avogadro, si aggiunse un oratorio sacro a Maria, sotto il titolo della «Salette», a similitudine del tempio fondato sul monte della «Salette» in Francia, ove, come si racconta, sarebbe apparsa nel 1846 la Beata Vergine a due pastorelli, minacciando il mondo dell'ira celeste, ed invitandolo a penitenza. L'oratorio della «Salette» fu ampliato nel 1860.

Catene (Calle). Vedi Consorti.

Catullo (Calle) a S. Giuliano. Vedi Preti o Catula.

Caustico (Calle del). Vedi Venzato.

Cavagnis. Vedi Cavanis.

Cavallerizza (Calle della, Calle a fianco la) ai Mendicanti. Qui nel 1640, innalzossi un teatro sopra disegno di Giacomo Torelli da Fano, il quale inventò pure e diresse le macchine pel primo melodramma che vi si rappresentò col titolo: «La Finta Pazza», poesia di Giulio Strozzi, e musica di Francesco Sacrati. Questo teatro si chiuse nel 1647 colla «Deidamia», poesia del D. Scipione Errico, e musica di Francesco Cavalli. In progresso di tempo sopra questa area si piantò la «Cavallerizza dei Nobili», di cui parla il canonico Cristoforo Ivanovich (che viveva verso la fine del secolo XVII) nella «Minerva al Tavolino», ove descrivendo gli spettacoli che si davano a Venezia in primavera: «Talvolta», egli dice, «nel principio di questa novella stagione si gode qualche esercizio cavalleresco alla Cavallerizza. E' situata questa vicino ai Mendicanti, capace per 70 e più cavalli, oltre lo spazioso terreno scoperto che serve per la lizza. E' mantenuta da un'accademia di patrizii, che tiene stipendiato un cavallerizzo, il quale ha l'obbligo di mantenere a sue spese 4 cavalli da maneggio, tre dei quali servono per lezione del cavalcare, l'altro per correre, ritrovandosi al presente Nicolò Santapaolina. Concorre il meglio della città a questi pubblici esercizii, curiosi per la pompa e per lo splendore». L'Ivanovich nella medesima «Minerva al Tavolino» scrivendo a Francesco Pesaro, descrive pure una bella mascherata che si fece in questa cavallerizza il 27 febbraio 1679, al quale spettacolo, oltre varii patrizi, prese parte Ferdinando Gonzaga duca di Mantova. La cavallerizza medesima si rese celebre nel principio del secolo trascorso pei patrizii Geremia Loredan, ed Alvise Priuli, che vi mantenevano fino ad otto cavalli. Nel 1735 fu chiusa, e ridotta a «savoneria», ma poscia nel 1750 venne rimessa, e durò fino agli ultimi tempi della Repubblica. L'area è ora occupata dal grandioso fabbricato aggiuntosi ai nostri tempi alla «Casa di Ricovero».

Abitando presso la «Cavallerizza» dei SS. Giovanni e Paolo, in casa delle signore Pozzo, fu arrestato il 25 luglio 1755, e posto sotto i «Piombi», Giacomo Casanova.

Un luogo destinato al maneggio di cavalli diede pure il nome alla «Calle della Cavallerizza» nell'isola della Giudecca.

Cavalli (Ramo Primo, Corte, Calle, Ponte, Sottoportico e Calle dei) a S. Polo. Crede il continuatore del Berlan che tali denominazioni dipendano dalla patrizia famiglia Cavalli. Ed in vero lo scudo gentilizio di questa famiglia, in cui dovrebbero scorgersi un cavallo con sopra una fascia caricata da tre stelle, potrebbe essere quello che è posto sopra l'ingresso della «Corte Cavalli», e che, corroso dal tempo, o sfigurato all'epoca democratica, non presenta oggidì che la fascia soltanto. I Cavalli, secondo Casimiro Freschot («Li Pregi della Nobiltà Veneta» ecc.) erano antichi feudatari in Baviera. Nel secolo XIII passarono in Milano, ove coprirono considerevoli impieghi presso i Visconti, e nel secolo susseguente a Verona, ove produssero un Federico generale degli Scaligeri. Giacomo figlio del medesimo tanto segnalossi, come condottiere delle Venete milizie, nella guerra di Chioggia, che meritò d'essere aggregato con altre 29 famiglie alla nobiltà patrizia nel 1381. Morto in Udine nel 1386, fu portato a Venezia, ed ebbe un monumento sepolcrale in chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, nella quale scorgesi pure il sarcofago di Marino Cavalli che, dopo molte ambascerie onorevolmente sostenute, finì di vivere nel 1572. Il Capellari Vivaro («Campidoglio Veneto») numera altri distinti di questa famiglia, non dimenticando neppure, da quel buon uomo che egli era, «Lodovico di Cavalli figliuolo di Dondadio, senatore d'incontaminati costumi e di segnalata bontà, celebrato dall'Egnatio per vivo prodigio di continenza, perché mai si congiunse colla moglie che a solo fine di generare e senza verun venereo diletto, vestiti e coperti in modo che non potessero con alcuna parte nuda del corpo toccarsi». Questa coppia virtuosa viveva circa il 1520.

Alcune famiglie Cavalli non patrizie imposero lo stesso nome ad altre vie della città.

Cavanella (Calle) a S. Giovanni Nuovo. La Descrizione della contrada di S. Giovanni Nuovo, fatta nel 1713, parlando delle case, onde questa Calle è formata, le dice poste «alla Cavanella». Lice adunque supporre che nel Rivo, al quale la suddetta calle fa capo, ci fosse altre volte una piccola «cavana», ossia uno di quei ricetti in cui ricovrano le barche, specialmente nottetempo, per la loro sicurezza. Che poi per lo passato molte «cavane» esistessero nei Rivi interni della città, vedilo nel Tentori: «Della Legislazione Veneziana sulla preservazione delle Lagune, Venezia 1792».

Cavanis (Fondamenta, Ponte) a S. Maria Formosa. La famiglia Cavanis, o Cavagnis, venne da Bergamo, ed ebbe per lungo tempo bottega da merli d'oro in «Campo di S. Bartolomeo», alla insegna di «S. Antonio». Un Antonio Cavanis, che era nato nel 1663, e che nel 1696 aveva sposato Girolama Tetta, comperò in questo sito un palazzo, il quale nella Descrizione della contrada di S. Severo pel 1713 è chiamato «la casa granda al ponte ancora in fabbrica, acquistata dal S.r Antonio Cavanis, che era della N. D. Morosini Savorgnan». Ed il citato Antonio affermò nella Condizione de' suoi beni, presentata in quel torno ai X Savii, che questa casa, la quale allora rifabbricavasi, era posta in parrocchia di S. Severo, non lungi da S. Maria Formosa, e precisamente «in cao Cale longa, zo del ponte», allora appellato «de ca' Morosini». Antonio Cavanis offerse poscia 100 mila ducati alla Repubblica travagliata dall'ultima guerra contro il Turco, laonde nel 1716 venne ammesso al patriziato coi discendenti. Questa famiglia andò estinta nel 1784 in un Domenico figliuolo dell'aggregato.

Del «Ponte Morosini», poscia «Cavanis», parla il Sanudo sotto la data del 14 febbraio 1524 M. V. con le seguenti parole: «In questa sera, a S. M. Formosa, in la caxa sul ponte de cha Morexini, per una compagnia di famegi di zentilomeni, fo fatto una festa e balli, quali missono un duc. per homo, feno un signor, et tutti con la sua putana, et ballono tutta la notte, et cenono lì, né volse alcuno ve intrasse, sì che, a concorentia di nobili, li famegi fanno festa. Fo mal fato, et li Cai di X dovea proveder».

Il palazzo venne in questi ultimi anni comperato dalla Chiesa Evangelica di Venezia, la quale lo fa servire alle proprie riduzioni.

Cazza (Corte Prima, Corte Seconda, Ramo Corte della) a S. Giacomo dall'Orio. Un «Pietro Cazza da S. Jacomo» era nel 1408, e nel 1416 decano del Sestiere di S. Croce nella Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista. Anche un Jacomo Cazza appartenne qual confratello alla Scuola medesima. Egli morl nel 1421, come hanno i registri di quel pio sodalizio, ove si legge: «Jacomo Caza laner, da S. Jachomo da lorio, passò di questa vita a dì 27 marzo 1421, et a dì 28 del dito fo seppellito a S. Zane». La famiglia di cui parliamo è forse la stessa che più tardi passò ad abitare nella prossima parrocchia di San Giovanni Decollato. Vedi l'«Anagrafi» dei Provveditori alla Sanità pell'anno 1633.

Cazziola (Rio, Ponte Primo, Sottoportico del Primo Ponte, Fondamenta, Ponte Secondo della) a S. Maria Maggiore. Trovasi che in parrocchia della Croce, a cui erano soggette queste strade, viveva una famiglia Cazziola verso il finire del secolo XV. Alcuni individui di essa, come appare dalle Mariegole delle Scuole Grandi, esercitavano l'arte della lana.

Celestia (Campo, Rio della). La chiesa di «S. Maria Celeste», od «Assunta in cielo», detta poi corrottamente della «Celestia», incominciossi nel 1199 per opera dei Celsi. Nel 1237 venne consegnata ad alcune monache dell'ordine Cistercense, venute da Piacenza, che la compirono, e v'innalzarono accanto un convento. Queste monache vivevano sotto la direzione degli abati Cistercensi di Piacenza, detti della Colomba, ma il cattivo costume non tardò a menare grandissimi guasti fra le medesime. Dalle «Raspe» siamo accertati che nei secoli XIV e XV parecchie di esse non solo accoglievano gli amanti nel proprio chiostro, ma si ritrovavano con loro nella villa di S. Elena in quel di Trevigi, oppure in qualche luogo del Padovano, ove «explebant lasciviam et sacrilegia». Forse ciò avveniva perché le monache di quei tempi, come insegnano i «Diarii» del Priuli, sotto qualche pretesto, ottenevano dalla Santa Sede di ridursi per uno o più mesi in famiglia, e si davano bel tempo in modo che il Senato supplicò la Corte Romana di più non concedere tali pericolose licenze. A far rivivere adunque la disciplina, Eugenio IV nel 1442 destinò a visitatori delle monache della Celestia San Lorenzo Giustiniani, allora vescovo Castellano, e Fantino Dandolo, Protonotario Apostolico. Esse nel principio del secolo XVI furono poste eziandio sotto il governo dei veneti patriarchi. Ma non sì tosto cessarono gli scandali, poiché narrano i «Diarii» del Sanudo che nell'anno 1509 le monache della Celestia ballarono tutta una notte con alcuni giovani patrizii al suono di pifferi e trombe, e che nel 1525 recatosi il patriarca a rimproverarle della loro condotta, ne afferrò una, di casa Tagliapietra, e le recise le treccie, ma che, volendo poi imprigionarne due altre fuori del convento, tutte si misero alla porta tumultuando, e lo costrinsero a desistere dall'impresa. Giunto l'anno 1569, e caduta pell'incendio dell'Arsenale gran parte della chiesa e del convento della Celestia, le monache dovettero ritirarsi prima nelle case paterne, e poi nel monastero di S. Giacomo della Giudecca fino alla rifabbrica dei loro edifici, che non tardò molto a succedere. La chiesa doveva rifarsi sopra il modello dello Scamozzi, ma invece, per questioni insorte fra l'architetto e le monache, si elesse un altro disegno. Essa venne consecrata nel 1611 da Francesco Vendramin patriarca di Venezia. Nel 1810 fu chiusa, ed aggregata all'Arsenale, ed il convento si diede alle truppe della Marina. Ora serve alla scuola dei Macchinisti della Marina medesima.

Nel convento della Celestia rimase ascoso per anni sette il B. Giordano Forzatè, Benedettino di Padova, perseguitato dal tiranno Ezzelino. Venuto a morte il 7 agosto 1248, ebbe sepoltura in chiesa della Celestia, ma poscia fu trasportato a Padova ad istanza delle monache di S. Benedetto di quella città. Vedi Tommasini, «Vita del beato Giordano».

Celsi (Calle, Corte) a S. Ternita. Il leggersi che la famiglia Celsi, insieme alla famiglia Sagredo, costrusse nell'undicesimo secolo la prossima chiesa di «S. Ternita» fa supporre ch'essa abitasse in questa contrada fino da remoti tempi. Tale supposizione poi si converte in certezza quando si considera che Nicolò Celsi, eletto nel 1269 Procuratore di S. Marco, era da «S. Ternita». Circa gli stabili che i Celsi possedevano a S. Ternita, il Cicogna, nelle sue illustrazioni alla chiesa della Celestia, riporta il seguente brano manoscritto dell'ingegnere Casoni: «Un documento 1565, 20 marzo, ed è una scrittura di Vincenzo Morosini, Giacomo Soranzo, e Paolo Tiepolo, cavalieri e procuratori, estesa in esecuzione della Parte dell'Ecc. Cons. di X et Zonta 20 Novembre 1564, che tratta sul progetto di isolare l'Arsenale, porge sicuro indizio per istabilire che l'odierno palazzo di Ca' Donà, situato a S. Ternita, al Rivo di questo nome, era in allora case dei Celsi, e case dei Celsi erano i contigui locali fino all'odierno Rivo detto delle Gorne, anzi un piccolo vacuo di strada in quella località, fra il palazzo Donà e quello dei Pitteri ed altre case, conserva tuttora il nome di Corte di Ca' Celsi». Anche nel 1740 la famiglia Celsi notificò ai X Savii di possedere una «casa da statio in contrà di S. Ternita», nonché altre contigue «in detta contrà», e precisamente in «Corte de Ca' Celsi». Questa famiglia da Roma si trasferì a Ravenna, e di là a Venezia, ove godette della podestà tribunizia.

Un Lorenzo Celsi venne fatto doge nel 1361, e sotto di lui i Veneziani ricuperarono Candia. Il Petrarca, che ne era molto intrinseco, così nelle «Senili» ebbe ad esprimersi: «Dux Laurentius vere Celsus vir, nisi me forsitan amor fallit, et magnitudine animi, et sanctitate morum, et virtutum studio; super omnia, singulari pietate, atque amore patriae memorandus». Raccontasi che appena Lorenzo salì al soglio ducale, Marco suo padre si mise a girare per la città senza berretto, o cappuccio, acciocché non dovesse levarselo quando passar doveva innanzi il figliuolo, che riputava, per ragione di natura, di sé minore. Il doge, per togliere la debolezza del vecchio, fece porre una croce sopra il proprio berretto ducale. Allora Marco, vedendo il doge, scoprivasi dicendo — Saluto la croce, e non mio figlio che deve essermi inferiore. — D'un Giacomo Celsi così parla il Cod. 183, Classe VII della Marciana; «Giacomo Celsi q. Giacomo fu huomo prepotente, insolente, et teneva la contrada di S. Ternita sempre inquieta. Hebbe travagli di giustitia per questo. Arrivò a segno che, havendo tolto la donna e facoltà a s. Alvise Barbaro q. s. ... Jacomo, e lui de disperation havendolo ferito in piazza con una coltellata sul collo, fu ripreso il proceder del Celsi, e non del Barbaro, e condannato il Celsi. E questo Celsi anco fece trucidare un povero sartor perché voleva il suo, onde fu bandito, ma avanti la sua morte si liberò. E non fu più considerato niente, abbenché fosse stato in armata». Probabilmente quegli di cui si tratta è quel Giacomo, nato nel 1643 da Giacomo Celsi e da Andriana Boldù, il quale dimostrò il proprio valore combattendo i Turchi, e nel 1690 fu uno degli ambasciatori destinati ad incontrare il doge Francesco Morosini reduce in patria. Il ramo patrizio dei Celsi si estinse nel 1789 in un Francesco Maria q. Angelo q. Lorenzo, il quale lasciò una sorella da lui per forza chiusa nel convento del Sepolcro, ove giammai volle farsi monaca, e donde uscì alla morte del fratello.

Cendai (Calle dei) a S. Luca. Afferma il Marin («Storia Civile e Politica del Commercio dei Veneziani») che i nostri fabbricavano fino dal 1240 (e chi sa quanto tempo prima?) «pannos ad aurum, purpuram, et zendatum». In tempi più vicini l'abbigliamento delle nostre dame, è dell'altre femmine civili, componevasi la mattina di una gonna di zendado nero («vesta»), e d'una striscia della medesima stoffa, appuntata sopra il capo che terminava alquanto attorcigliata ai lombi, e con due capi svolazzanti sul tergo. Questa striscia era detta, per antonomasia, il «Cendà» o «Cendaletto», ed abbellita nei contorni da una garza trasparente, copriva e scopriva, con piacevole malizia, i lineamenti donneschi. Vorrebbe il Fontana che da una fabbrica appunto di tali drappi fosse denominata la «Calle dei Cendai» a S. Luca. Noi però non troviamo alcuna memoria di questo fatto, ed anzi, sapendo che in parrocchia di S. Luca abitava nel secolo scorso una famiglia Cendali, o Cendai, siamo indotti a credere che da ciò piuttosto abbia avuto origine la appellazione presente.

Cendon (Calle) a S. Giobbe. Fiancheggia un piccolo palazzo di buona architettura del secolo XV, sotto il poggiuolo del quale scorgesi un'arma gentilizia, che nel mezzo dello scudo porta un palo caricato da tre stelle. Sul lembo superiore ed inferiore della medesima havvi scolpita la seguente iscrizione: Centonia Fam. Nob. Olim Rom. Parm. Q. Ex Qua Pata. Et Vene. Civil. Mccccxxxvii. Da queste parole si rileva che la famiglia Centon, o Cendon, fiorì un tempo a Roma e Parma, da cui passò a Padova e Venezia. Le nostre cronache tuttavia la dicono venuta da Chioggia, e ricordano che faceva per arma un leone rosso in campo d'oro, passante sopra una sbarra azzurra addentellata. Quest'arma trovasi eziandio replicatamente scolpita nella cappella eretta dai Centon in S. Giobbe, dedicata un tempo a S. Pietro d'Alcantara, ed ora a S. Margherita. Sospetta quindi il Cicogna che la famiglia di cui parliamo abbia col progresso del tempo abbandonato l'antico suo stemma per assumere quello da noi non ha guari descritto. I Centon, per testimonianza delle cronache, furono in grande riputazione fra i mercanti di piazza, s'imparentarono con nobili famiglie, acquistarono molte ricchezze, e fabbricarono varii stabili in «Cannaregio».

Del palazzo Centon fanno cenno i Diarii del Sanudo, sotto l'agosto 1501, colle parole seguenti: «E' da saper che za è do mesi che in questa terra, per opera di provedadori di Comun, si cava el rio di Canarejo longo passa 600, et par che, per mezo la caxa dil Centon, tentor, hanno trovato una fontana resorzente, che abonda de acqua assai, benché salmastra, sia; ma zerchano cavar tanto sotto fin che vedano la origine di la cossa. Et per il coleio fo comandato non si vardi a spexa per veder si detta fonte pol reussir a perfetion, ma poi non trovono nulla, et si perse il tempo a cavar».

Cenere (Calle) a S. Alvise, presso la «Fondamenta della Sensa». E' probabile che depositi di cenere abbiano dato il nome a questa Calle, come alla «Corte della Cenere» a S. Giuseppe. Dalle «Risposte, ossia Scritture al Senato dei Cinque Savii alla Mercanzia», si rileva che nel 1579 i mercatanti di lana avevano richiesto un provvedimento acciocché la cenere d'Istria e Schiavonia, solita a condursi a Venezia, non venisse portata a Ferrara, Ancona e Rimini, pel danno che ne pativano l'Arsenale, la Camera del Purgo, ed i fabbricatori di sapone. Anche a tale industria attendeva, come sembra, una classe particolare di persone, poiché nell'Anagrafi pell'anno 1633, ordinata dai Provveditori alla Sanità, troviamo fra le varie specie d'artieri un «Girolamo cenerer».

Non lungi dalla «Calle della Cenere» a S. Alvise, all'odierno N. A. 3235, esisteva la casa di Luigi Dardano, eletto Gran Cancelliere della Repubblica nel 1510, e soggetto di grandissimo valore. In essa scorgevasi un bel lavello col busto sovrapposto del Dardano, e coll'iscrizione: Ludovicus Dardanus An. xxxiiii. Questa casa venne rifabbricata nel 1843.

Centani (Calle, Ramo, Campiello) a S. Tomà. All'ingresso della «Calle Centani» sorge un palazzo archiacuto, che sulla porta ha l'effigie di Carlo Goldoni con sottoposta iscrizione accennante alla nascita colà avvenuta del sommo commediografo nel 1707. Questo palazzo apparteneva, fino dalla sua origine, ad una delle cittadinesche famiglie Rizzo, ed a quella precisamente che portava nello Stemma il riccio, o porco spino, colle rose sottoposte. Lo stemma suddetto, eguale a quello che sta sopra una tomba dei Rizzo in chiesa dei Frari, scorgesi tuttora sopra la scala scoperta della corte, e meglio scorgevasi sopra la «vera» del pozzo, oggidì trasportata al Civico Museo. Abbiamo memoria d'un «Zuane Rizzo zogelier» da S. Tomà, una figlia del quale sposò nel 1495 Leonardo Loredan q. Andronico, ed un'altra nel 1501 Giacomo Gabriel q. Bertucci. Il palazzo medesimo viene poi conosciuto sotto il nome di palazzo Centani, poiché più tardi la famiglia Rizzo appigionavalo alla patrizia famiglia Centani, Zentani, o Zantani, venuta in tempi antichi da Jesolo. «Laura Rizzo» notificò nel 1537 di possedere una «casa da statio a S. Tomà; sta m. Marco Zantani». E «Marco Zantani fo de m. Antonio» confermò tal fatto l'anno medesimo nella sua notifica. Anche il Pivoto («Vetera ac nova ecclesiae S. Thomae Apostoli Monumenta») scrive che la parrocchia di S. Tomà confinava «partim in Calli de Ca Centani a familia Centani sic denominata, quae quidem familia extabat anno 1550 in contracta, ut habetur ex libris ecclesiae». Il suddetto Marco Centani nacque da quell'Antonio, prode difensore di Modone, che, dopo la resa della piazza, venne segato vivo fra due tavole nel 1500. Fu poi padre di quell'Antonio, che contribuì nel 1556 alla rifabbrica della chiesa degli Incurabili, anzi, come vogliono alcuni, diede il modello della medesima. In quest'ultimo si estinsero i Centani patrizii nel 1567, sebbene altri dicano che ciò avvenisse in quella vece in un Antonio q. Zaccaria, q. Giovanni nel 1576, epoca della pestilenza.

Un ramo della medesima famiglia, decaduto, fino dal secolo XIV, dal patriziato, perché «negligente», come attestano le «Genealogie» di Marco Barbaro (Ms. Cicogna), «ad essere del Consiglio», diede il nome al «Sottoportico e Corte Centani», a S. Vito. Di questo ramo fu Lorenzo, governatore dell'ospedale degli Incurabili, che, con testamento 1603, 14 decembre, lasciò parte delle sue facoltà all'ospedale suddetto; nonché Andrea, cugino di Lorenzo, vescovo di Limisso. Le case poi che i Centani cittadini possedevano a S. Vito appartenevano anticamente alla famiglia Cappella, ed erano passate in essi pel matrimonio d'Angela Centani, sorella del vescovo Andrea, con Febo Cappella, secretario del Consiglio dei X nel 1557, e nipote di quell'altro Febo Cappella che nel 1480 era stato eletto Cancellier Grande.

Cerchieri (Ramo Calle, Calle dei) a S. Barnaba. Che la «Calle dei Cerchieri» sottoposta un tempo, come adesso, alla parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio, avesse anche nel secolo XV il nome medesimo e che colà anticamente stanziassero «cerchieri» o cerchiatori di botti, è provato dal seguente fatto successo nel 1420. Avendo un «Jacopo Brustolado cerclarius», dai SS. Gervasio e Protasio, incontrato rissa con altri in «calli cerclariorum», ed essendo stato ripreso da un Bartolammeo Allegrin, Uffiziale alla Giustizia Nuova, «imposita poena quo non faceret brigam», gli rispose: «aspeta che te darò mi la pena», e gettandolo a terra, gli fece delle contusioni coi pugni sulla faccia e negli occhi. Perciò venne condannato a tre mesi di carcere con sentenza 26 febbraio 1420 M. V. Anche nel 1582 un Francesco Gussoni notificò di possedere «in Calle di Cerchieri», nella parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio, «una casetta con la bottega: tiene ad affitto m.r Zuane cerchier. Item nella detta calle una casetta et bottega; tiene ad affitto m. Zorzi cerchier».

I «Cerchieri» erano uniti in divota confraternita, dedicata a Maria Vergine, nella chiesa dei SS. Gervasio e Protasio, sotto l'antico portico della quale avevano eretto alla loro protettrice un ornatissimo altare.

Cereri (Fondamenta dei) a S. Maria Maggiore. L'arte dei «Cereri», memoria della quale, oltre che in questa Fondamenta, trovavasi per lo passato in un prossimo Ponte appellato della «Cereria», era un colonnello di quella degli «Spezieri da grosso», distinta col titolo d'«Università». I Veneziani traevano la cera vergine dal Levante, nonché dalla Moldavia e dalla Valacchia, e, per la particolare condizione della città, potevano depurarla senza che la polvere l'insudiciasse. In gran conto si tenevano adunque le candele ed i torchi veneziani, 24 a' bei tempi n'erano le fabbriche, ed ascendeva a tre milioni e mezzo lo spaccio esterno, senza contare l'interno, grandissimo pur esso, specialmente pel vero scialacquo di cere, solito a farsi nelle sacre funzioni. Questo spaccio però discese nel secolo XVII ad un milione e mezzo, quindi ad un milione, e finalmente nel secolo decorso a lire 600 mila soltanto. La causa prima della decadenza fu la cereria grande di Trieste, fornita di grossi capitali e lavoranti veneti, ed esente dai dazii. La fortuna della medesima rapì le nostre spedizioni per Napoli, Toscana, Lombardia, e Germania. Nel secolo XVIII era celebre in Venezia un G. Battista Talamini, che aveva bottega da speziale a Rialto, all'insegna della Fonte, e che morì il 10 aprile 1760. Egli, mediante un suo particolare secreto, e ferri da lui inventati, giunse il primo a colorire, tirare, e lavorare la cera in modo da imitare con essa ogni qualità di piante, fiori, frutti, ed animali, dandole inoltre tanta durezza da renderla, almeno per qualche tempo, atta a sofferire, in foggia di tazze, o di vasi, qualunque liquore.

Cereria (Calle della) a S. Giobbe. Da una cereria, che ultimamente apparteneva alla ditta Machlig, ma che ora più non esiste.

Per lo passato essa era tenuta da un Andrea Bortolotti, il quale sul muro interno dell'orto aveva fatto scolpire nel 1819 un'epigrafe dettata dall'ab. Angelo Dalmistro, allusiva alla visita che fecero alla Cereria l'imperatore Francesco I, e l'arciduca Rainieri, vicerè del regno Lombardo-Veneto (Vedi : Cicogna, «Inscr. Ven.», vol. VI, p. 720).

Ceresa (Campiello) a S. Leonardo.

Cerva (Sottoportico e Corte della) a S. Bartolammeo. In «Corte della Cerva», a S. Bartolammeo, esisteva nel 1740 «l'Osteria della Cerva», condotta da un «Guglielmo Berninza», in uno stabile appartenente al «Vicariato di S. Bartolammeo». Questa osteria era molto antica, poiché in una sentenza dei Signori di Notte al Criminale, 5 settembre 1370, trovansi le parole: «in calli a Cerva».

Chiara (Corte) a S. Eustachio. Appellossi in tal guisa perché gode il benefizio della luce più che un'altra prossima Corte, detta a ragione «Scura».

Chiesa (Calle della, Calle a fianco, Calle dietro la) a San Giovanni Nuovo. E' inutile lo spiegare perché alcune strade di Venezia si chiamino della Chiesa, o della Sacrestia. L'origine di tali denominazioni balza di tratto alla mente del lettore.

Chiovere (Calle larga o Campiello, Ramo, Ramo e Corte delle) a S. Rocco. S'appropria questa denominazione, altrove ripetuta, ad alcuni vasti tratti di terreno, ove, dopo la tintura, asciugavansi i panni lani. Tali luoghi, come scrive il Gallicciolli, servivano anticamente ai pascoli, ed erano chiusi all'intorno. Perciò negli antichi documenti si denominano «clauderiae», da cui «chiovere». Senonché altri, con maggior verità, fanno derivare la voce «chiovere» dai chiovi, o chiodi, attaccati agli assi, sopra i quali stiravansi i panni. Certamente esisteva l'arte dei «Chiovaroli», che, quando andò decadendo il lanificio, decadde anch'essa, ma che mantenevasi ancora al tramonto della Repubblica, senza garzoni, senza lavoranti, contando soltanto otto capi maestri, e sei loro figliuoli. I «Chiovaroli» si raccoglievano in chiesa di S. Geremia sotto l'invocazione di S. Francesco di Paola.

Le «Chiovere» si prestavano talvolta al giuoco del pallone, ed alle caccie dei tori, fra le quali era celebre quella che davasi nelle «Chiovere di Cannaregio», chiamata la «Festa dei Diedi», perché gl'individui della famiglia Cavagnis, di professione beccai, invitavano ad essa in un giorno di carnovale i Diedo da S. Lorenzo, con quanti parenti, amici, ed aderenti volevano condur seco, imbandendo a tutti una lauta mensa, che fu talvolta di 80 coperti. La caccia era ricca di 100 tori, ed i tiratori venivano eletti dai Diedo per via di viglietti. Vedi M. Battagia, «Cicalata sopra le Cacce di Tori Veneziane. Venezia, Merlo, 1844».

Le «Chiovere» di S. Rocco appartenevano alla chiesa di San Pantaleone per lascito del pievano Jacopo Bertaldi, morto nel 1315. Nel 1390 quella chiesa le diede a livello ad un Francesco dall'Oro, dai discendenti del quale passarono poscia col medesimo titolo alla Confraternita di S. Giovanni Evangelista.

Chioverette (Calle delle) sulla Fondamenta di Cannaregio. Le «chioverete» sono piccole «chiovere». La Descrizione della contrada di S. Geremia fatta nel 1713 pone in «Calle delle Chioverette», sulla «Fondamenta di Cannaregio», un «loco ove si fabbricano panni ad usanza di Olanda, Chiovere, Tentoria, campagna, horto, tezze, casa da statio, ed altre casette e botteghette, fondo dell'Ill.mo Sig. Contin Carara; et li sudeti stabili sono stati fabricati dal consortio Carara, Cotoni, Pietro Comans, e Gabriel Berlendis, e l'horto sud.o delle Chiovere è posseduto dal sud.o Carara, et al presente il tutto è in lite senza affittanza».

Altre «chioverete», o piccole «chiovere», diedero lo stesso nome ad altri siti di Venezia.

Chiuso (Ramo) all'Angelo Raffaele. E' una strada senza riuscita; un «cul de sac», come dicono i Francesi.

Cicogna (Calle) a S. Moisè. E' questa l'unica strada di Venezia in cui, secondo il Dezan, conservasi ricordo dei patrizii Cicogna. Noi però non la troviamo così denominata negli Estimi della Repubblica, che giungono al 1740, i quali neppure fanno cenno che qui domiciliasse la famiglia Cicogna. Essa quindi deve avervi domiciliato più tardi, e veramente nei Necrologi Sanitarii, sotto la data del 27 agosto 1789, troviamo morto in parrocchia di S. Maria Zobenigo, nel cui raggio giurisdizionale la «Calle Cicogna» anche per lo passato comprendevasi, «il N. U. Girolamo Cicogna fu di s. Angelo, d'anni 82, sogieto da molti anni a malattia di vescica».

Questa famiglia, venuta dalle spiaggie confinanti, fu ammessa al M. C. nel 1381 in un Marco, che esercitava l'arte dello speziale da droghe, e che, in occasione della guerra di Chioggia, si rese benemerito dello Stato. Un di lui discendente, per nome Bernardo, essendo nel 1496 capitano di due galere, combattè, vinse, e fece prigioniero Peruca, feroce corsaro, avendo, per mezzo d'esperti nuotatori, fatto levare le stoppe al navigio sopra cui era imbarcato l'avversario, che si vide in tal guisa nel pericolo d'affondare. Un altro Marco Cicogna, sopraccomito nell'armata che pugnò alle Curzolari nel 1571, sostenne colla sola sua galera l'impeto di sei turchesche, e poscia, aiutato dai suoi, cinque ne fugò, ed una ne prese, uccidendo il capitano nemico, e togliendogli il «fanò» dorato con tutte le spoglie militari, delle quali permise la Repubblica che nell'Arsenale fosse eretto un trofeo. Egli fu fratello di quel Pasquale, eletto doge nel 1585, che sotto il suo regime vide innalzate alcune delle più belle fabbriche di Venezia, e che, morto nel 1595, fu sepolto in chiesa dei PP. Crociferi (poscia dei Gesuiti), con grandioso monumento, disegnato da Girolamo Campagna.

In fondo della «Calle Cicogna» a S. Moisè abitava Isabella Teotochi Albrizzi, che Giorgio Byron appellò la «Stael Veneziana», decessa il 27 settembre 1836.

Cimesin (Ramo) a S. Rocco, in «Chiovere». Vedi Castel Cimesin (Calleselle ecc. del).

Cimitero (Calle del) a S. Francesco della Vigna. Questa denominazione, anche altrove ripetuta, proviene dai cimiteri che anticamente tutte le chiese parrocchiali e di regolari avevano all'intorno. Di qua provennero eziandio l'altre denominazioni di «Campo Santo» e «Calle dei Morti». Alcuni di tali cimiteri coll'andar del tempo furono tolti o perché ingombravano le strade, come avvenne nel 1465 di quello dei SS. Filippo e Giacomo, o perché, essendovi stati sepolti cadaveri d'appestati, non si volle più toccarli. Seppellivasi anche nelle chiese, ma tale onore, per quanto si rileva da un atto del patriarca Girolamo Querini (28 ottobre 1530), avrebbe dovuto spettare solamente ai santi, prelati, re, principi, duchi, marchesi, benefattori delle chiese, ed a quelli che vi avevano sepoltura propria. Ogni eccezione a questa regola era considerata dal patriarca un abuso di cui lamentavasi. Finalmente, avendo l'imperatore Napoleone I ordinato nel 1808 che anche in Venezia, come altrove, le tombe si locassero lungi dalle abitazioni dei vivi, fu destinata l'isola di S. Cristoforo a cimitero comunale, e nel 1826 vi s'aggiunse anche la prossima isoletta di S. Michele.

Cinque (Calle e Sottoportico dei) a S. Giovanni di Rialto. Dal magistrato dei «Cinque Anziani», o «Provveditori», o «Signori alla Pace». Sembra che esistesse in questo sito fino dal 1341, leggendosi nel libro «Spiritus» sotto tal data: «Stationes vero draporum aperiri debeant super Calli posteriori, qui tenet ab ecclesia Sancti Joannis Confessoris usque ad scalas V de Pace». Dopo la metà del secolo XVI aveva però mutato residenza, poiché «Sebastian Malipiero fo de m. Polo» notificò nel 1566, coi fratelli e nipoti, «in contrà de S. Zuane de R.to, in calle, ove solevano star li signori cinque dalla pase, un poco de aiere». Notificò pure di possedere colà, colla sorella e cugini, «il luoco ove solevano ridursi gli mag.ci s.ri cinq. dalla pase», il quale veniva allora tenuto a pigione da «Batt.a de Cristoforo mar.te da vin». Negli ultimi tempi della Repubblica il magistrato suddetto stanziava nel palazzo delle «Beccherie» a S. Matteo di Rialto.

Gli «Anziani alla Pace» erano cinque gentiluomini incaricati di invigilare sulle minute azioni della plebe, e giudicare sulle risse, in cui però non si avessero oltrepassati i confini di leggere offese corporali. Vuolsi istituita questa magistratura verso l'870, e vuolsi pure che sino al 1295 sia stata esercitata da soli ecclesiastici. Ad ogni modo negli ultimi tempi della Repubblica non era che un beneficio semplice di puro titolo, senza veruna ingerenza in affari criminali. Correva quindi il proverbio: «Apelarse ai Cinque alla Pase», per dire: «Ricorrere a chi non ha diritto di giudicare».

Civràn (Calle) a S. Giovanni Grisostomo. Molto antica è la famiglia Civran in Venezia, se dicesi aver cooperato all'elezione del primo doge, seguita nel 697. Il Malfatti la fa provenire da Cervia (città della Romagna), ed un cervo d'argento, passante in campo azzurro, essa porta nel suo stemma gentilizio. Un Pietro Civran, essendo nel 1345 provveditore dell'armata contro Zara ribelle, ruppe il re d'Ungheria, venuto al soccorso della piazza combattuta, che poscia s'arrese. Un Andrea, provveditore nel 1511 delle milizie Albanesi nell'Istria, preservò la terra di Muggia, vinse Cristoforo Frangipane capitano imperiale, e nel 1513, provveditore generale in terra ferma, tenne a freno gli Ungari, represse l'audacia dei Turchi, e cinse d'assedio Crema. Poscia nel 1528, capitano della cavalleria Albanese nella Puglia, ricuperò molti luoghi di quella provincia dai Cesarei in favore dei collegati Francesi, facendo prigione il principe di Bisignano. Morto in Manfredonia a cagione delle continue fatiche, e trasportato a Venezia, ebbe nel 1572 un monumento sepolcrale in chiesa dei Carmini per cura del figlio Pietro, capitano famoso anch'egli specialmente nel 1570 e 1571 contro i Turchi. Questa famiglia si gloria altresì d'un Antonio, che nel 1603 fece strage dei Corsari, nel 1614 fu capitano in Golfo contro gli Uscocchi, ed assolto nel 1617 da ingiuste accuse, si vide promosso in seguito al grado di Provveditore generale d'armata. Né punto degeneri furono i di lui figli, fra i quali Bertucci si distinse nel 1649 a Fochies, Giuseppe venne eletto nel 1659 vescovo di Vicenza, e Pietro, generale in Dalmazia, predò ed arse nel 1674 dieci galere di corsari. Un ramo dei Civran possedeva a S. Giovanni Grisostomo un palazzo che ha il prospetto sul «Canal Grande», disegnato dal Massari, ma che in origine era d'architettura moresca, di cui rimane qualche vestigio nel cortile, ed in alcuni ornamenti. Un altro ramo possedeva un palazzotto a «S. Tomà», non lungi dagli stabili della famiglia Dandolo, laonde abbiamo in quel sito la «Calle Dandolo o Civran», e la «Calle del Campanile detta Civran». Il palazzo Civran a S. Tomà, che prospetta pur esso il «Canal Grande», e che scorgesi inciso nella raccolta del Coronelli, era nel secolo passato in deperimento, laonde Nicandro Jasseo v'allude col verso:

Artificisque manum expectat Civranus amicam.

 

Clero (Calle larga del) a S. Vitale. Da case spettanti alle Congregazioni del Clero Veneziano per lascito d'un Giovanni Giusto nel 1224. Queste case, come da lapide, furono restaurate nel 1842.

Le nove Congregazioni del Clero, dette anche «Chieresie», sono alcune riunioni di sacerdoti, formate allo scopo di suffragare i defunti con pubbliche preghiere, ed accrescere col loro intervento il decoro delle sacre funzioni. Il primo abbozzo di esse se lo ebbe circa all'anno 977 per la pietà del santo doge Pietro Orseolo. Presero più regolare conformazione nel duodecimo secolo, in cui, per le pie largizioni dei benefattori, ne vennero fondate sei, cinque delle quali innanzi l'anno 1123, e la sesta innanzi il 1192. Le cinque primitive furono quelle di S. Michele Arcangelo, di S. Maria Mater Domini, dei SS. Ermagora e Fortunato e di S. Silvestro; sesta fu quella di S. Luca. Le tre che susseguono, di S. Paolo, di S. Canciano, e del SS. Salvatore, ebbero principio nel progressivo decorrere del secolo XIII. Il clero delle nove Congregazioni, possiede pure alcuni stabili sulla «Fondamenta dei Tolentini», come insegna una iscrizione posta presso la Calle perciò detta pur essa «del Clero».

Codognola (Calle) a S. Simeon Piccolo.

Coletti (Fondamenta). Vedi Moro.

Collalto (Calle) a S. Stin. Conduce ad un palazzo, che ha una piccola, ma graziosa facciata sul rivo di S. Agostino. Esso trovasi inciso nelle «Singolarità di Venezia» del Coronelli sotto il nome di «palazzo Zane» perché allora apparteneva a tale famiglia. Vedi Zane (Calle). Poscia passò nella famiglia Venier, dalla quale nel 1784 venne venduto ai Collalto, che vi raccolsero molte medaglie ed antichità, unitamente a scelta libreria, le quali cose tutte andarono disperse nel 1810.

I Collalto, di chiara stirpe Longobarda, acquistarono fino da tempi antichissimi molte terre e possessioni nella Marca Trivigiana, fabbricandovi il castello di Collalto, donde trassero il cognome, e quello di S. Salvatore. Ebbero la beata Giuliana recatasi nel 1222 a Venezia, ove fondò la chiesa ed il monastero dei SS. Biagio e Cataldo alla Giudecca. Ebbero pure un patriarca d'Aquileja, ed un vescovo di Ceneda che, essendo stato poscia trasferito alla diocesi di Feltre e Belluno, venne ucciso nel 1321 dai satelliti di Guecellone da Camino. La famiglia dei conti di Collalto fu ammessa al veneto patriziato con duplice aggregazione, cioè nel 1306 in un Rambaldo, figliuolo d'Ensedisio, ed in un altro Rambaldo, figliuolo di Pietro Orlando, nel 1449. Lungo poi sarebbe l'annoverare tutti i valorosi militari che essa produsse, fra i quali ci piace rammentare soltanto quel Collaltino per cui l'infelice Gaspara Stampa compose le sue rime, e forse morì di dolore nel 1554.

Dalla medesima famiglia desunse il nome anche la «Fondamenta Collalto», ora «Rio Terrà», verso il «Campo di Marte». Trovasi infatti che colà nel 1797 Maria Bernardo Collalto possedeva venticinque case.

Colomba (Campiello della) a Castello. Un «Salvatore Colombo» aveva due case in questo sito nel 1713. Così la Descrizione della contrada di S. Pietro di Castello, fattasi in quell'anno dai X Savii. Anche nei Necrologi Sanitarii: «Adì 29 luglio 1750. Silvestro di Francesco Colombo. S. Pietro di Castello».

Molte famiglie di tale cognome avevamo in Venezia, una delle quali produsse Giovanni Colombo, eletto Cancellier Grande il 18 decembre 1767. Non era però la surriferita.

Colombina (Calle, Campiello, Ramo Calle) ai SS. Ermagora e Fortunato. Questa Calle, che sbocca sul «Rio Terrà della Maddalena», ricorda colle prossime strade una famiglia cognominata «dalla Colombina» forse pell'insegna del proprio negozio. «Isabeta et Cristina da la Colombina» notificarono nel 1582 di possedere una casa, ove abitavano, nella parrocchia dei SS. Ermagora e Fortunato, in «Rio Terrà».

Un'altra «Calle Colombina» havvi in «Birri» a S. Canciano. A questo proposito rammenteremo come i Necrologi Sanitarii registrino decessa il 1° luglio 1551 in parrocchia di S. Canciano «una puta de mesi 6, fia de m. Francesco dalla Colombina», e come l'Anagrafi pel 1642 ponga fra i cittadini della medesima parrocchia l'«Ill.mo Sig. Giacomo Gambirazi, marcer alla Colombina». Esaminando poi la Descrizione della contrada di S. Canciano pel 1661, emerge chiaramente che una «Catterina relita del q. Zambat. Gambirasi» abitava allora in «Birri», sul principio della «Calle Colombina».

Una terza «Calle Colombina» apresi presso la «Fondamenta Savorgnan» in parrocchia di S. Geremia. Trovasi che colà nel 1661 un «Giacomo Colombina» abitava in una casa di Pietro Ferretti, ed un ricordo anteriore di questa famiglia nella parrocchia di S. Geremia ci vien porto dalla seguente fede mortuaria: «1601, 10 zugno, Zuane fio del q. Zuane Colombina cascado zo da una finestra d'anni 6 - S. Geremia».

Colombo (Calle, Ponte, Rio, Calle, Ramo) a S. Giacomo dall'Orio. Giacomo, Pietro, Gaudenzio, e Giovanni, figli di Giacinto Colombo e di Bartolammea Gozzi, con istrumento 20 maggio 1695, in atti di Raffaele Todeschini N. V. comperarono una casa a S. Giacomo dall'Orio dal monastero di S. Croce della Giudecca. Questa casa, per attestato della Descrizione di S. Giacomo dall'Orio del 1713, sorgeva appunto presso il Ponte, e le altre vie, che perciò si dissero «Colombo». Giacinto Colombo, padre dei fratelli suddetti, era venuto a Venezia da Tuscolano sulla Riviera di Salò, ove la sua famiglia trovavasi in agiata fortuna. Fra i di lui figli, Giovanni, approvato cittadino originario il 10 aprile 1726, fu Gastaldo dei Procuratori «de Supra», e morì «Masser all'Arsenal». Vennero del pari approvati cittadini originarii Andrea, figlio di Giovanni, il 2 maggio 1737, Pietro, figlio d'Andrea, il 20 settembre 1760, e Giacinto, figlio di Pietro, il 4 marzo 1790. Quest'ultimo fu pubblico notaio, ed anch'egli era nato in parrocchia di S. Giacomo dall'Orio. Nemmeno la famiglia Colombo di cui ci occupiamo ebbe la gloria di produrre il Cancellier Grande Giovanni. Vedi Colomba (Campiello della).

Colonna (Calle) ai SS. Ermagora e Fortunato. Desunse probabilmente il nome da qualche antica colonna, ora più non esistente, poiché i catasti ed i traslati di proprietà, nominando le prossime case, le dicono poste «alla colonna». Qui pure troviamo anticamente una strada chiamata «Calle dell'Osmarin alla Colonna».

Colonne (Rio Terrà, Sottoportico delle) a S. Marco, presso la «Calle dei Fabbri». Alcune colonne, o meglio pilastri, sorreggono tuttora in questo sito le case. Il «Rio delle Colonne» a S. Marco fu interrato nel 1837, e distrutto il Ponte ch'eravi sopra, e che dicevasi delle «Campane» da una vecchia fonderia di campane, condotta dalla ditta Castelli e Dalla Venezia.

Altre strade di Venezia portano per la medesima ragione il nome medesimo.

Colonnella (Calle) all'Angelo Raffaele. Leggasi, come nelle meno recenti topografie, «Calle delle Colonnelle, o Colonnette», da alcune piccole colonne che qui sorgevano. La Descrizione della contrada dell'Angelo Raffaele pel 1661 segna varie casette qui poste «sotto le colonne». Esse dicevansi le «colonne de S. Bastian» perché prossime alla chiesa di S. Sebastiano.

Colonnette (Sottoportico, Fondamenta) alla Maddalena. Il Sottoportico s'appoggia tuttora ad alcune colonne, che, per essere piccole, hanno nome diminutivo.

Colori (Calle dei) a S. Leonardo. La Descrizione della contrada di S. Leonardo pel 1661 ricorda che in «Calle dei Colori» c'era la casa di «donna Felicita relitta de M. Anzolo Balbi dai colori». Il nome trovasi altrove ripetuto, avendo esistito in Venezia nei tempi andati molte fabbriche per ottenere il verderame, il cinabro, il prussiato di ferro ecc. Nel «Ristretto Generale di tutte le parti della Scuola dei Merciai sino il 22 settembre 1612», che si conserva nel R. Archivio Generale, troviamo circa «quei dai Colori, Battioro Stagnoli, e Taglia Verzìni» i cenni seguenti: «Questi sono stati sempre soggetti alla nostra scola perché nella loro botega tengono tutte le cose aspettanti alla medesima, contro quali in diversi tempi sono nate molte contese pretendendo separarsi da noi, che non li è sortito». Essi nulladimeno avevano raggiunto il loro scopo verso il fine della Repubblica, poiché allora, come si rileva dalla Statistica del 1773, e dal manoscritto d'Apollonio Dal Senno, i «Battioro Stagnoli», in cui comprendevansi i fabbricatori e venditori di colori, formavano un'arte distinta dai Merciai. Rileviamo poi dalla «Guida» del Coronelli che si raccoglievano in chiesa di S. Francesco della Vigna, nella così detta «Cappella Santa», ove il 5 agosto solennizzavano la festività della Madonna della Neve loro protettrice.

Un braccio della «Calle dei Colori» chiamasi pure «Mosto». Vedi Mosto o dei Colori (Calle).

Coltrera (Corte) a Castello. Si denominò probabilmente da qualche fabbricatore di coltri. Un «Cristoforo q.m. Domenico di Benedetti», ricco «coltrer», dalla parrocchia di S. Pietro di Castello, fece il suo testamento il 9 luglio 1481, beneficando il convento di S. Domenico di Castello, ed altri conventi della città. Da tale testamento si rileva ch'egli aveva parecchie case in parrocchia di S. Pietro, e beni in Mestrina.

I «Coltreri», in virtù della legge 12 settembre 1502, vennero uniti ai «Fustagneri», e radunavansi in chiesa di S. Bartolammeo, sotto il patrocinio dell'Invenzione della SS. Croce.

Comare (Sottoportico e Corte della) a S. Cassiano. Secondo il Gallicciolli, questa Corte, ora chiusa, fu così detta perché v'abitava una levatrice. Altre strade sono così denominate, ché anche nei tempi trascorsi di tali donne non eravi penuria. Trovasi che nel 1689, con terminazione 26 settembre, il Magistrato della Sanità stabilì alcune norme circa le donne che volevano esercitare la professione della levatrice. Ordinossi prima di tutto che esse sapessero leggere, e che loro si prefiggesse per testo il libro intitolato «Della Comare»; che producessero un certificato d'aver per due anni assistito alle dimostrazioni delle sessioni anatomiche, relative alla loro arte, e quello di due anni di pratica presso una levatrice approvata; che subissero finalmente un esame, a cui presiedeva il Protomedico, essendo presenti i Priori del Collegio dei Medici, e due levatrici distinte, ciascuna delle quali poteva aggiungere alle interrogazioni del Protomedico «quanto credesse proprio e necessario». In ramo d'ostetricia si distinse principalmente il chirurgo Giovanni Menini, costruttore a proprie spese d'una camera ostetrica così abbondante e giudiziosa che il Veneto Senato acquistolla ad uso pubblico, chiamando il Menini medesimo nel 1773 ad insegnare l'ostetricia tanto alle donne che volevano far le levatrici, quanto ai chirurghi. D'allora in poi anche questi ultimi occuparonsi ad assistere le partorienti, il che prima succedeva di rado, e con esito poco felice.

Comello (Calle) a S. Canciano.

Condulmer. Vedi Gondulmer.

Confraternita (Campo della) a S. Francesco della Vigna. Qui sorge un edificio del secolo XVII, destinato alle riduzioni della Confraternita delle Sacre Stimmate, sotto l'invocazione di S. Pasquale Baylon. Questa confraternita incominciossi a raccogliere il 19 settembre 1603, e, per testimonio della «Cronaca Sacra e Profana», contava nel secolo passato 250 soci. Avea sepoltura nella prossima chiesa di S. Francesco della Vigna coll'epigrafe: sepoltura degli confratelli della scuola del beato pasqual a benefizio dei defunti unita et aggregata all'arciconfraternita delle sacre stimmate di s. francesco in roma mdclxxi. All'epoca napoleonica venne soppressa, ma poscia risorse nel 1815, e fiorisce tuttora.

Console (Calle del) a S. Maria Formosa. Non si sa dove il Berlan abbia pescato la notizia che qui abitasse Paolo Vedova, console di Francia in Venezia. Questi abitava, come si scorge nelle Condizioni del 1661, in parrocchia di S. Marina, della qual chiesa era procuratore, ed in quel tempo la Calle di cui si tratta non portava ancora l'attuale denominazione. Essa fu così detta soltanto dopo la metà del secolo trascorso, quando cioè vi aveva domicilio il console d'Olanda. «Agostin Zerletti, deputato alla consegna delle pubbliche strade», partecipò il 16 maggio 1766 ai «Provveditori di Comun» d'essersi trasferito nella «pubblica Calle denominata del Console d'Olanda, in Calle Longa a S. Maria Formosa», allora nuovamente selciata, e d'aver fatto «con le solite formalità le consegne e le intimazioni» ai vicini, fra i quali eravi «l'Ill.mo Consolo d'Olanda». E' probabile che egli fosse Giovanni Ros, il quale dai traslati del 1760 appare console d'Olanda in Venezia, e morì in parrocchia di S. Maria Formosa il 28 luglio 1767.

Consorti (Calle) ai Gesuiti. Questa strada, ora chiusa, prese il nome da stabili che le monache di Santa Catterina possedevano in consorzio colla famiglia Catena. Vedi la loro notifica del 1661. Perciò un tempo v'era in prossimità la «Calle Consorti e Catene», nonché il «Ramo Catene», vie che avevano comunicazione fra loro, e si convertirono in terreno da legname.

Giusta l'Anagrafi pel 1642, un Antonio Cadena, o Catena, cittadino, abitava in parrocchia dei SS. Apostoli. E' probabile che questi fosse della medesima famiglia, la quale produsse Tommaso Cadena figlio d'Alessandro, mercadante, morto nel 1546, e sepolto con epigrafe nella chiesa dei Crociferi, rifabbricata poscia dai Gesuiti. Troviamo pure nei Necrologi Sanitarii un Nicolò Cadena, frate Crocifero, morto il 27 gennaio 1621, nonché una Laura Cadena, priora dell'ospedaletto dei Crociferi, morta l'8 novembre 1630.

Consorzi (Ponte dei) a S. Marco.

Contarina (Sottoportico e Corte, Ramo Primo Corte, Ramo Secondo Corte) a S. Moisè. In «Ramo Secondo Corte Contarina» scorgesi l'arma Contarina replicatamente sculta sul muro, e leggesi nelle cronache che, fino dal secolo XIV, un Marin Contarini, figlio di Nicolò, abitava a S. Moisè.

Esiste una legge del 1502 per cui le meretrici furono espulse da «Corte Contarina».

Il Gallicciolli fa menzione d'un incendio avvenuto il 14 decembre 1749 dal fornaio in «Corte Contarina».

Per ultimo, nel codice Cicogna 1166 intitolato: «Memorie di Casi avvenuti a Venezia», leggiamo: «Grimani Passarella il 27 Aprile 1782 alle ore 7 in Corte Contarina fu ferito da uno in tabaro». E più sotto: «Fu preso in Piazza certo Leonelli il quale si dice che era agente del Grimani ferito, e che lo abbia così tentato d'uccidere perché gli aveva intimato il rendimento di conto».

Per la famiglia, che così denominò queste, ed altre vie di Venezia, vedi l'articolo seguente.

Conterie (Calle delle).

Convento (Fondamenta del) ora Campazzo, a S. Sebastiano. Trasse il nome dalla sua vicinanza all'ex convento di S. Sebastiano. Vedi S. Sebastiano (Ponte, ecc.). Questa Fondamenta, pell'interramento del Rivo, trasformossi in «Campazzo». Vedi Campazzo.

Convertite (Fondamenta, Rio delle) alla Giudecca. Circa alla metà del secolo XVI s'eresse alla Giudecca un piccolo oratorio sacro a S. Maria Maddalena con annesso convento destinato a quelle peccatrici che, pentite dei loro trascorsi, volevano dedicarsi al servigio di Dio sotto la regola di S. Agostino. Primo rettore e governatore dell'istituto fu un prete chiamato Pietro Leon da Valcamonica, il quale, dopo qualche anno, convinto e confesso d'aver avuto commercio carnale con venti di quelle recluse, e d'aver affogato i frutti de' suoi colpevoli amori, venne decapitato, ed abbruciato in «Piazzetta S. Marco», fra le colonne, il 10 novembre 1561. Egli, prima di morire, volle dal palco di giustizia dirigere al popolo un discorso, conservatoci nel codice Cicogna 2082, in cui, pur confessando i propri peccati, dichiarò di morire fermo nelle credenze cattoliche, ed attestò l'innocenza della madre abadessa, che però dovette finire i suoi giorni in carcere il 27 decembre 1564. L'oratorio delle Convertite venne in seguito ristaurato a spese di Bartolammeo Bontempelli dal Calice, ricchissimo mercadante, ed ebbe consecrazione nel 1579 per mano del patriarca Giovanni Trevisan. Nel principio del secolo presente restò poi secolarizzato insieme al convento, che si fece servire ad ospitale militare. Ora però trovasi restituito al divin culto, avendosi ridotto nel 1856 il convento a carcere femminile. E' noto come le Convertite nel secolo XVI si occupassero eziandio nell'imprimere libri, e come esistano tuttora alcune edizioni uscite dai loro torchi.

Nel 1643, 14 luglio, il gentiluomo inglese Giovanni Bren, o Brin, addetto all'ambasciata d'Inghilterra, presa una gondola da traghetto, stava per asportare dal monastero delle Convertite una monaca, che aveva già messo sotto il «felze», coperta con un drappo, allorquando i barcaiuoli, alle grida dell'altre monache, ricusarono di muovere la barca, e così l'intrapresa andò fallita. Il Bren perciò dovette stare in prigione sei mesi, dopo i quali venne assolto sotto la scusa d'essere giovane alquanto inesperto, e gabbato da una vecchia ruffiana, per nome Margherita Locarda, la quale fu condannata a 4 anni di carcere.

Corali. Vedi Coralli.

Corazzeri (Ramo) a S. Antonino. Un «Antonio Manfredo corazer» da S. Antonino era nel secolo XIV confratello della Scuola grande di S. Giovanni Evangelista («Mariegola» dal 1344 al 1366).

Il «Ramo dei Corazzeri», girando per di dietro, riusciva anticamente in parrocchia di S. Giovanni in Bragora, sopra una Fondamenta, chiamata pur essa dei «Corazzeri», la quale, mediante un Ponte del medesimo nome, comunicava colla «Calle», col «Ramo Calle», e col «Sottoportico dei Corazzeri», tuttora sussistenti per andare in «Calle del Pestrin», verso S. Martino. Tanto la Fondamenta, quanto il Ponte, scomparvero, quando, interrato il Rivo, formossi la così detta «Salizzada del Pignater». Anche in parrocchia di S. Giovanni in Bragora morì il 27 agosto 1576 un «Geronimo de Piero corazer», ed altri di tali artieri stanziavano nella prossima parrocchia di S. Martino.

Esiste una legge del 1347, 21 agosto, con cui ordinavasi che nessun «spader, marzer», od altra persona, che non fosse «corazer», potesse lavorare di corazze, coprirle di nuovo, o venderne, ma soltanto acconciarle, sotto pena di L. 100 da pagarsi alla «Giustizia Vecchia».

Corbetto (Calle) all'Angelo Raffaele. La famiglia Corbetto, diffusa tanto nella parrocchia dell'Angelo Raffaele, quanto in quella di S. Nicolò, produsse quel Domenico Corbetto, il quale concorse nel 1639 alla carica di doge, o gastaldo dei «Nicolotti». Questa famiglia, giusta le Descrizioni della parrocchia dell'Angelo Raffaele pel 1713, abitava nella Calle di cui facciamo parola. Anche «Agostin Zerletti deputato alla consegna delle pubbliche strade», dando parte il 19 settembre 1759 ai «Provveditori di Comun» di coloro ai quali aveva consegnato la prossima «Fondamenta della Pescaria», allora nuovamente selciata, nomina «Vincenzo e Francesco Corbetto», domiciliati «sotto il portico de Calle Corbetto».

Cordaria, a Rialto. Dai fabbricatori di corde, che occupavano 17 piccole botteghe qui poste. I «Cordaroli» (fabbricatori di corde) erano uniti ai «Filacanevi» (filatori di canape), ridotti in corpo nel 1450, e soliti a radunarsi per le loro divozioni in chiesa di S. Chiara, sotto il patrocinio di S. Ubaldo. I venditori di tele, dovendo rispettare quest'arte, non potevano tenere corde e spago. Perciò il venditore di tele Giacomo Nascimben ebbe d'uopo di speciale licenza dalla Giustizia Vecchia per tenere corde e spago a comodo del Fondaco dei Tedeschi, colla condizione però di comperare tali merci dai «Filacanevi» (Parte della «Giustizia Vecchia» 24 aprile 1548). Altre consimili licenze si diedero il 22 agosto 1548 ad Agostino Casson, ed il 16 luglio 1569 a Girolamo Nascimben, figlio del succitato Giacomo. L'arte dei «Filacanevi» era riserbata ai soli Veneziani, e nel 1773 contava 210 botteghe, 300 capi maestri, e 42 garzoni.

In «Cordaria» divampò la sera del 10 gennaio 1513 M. V. un terribile incendio, che distrusse quasi tutto Rialto. Marcantonio Michiel ne' suoi «Diarii» inediti, dopo aver raccontato un altro incendio successo nella stessa sera ai Crociferi, così continua: «Item in detta ora entrò il fuoco in Rialto dalla banda della Cordaria, e bruciò tutto il Rialto, eccetto la chiesa di S. Giacomo et i Camerlenghi, e durò l'incendio tutta la notte, e molto del giorno seguente, et arrivò sino a S. Silvestro, e bruciò tutti gli Uffizi et il Fondaco della Farina, e la chiesa di S. Giovanni, e se non fosse stato spento dalla Maestranza dell'Arsenale, era andato fino a S. Aponale, e saria andato fino a S. Polo. Il quale incendio fu di tanto danno che tutte le rovine già avute da quindici anni pareano nulla, imperciocché, oltre che si persero molti libri pubblici, e denari, e robe di mercadanti ch'erano nelle volte che non si poteano riparar così presto, si disviò la terra dalle faccende, che non si vedea modo di trarre un ducato per sostentare la guerra, oltre che si aveva dubbio di qualche suscitatione di qualche ghiotto, talché furono istituite guardie, e per li sestieri, e attorno Rialto, e massime acciocché le robe dalle ruine non venissero tolte».

Cordellina (Ramo) ai Servi, sulla «Fondamenta degli Ormesini». Un Gaspare Gatti notificò nel 1713 d'appigionare una casa sulla «Fondamenta degli Ormesini» alle «sig. Anzola e sorella Cordellina».

Cordoni (Calle dei) a S. Canciano, in «Birri». Il fabbricare cordoni, galloni ecc., spetta all'arte dei «Passamaneri». Ed appunto un «Valentin passamaner» stanziava in «Calle dei Cordoni», in «Birri», l'anno 1661. I «Passamaneri», eretti in corpo nel 1593, avevano scuola di divozione presso la chiesa dei Crociferi (poscia dei Gesuiti), sotto il patrocinio dell'Angelo Custode. Dividevansi in tre colonnelli, cioè da «Lizzi», da «Molin dopio», e da «Molin ugnolo». Essi nel 1663 presentarono una supplica al Collegio dell'Arti, acciocché chi non era ascritto al loro corpo non potesse fabbricare «cordoni di seda con molinelli ed altri ordegni» ecc. Nel 1773 contavano 205 telai in lavoro, e 153 senza, 42 botteghe, 55 capi maestri, 36 lavoranti, e 4 garzoni.

Coreggio (Calle, Corte) a S. Cassiano. La famiglia Coreggio, che, forse per adulazione alcuni fecero discendere dai signori di Correggio, era originaria di Bergamo. Venuta a Venezia, aprì bottega da merci sotto il Fondaco dei Tedeschi, all'insegna delle tre cinture, o coregge, le quali pure innalzò nel proprio stemma gentilizio. I continuatori del Barbaro incominciano l'albero di questa famiglia da un Orazio domiciliato a S. Cassiano. I di lui figli «Agostin e Zandonà», nato il primo nel 1604, ed il secondo nel 1608, offrirono, nel 1646, 100 mila ducati alla Repubblica pei bisogni della guerra di Candia, laonde vennero ammessi coi discendenti al patriziato. Essi dissero nella supplica per ottenere la Veneta nobiltà che già correva il secondo secolo da che la loro famiglia era in Venezia. Questi due fratelli, pochi anni dopo, comperarono pure la casa, ove presero ad abitare, «in contrà de S. Cassan, in Calle della Regina, sora Canal Grando». La linea dei Coreggio di Venezia andò estinta in un «Zandonà q. Orazio», che si uccise con un colpo di pistola il 25 giugno 1738, restando erede del palazzo un'altra linea domiciliata prima a Napoli. Perciò «Agostin Coregio q. Piero da Napoli» notificò nel 1740 ai X Savii, fra gli altri suoi beni, «una casa in contrà de S. Cassan, in Calle della Regina, dove attualmente abito, e serve tutta per uso di mia famiglia; guarda sopra Canal Grande».

In ca' Coreggio a S. Cassiano si sviluppò il 2 novembre 1758, a 4 ore di notte, un fiero incendio, che avrebbe recato danni considerevoli se non fosse stato ben presto domato.

Corelie (Rio delle) a S. Girolamo. Forse dalla famiglia Corelia, una di quelle che nel secolo XIV vennero a Venezia da Lucca col setificio.

Corfù (Calle) ai SS. Gervasio e Protasio. Vedi Contarini.

Corli (Calle) a S. Tomà. Una persona che sia girovaga, instabile, e leggiera suolsi dire nel nostro dialetto «mato come un corlo» (arcolaio), ed anche «corlo» soltanto. Ciò premesso, vorrebbe il continuatore del Berlan che comunemente venissero onorate di tale epiteto alcune sgualdrinelle, altre volte qui domiciliate, e che da ciò derivasse il nome alla via. A noi però sembra maggiormente probabile che qui ci fosse un fabbricatore di «corli». A conferma della nostra opinione citiamo la notifica, che nel 1582 fecero dei loro beni i fratelli Alvise e Marco Giustinian, nella quale dichiararono di possedere una casa in parrocchia di «S. Tomà», appigionata a «Gasparo dai Corli».

Corona (Calle, Ponte della) a S. Giovanni Nuovo. Trovasi descritta nel 1713 in «Calle della Corona», a S. Giovanni Nuovo, la «hostaria alla Corona, habita Pietro Padrini, di rag. dell'Ill.mo Fran.co Briani».

Anticamente il «Ponte della Corona» appellavasi «Ponte Lion» dalla patrizia famiglia Lion, l'arma della quale scorgesi tuttora scolpita sopra un antico fabbricato respiciente il Ponte medesimo. Questo ponte fu il primo di Venezia a venire rifatto in ferro nel 1850.

Corrente (Calle, Ponte) a S. Sofia. Sono negli Estimi chiamate «Calli Correnti» quelle che, senza ambagi, o deviamenti, guidano ad un punto determinato. Anticamente nella medesima parrocchia di S. Sofia c'erano la «Calle Corrente alla Ca' d'Oro», e la «Calle Corrente verso la Chiesa». Questa di cui parliamo chiamavasi «Calle Corrente di Campo dell'Erba», perché vicina al campo di tal nome. Essa comunicò l'appellazione al prossimo Ponte.

Correra (Sottoportico e Corte, Calle) a Castello. Il «N. U. Polo Correr» possedeva varie case in «Corte Correra», a Castello, nel 1661. Si può dire che Castello sia stata la culla dei Correr poiché fino dal 1252 un «Anzolo Correr», chiamato «el grando da Castello», fu uno degli elettori del doge Renier Zeno. Ed una Cecilia, moglie di Matteo Bellegno, donava alcune sue possessioni poste in S. Pietro di Castello al patriarca di Costantinopoli Pietro Correr con istrumento 10 gennaio 1296 M. V., in atti del notaio Serafino Lombardo, parroco di S. Simeone Profeta.

Corte. Così chiamasi una piccola piazza, o campo, chiusa fra case, da cui per ordinario si deve uscire per la parte medesima per cui si entra.

Cortellotti (Ponte, Calle, Fondamenta dei) agli Ognissanti. Scrive il Pullè, nelle Annotazioni ai «Canti pel popolo Veneziano» del Foscarini, che si chiamava i «Cortellotti» un magazzino, o spaccio da vino, posto qui presso. Egli però non ispiega l'origine del nome. Sopperendo noi al difetto, diremo come questo magazzino così soleva appellarsi, perché anticamente veniva condotto dalla famiglia «Cortellotto di Salvioni», la quale era molto ricca, e possedeva molti beni specialmente nel territorio Bassanese. In parrocchia di S. Basilio, o «S. Basegio», a cui le dette strade erano soggette, morirono, secondo i Necrologi Sanitarii, il 25 luglio 1563 «Hier.o garzon da barca de m. Jac.o Corteloto»; il 2 ottobre 1598 «Battista fio de m. Francesco Chorteloto marchante da vin»; e finalmente il 20 novembre 1618 «Paolo fio del mag.co signor Francesco Corteloto». Notisi che anche nel 1740 era conduttore del magazzino un «Girolamo Donini Cortellotti», ma noi crediamo ch'egli avesse assunto il secondo cognome soltanto in relazione all'antica ditta della quale continuava l'esercizio.

Cortese (Calle) ai SS. Giovanni e Paolo. Un «Nicolò Cortese fo de m. Domenego» notificò nel 1514 di possedere una casa «sora el paludo, a S. Zuane Polo, in la contrà de S. Marina». Avvertasi che la «Calle Cortese», come risulta dagli Estimi, era sottoposta un tempo a tale parrocchia, e che trovasi vicina alle località tuttora chiamate «Corte», e «Ramo Corte del paludo». Varie memorie d'un Domenico Cortese, il quale potrebbe essere il padre dell'accennato Nicolò, trovansi nel secolo XV. Ad un Domenico Cortese, argentiere, i Signori di Notte comandarono nel 1444 di più non lavorare in una sua officina che «cum suo camino alto et eminenti» aveva costrutto nella sua casa, «posita cum uno suo latere in palude», attesoché il fumo nuoceva ai vicini. Avendo però i medici emesso contrario parere, si permise in seguito al Cortese di continuare nel proprio lavoro. — Un Domenico Cortese, l'11 febbraio 1451 M. V., venne condannato a tre mesi di carcere con multa perché cercò d'indurre «Lucam Sextum aurificem et magistrum bullarum» a fargli «unum S. Marchetum falsum pro falso bullare aurum quod ponere intendebat super batituris argenti». — Un Marco Minotto ebbe un processo criminale nel 1464 perché conobbe carnalmente la moglie d'un Domenico Cortese, ricevendo da essa molti danari, ed effetti appartenenti al povero marito. — Un Domenico Cortese da S. Marina, ascritto alla Scuola Grande di S. Marco, morì nel 1489. — Un Domenico Cortese fu sepolto in chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Così ne parla il Codice 27, Classe XIV dei latini, presso la Biblioteca Marciana: «Domenico Cortese giace nella chiesa avanti la porta mezzana, vicino alla pillella. Ha l'arma con un leone sbarrato senza iscrizione».

Cortesia (Ponte, Calle della). Rileviamo che giù di questo ponte, e precisamente per imboccare la così detta «Calle della Màndola», esisteva nel secolo trascorso una locanda all'insegna della «Cortesia» in uno stabile, che anche nel 1805 si prestava all'uso medesimo col C. N. 3097. La «Minerva Veneta» pell'anno 1785 addita la locanda della Cortesia come una fra le migliori di Venezia.

La «Calle della Cortesia» venne nel 1870 alquanto allargata.

Cossetti (Calle e Ponte) a S. Andrea, presso i «Tre Ponti». Leggasi «Cuccetti», come insegna una delle due lapidi poste sulle sponde del Ponte, la quale ha inciso le seguenti parole: Mart.n Cuc.ti consorzio 1778. Troviamo infatti che «Martin Cuccetti q. Zuane», con traslato 2 aprile 1773, fece passare in propria ditta da quella di «Piero, Zuane, e Gregorio abate, fratelli Gradenigo, furono de m. Vincenzo proc.» due case «in contrà della Crose, alli Tre Ponti», acquistate con istrumento 23 settembre 1772, in atti «D. Iseppo Cominciolli Nod. V.» Al pari di Martino Cuccetti, abitarono in parrocchia della Croce, Alvise di lui figlio, ed Alessandro figlio d'Alvise, del quale leggiamo nei Necrologi Sanitarii in data 20 gennaio 1790: «Alisandro q. Alvise Cuccetti, d'anni 27 da ristagno linfatico sino dalli primi Ott. p.° p.°, morì l'ore 6. Medico Rizzo, Cap. S. Croce».

Costantina (Calle) a S. Gregorio. Senza far calcolo di quanto raccontano i cronisti circa la discendenza della famiglia Costantini dai Cassii di Roma, diremo come essa fino dagli antichi tempi produsse tribuni, ed apparteneva al nostro Consiglio, nel quale fu raffermato Alessio Costantini, reduce nel 1125 a Venezia da Costantinopoli, ove, per causa di negozii, la famiglia erasi per qualche tempo trasferita. La linea patrizia dei Costantini andò estinta in Venezia parte nel 1348, e parte nel 1380, conservandosi però ancora per buon lasso di tempo in Candia, ove aveva trasmigrato colle Colonie nel 1211. Fra noi rimase superstite nel ceto della cittadinanza un'altra linea derivata da un Domenico escluso nel 1297 dal Consiglio perché da quattro anni non faceva parte di tale consesso. Anche questa linea produsse, al pari della patrizia, uomini benemeriti della patria, possedeva ricca cappella in chiesa della Carità, e, col volgere del tempo, si suddivise in più rami, uno dei quali aveva casa dominicale ed altre contigue a S. Gregorio anche nel secolo trascorso, come risulta dagli Estimi. Attualmente della famiglia Costantini, oltre ad alcuni rami in Rovigno e Pisino d'Istria, ne esiste uno solo nella nostra città nella persona dell'ingegnere architetto dott. Giovanni Paolo.

Crea. Vedi Creta.

Cremonese (Calle del) a S. Maria Maggiore. In parrocchia della Croce, che sopra questa Calle esercitava la propria giurisdizione, morì il 12 settembre 1581 «Ipolita fia de m. Alessandro di Cremonesi, de ani 12, da febre già m. quattro», e nel 30 agosto 1615: «L'ecc.mo signor Giovanni di Cremonesi medico d'anni 37 da una ferita». Avevamo una famiglia Cremonesi, approvata cittadina originaria.

Creta (Calle della) allo Spirito Santo. Depositi di creta, colla quale formavansi i mattoni da cuocersi in una vicina fornace, diedero il nome a questa via. Vedi Soranzo (Fondamenta) detta della Fornace.

Un «Rio terrà della Crea», forse pel medesimo motivo così appellato, trovasi a S. Giobbe.

Cristi (Calle dei) a S. Cassiano. Vedi Cristo.

Crociera (Calle) a Castello. Vedi Crosera (Calle).

Crociferi (Ramo dei) ai Gesuiti.

Crosera (Calle) a S. Samuele. «Crosera», o «Crociera», diciamo quel luogo dove mettono capo, e s'attraversano le strade. Più volte s'incontra tale denominazione in Venezia.

 

Crosetta (Calle) a San Canciano. Secondo i Necrologi Sanitarii, morì in parrocchia di S. Canciano l'11 febbraio 1630 M. V. «Ant.a moglie di Ant.o Crosetta, d'anni 25, da mal contagioso, giorni 3».

 

Crotta (Fondamenta) agli Scalzi. Un Giuseppe ed un Giovanni Antonio Crotta, avendo esborsato 100 mila ducati alla Repubblica, vennero ammessi alla nobiltà patrizia nel 1649. Essi dissero nella supplica per ottenere tal grazia che Francesco loro padre, nato da nobile famiglia Milanese, trasportossi nel 1600 a Belluno, e si diede agli scavi delle miniere d'Agordo, ove trovò la vena del rame, per la quale benemerenza fu aggregato al Bellunese Consiglio. Non andò guari però che Giuseppe Crotta uccise il fratello G. Antonio, pel quale misfatto venne bandito in contumacia colla confisca de' beni, da devolversi a beneficio della moglie e figli dell'ucciso. Poscia il 28 aprile 1664 recossi in Agordo alla casa della cognata, circondato da bravi, e la costrinse con minaccia a promettergli, alla presenza di un notaio, la restituzione dei beni che gli erano stati confiscati. Perciò ebbe nuova sentenza di bando. I Crotta nel principio del secolo trascorso fecero passare in propria ditta dai Soranzo e da altri proprietarii un palazzo agli Scalzi, che, al loro estinguersi, venne in potere della famiglia Calbo, avendo nel 1739 una Lucrezia Crotta sposato un G. Marco Calbo.

 

Cuoridoro (Sottoportico e Corte) a S. Fantino. Presso il «Sottoportico del Cuoridoro», a S. Fantino, esistevano nel 1713 la «casa e bottega da quoridoro del N. U. Toderini, affittual Antonio Rossi quoridoro». Chiamavansi «cuoridoro» i fabbricatori dei «cuoridori», cuoi dorati, che si usavano un tempo per coprire le pareti delle stanze, le seggiole, i libri ecc. Fino da ignoti tempi i Veneziani ebbero nelle loro lagune l'arte di dorare le pelli, ed i cuoi. Ne facevano così gran traffico col Levante, e colla Spagna, da guadagnarvi ogni anno 100 mila ducati. Quest'arte, che era un colonnello di quella dei Pittori, contava anticamente 71 botteghe, le quali negli ultimi tempi, per le mutazioni avvenute nella moda, erano ridotte a quattro soltanto. Massimo Maracchio nel suo libro impresso in Venezia nel 1794 col titolo: «Istituto di tener in corpi le Arti, risguardato nelle sue teorie e nella sua forma», parla della decadenza in cui a quell'epoca si ritrovava nella nostra città l'arte di dorare i cuoi, ma ricorda tuttavia che nel 1790 arrivò dalla Spagna una domanda di mille pelli dorate, le quali, perché ben pagate, vennero eccellentemente eseguite.

 

Curnis (Campo, Campiello) a S. Apollinare. Queste strade, confinanti col «Campiello della Scoazzera», un tempo detto «Campiello delle Squazze», ripetono il nome dalla famiglia Curnis, che venne da Bergamo, e mercanteggiava in confetture. Un «Francesco Curnis del q. Antonio», con scrittura privata 19 gennaio 1718, registrata negli atti di Bartolammeo Mandelli N. V. comperò da «Polo Contarini» una casa divisa in più affittanze, con bottega e magazzini, situata in parrocchia di S. Apollinare, al «Campiel delle Squazze». Lo stabile suddetto era nel 1740 posseduto da «Giovanni q. Francesco Curnis», che lasciollo ai proprii figli «Z. Antonio e Giacomo», in cui ditta passò il 18 novembre 1768. Questi due fratelli abitavano a S. Apollinare anche nel 1783 e, secondo la «Minerva Veneta», pubblicata in quell'anno erano fra gli «Impresarii Generali dei Sali al di qua del Mincio». La famiglia Curnis domiciliava nella sua casa di S. Apollinare anche in questo secolo, poiché il Cicogna nel volume I delle sue «Inscrizioni», incominciate a pubblicare nel 1824, racconta come l'ingegnere Casoni, volendo esaminare un'antica scultura, posta sulla parte posteriore della chiesa di S. Apollinare, sopra il «Rio della Scoazzera», ora interrato, si valse della gentilezza del sig. Curnis, che aveva casa di rimpetto.

Pagina precedenteRitorna all'indicePagina successiva
Per avere il testo di questa pagina cliccare qui

| Dictionary | Language Today | Sinologos | Wordtheque | Idiomanía | Resources | Forum | News | Awards | Verba |


Logos Webmaster